IL MOVIMENTO OPERAIO E LA GUERRA. IERI E OGGI
di Francesco Ricci
La guerra ha costituito fin dall'inizio del secolo uno spartiacque nel movimento operaio. E' stata la cosiddetta Grande Guerra a segnare la fine della II Internazionale e la nascita del movimento comunista e dell'Internazionale comunista. Ieri e oggi l'atteggiamento verso la guerra ha diviso il movimento operaio non solo tra "socialtraditori" (coloro che appoggiano la guerra) e rivoluzionari, ma anche tra questi ultimi e i centristi o i riformisti di sinistra, imbevuti di pacifismo piccolo-borghese. Proprio per questo è interessante ricostruendo - seppure sommariamente - le divisioni nella socialdemocrazia nel 1914 vedere come spesso la storia si ripeta.
Il 4 agosto della socialdemocrazia
Il 1 agosto del 1914 la Germania dichiara la guerra; il 2 agosto l'esecutivo del partito socialdemocratico (Spd) vota a larga maggioranza una mozione che impegna i gruppi parlamentari a votare i "crediti di guerra", cioè a sostenere le misure del governo. Votano contro i centristi (Haase, Ledebour). Il 4 agosto - data divenuta tristemente celebre - tutto il gruppo parlamentare vota i crediti. Tra loro vi è anche Karl Liebnecht che in un primo momento si disciplina convinto di potersi così battere nel partito contro le posizioni maggioritarie. Quando si accorgerà che non è così ammetterà di aver commesso "un grave errore", cui peraltro porrà rimedio già il 3 dicembre '14 quando, da solo, voterà contro i crediti di guerra. Questo suo atto sarà l'inizio della battaglia internazionale dei comunisti contro il tradimento della socialdemocrazia. Nel marzo del '15, parlando alla Camera, Liebnecht conclude così uno dei suoi più infiammati discorsi nel parlamento borghese: "All'opera! Sia coloro che combattono nelle trincee, sia quanti lottano nei campi devono abbassare le armi e volgersi contro il nemico comune che li priva di luce e di aria." Richiamato al fronte, nel maggio del '15 redige un celebre volantino alle truppe intitolato: "Il nemico principale si trova nel proprio Paese". Per Lenin il voto di Liebnecht "solo contro tutti" e quella parola d'ordine ("la nostra parola d'ordine centrale") diverranno il punto di riferimento dell'ala socialdemocratica che si oppone al tradimento della II Internazionale (cfr.: O.K. Flechtheim: Luxemburg e Liebnecht, Erre Emme, '92; per una bibliografia e un approfondimento di queste vicende si veda anche il dossier su Rosa Luxemburg nell'ultimo numero della nostra rivista).
"Trasformare la guerra imperialista in guerra civile" così Lenin condensa l'esempio di Karl e il compito della sinistra classista che dà vita alle due conferenze svizzere di Zimmerwald (settembre '15) e di Kienthal (aprile '16). A Zimmerwald, però, la posizione di Lenin viene sconfitta da quella astrattamente pacifista dei centristi (20 voti a 8) che ancora a Kienthal non sono disposti a rompere ogni legame con la II Internazionale. Solo la vittoria comunista nell'Ottobre '17 darà un nuovo impulso alla costruzione di un'altra Internazionale (1919) e alla separazione dei comunisti dai "socialtraditori".
Ma nel '14 la maggioranza delle socialdemocrazie nei vari Paesi sostiene la propria borghesia. La lotta di classe viene rimossa col pretesto dell'Unione Sacra della nazione. Come scrive Rosa Luxemburg lo slogan "proletari di tutto il mondo, unitevi" è stato sostituito con "proletari di tutto il mondo, sgozzatevi".
In Italia la medesima posizione capitolarda viene mascherata inizialmente con la parola d'ordine "né aderire né sabotare". I vari Turati e Prampolini cercano così di mantenere il controllo di una indomita classe operaia. Classe operaia che, dopo due anni di mobilitazioni e scioperi, di diserzioni al fronte (nel solo '17 sono oltre centomila i disertori o renitenti alla leva), dà vita nell'agosto del '17, caso unico in tutta Europa, a una insurrezione contro la guerra. E' Torino il teatro di questo atto coraggioso. La Torino in cui la guerra e la produzione bellica hanno rafforzato la concentrazione operaia; una città che nel '17 si trova priva dei generi alimentari basilari (il pane, la farina) e in cui i lavoratori seguono con attenzione gli echi della nascente rivoluzione russa. Sono le donne, il 22 agosto, a iniziare le prime manifestazioni spontanee. Fermano i tram, prendono d'assalto i forni. Alcuni gruppi di operai attaccano le caserme, mentre inizia uno sciopero che le burocrazie sindacali si rifiutano di proclamare. Lo sciopero diventa generale il giorno 23, mentre iniziano i primi scontri a fuoco tra operai e polizia. Su "Stato operaio", pochi anni dopo, i fatti vennero così descritti: "Le donne e gli operai che insorsero nell'agosto a Torino, che presero le armi, combatterono e caddero come eroi, non soltanto erano "contro la guerra" ma volevano che la guerra terminasse con la "disfatta dell'esercito della borghesia italiana" e con una "vittoria di classe" del proletariato. Con ciò essi proclamavano che la guerra non crea un interesse comune tra la borghesia dominante e i proletari sfruttati, con ciò essi superavano le posizioni pseudo-classiste e pseudo-intransigenti del Partito socialista".
Ma mancò un lavoro preparatorio nell'esercito (come ricorderà acutamente in seguito Gramsci) e mancò soprattutto una direzione politica al movimento spontaneo. Mentre gli operai combattevano nelle strade, i loro dirigenti studiavano col prefetto le mosse più indicate per porre fine a tutto. Quegli stessi dirigenti che dopo Caporetto, nonostante la parte più intransigente (Lazzari, Serrati) fosse in galera per l'opposizione alla guerra, dichiareranno per bocca di Turati: "Noi ci sentiamo tutti rappresentanti in egual misura della nazione in armi" (discorso alla Camera il 16-06-18).
(su tutto ciò cfr. la Storia del Pci di Spriano e Renzo Del Carria: Proletari senza rivoluzione, vol. III, Savelli, 1979).
Gli operai di Torino avevano tradotto in azione le parole di Lenin: "La lotta di classe è impossibile senza assestare colpi alla "propria" borghesia, al "proprio" governo, cooperando alla sconfitta del "proprio" Paese". I loro dirigenti, invece, si dividevano tra un aperto sostegno alla borghesia imperialista e un'astratta invocazione della pace. Si determinavano così tre posizioni. quella di capitolazione completa, quella pacifista ma non rivoluzionaria, e quella comunista (ancora embrionale e priva di un partito e di un'Internazionale).
La storia si ripete. In farsa
Come ammoniva Marx, la seconda volta la storia si ripete in farsa. La guerra ricomincia oggi ancora nei Balcani, il movimento operaio si divide. Stavolta la socialdemocrazia europea non si limita a sostenere i propri governi in guerra, ma, guidando gli esecutivi in quasi tutta Europa, gestisce direttamente quella continuazione della politica borghese (con le armi) che è la guerra. Ancora una volta, purtroppo, a questo ennesimo tradimento delle burocrazie operaie non si oppone una consistente e coerente sinistra rivoluzionaria. In Italia questo ruolo spetterebbe al Prc, ma il confuso e velleitario pacifismo piccolo-borghese della maggioranza del suo gruppo dirigente impedisce al partito - che pure sta profondendo le sue migliori energie militanti nelle mobilitazioni di queste settimane - di divenire il partito dell'opposizione rivoluzionaria alla guerra. Vediamo quali sono i tratti principali della posizione assunta da Rifondazione.
La fiducia nella diplomazia borghese
In queste settimane il gruppo dirigente del Prc ha insistentemente chiesto che l'Onu "facesse sentire la sua voce". Non è una posizione nuova. Anche all'epoca della guerra in Bosnia il partito lamentò una presunta insipienza dell'Onu ("Se l'Onu avesse potuto inviare 50-60 mila caschi blu in Bosnia all'inizio del conflitto, invece che pochissime centinaia" rimpiangeva Ramon Mantovani in un discorso alla Camera del 23-06-98, pubblicato su "Liberazione" del giorno dopo). Anche quando vi furono i vari attacchi imperialisti all'Irak si fece appello all'Onu. E pure all'epoca della missione imperialista italiana in Albania la posizione ufficiale del Prc, prima dello speronamento del cargo carico di albanesi, fu possibilista circa un invio militare purché compiuto da militari dotati di casco blu.
Perché l'Onu, che è un'assemblea composta per la quasi totalità da rappresentanti di governi borghesi debba svolgere un ruolo al di sopra delle classi resta un mistero. In ogni caso l'Onu ha poi fatto sentire la sua voce. Il segretario generale Kofi Annan ha primo approvato a mezza voce l'intervento militare; poi è entrato decisamente in campo riproponendo (10-04-99) a Milosevic con altre parole le condizioni contenute nell'ultimatum della Nato, in questo modo legittimando definitivamente sia i raid sia, dopo la prevedibile risposta negativa di Belgrado, il passaggio alla fase di terra dell'attacco che pare - mentre scriviamo queste righe - sempre più probabile.
Una opposizione costruttiva alla propria borghesia
Il secondo punto forte (si fa per dire) della posizione della segreteria si basa su un'analisi fantasiosa del ruolo dei governi europei. Un'analisi che dipinge il conflitto come "una guerra americana" con "l'Italia ridotta a colona Usa" secondo l'espressione usata da Bertinotti nel comizio di chiusura della manifestazione del 10 aprile (vedi "Liberazione", 11-04-99).
Nell'articolo iniziale di questo dossier abbiamo già fornito una serie di elementi che infirmano questa analisi. L'imperialismo europeo, rappresentato dai governi di centrosinistra, cerca in ogni modo di contendere agli Usa il ruolo centrale in questo massacro. E le sollecitazioni ai governi europei a "precedere" gli Stati Uniti nel prospettare l'invasione di terra della Jugoslavia vengono non a caso proprio dai portavoce di quella borghesia "progressista" con la quale da anni la maggioranza del Prc cerca un'interlocuzione (per aprire la famosa stagione del "compromesso di classe dinamico"). Eugenio Scalfari, che non si esprime certo a titolo personale, scrive (sulla "Repubblica", 11-04-99): dobbiamo essere noi europei a sostenere da subito un intervento di terra "proprio per creare un contrappeso all'egemonia americana; ciò consentirebbe di far fare un passo avanti a una forza militare europea".
Altro che Europa succuba!, altro che sovranità limitata! Peraltro la ristrutturazione delle Forze Armate (in Italia e in Europa) mira appunto non a trasformarle in angeli della pace ma, secondo le parole del ministro della difesa Scognamiglio ("Repubblica", 19-11-98) ad "adattarle per essere utilizzate in operazioni tipo quella fatta in Bosnia, in Albania o in Macedonia". Il "nuovo modello di difesa", avviato dal governo Prodi e proseguito dall'attuale esecutivo, e il ridimensionamento dei contingenti di leva a favore di un rafforzamento dei professionisti, serve appunto a questo.
Siamo dunque di fronte a una espressione di ingenuità del gruppo dirigente del partito? Pare proprio di no: si tratta di qualcosa di peggio. In realtà l'enfatizzare oltre il reale il ruolo degli Usa (fomentando anche un certo sciovinismo antiamericano in certi settori della base del partito) serve a sorreggere la traballante teoria uscita già a pezzi dal congresso di marzo secondo la quale l'alternativa che i comunisti devono cercare di costruire non è quella anticapitalistica, ma semplicemente anti-liberista: un'alternativa già in parte incarnata nel modello "neokeynesiano" di Jospin. Questo spiega il ripetuto richiamo all'Europa perché si faccia carico "dei propri interessi economici in quell'area [il Mediterraneo]" secondo le inequivocabili parole di Ramon Mantovani (intervento alla Camera del 23-6-98 pubblicato su "Liberazione" del giorno successivo).
Si tratta della rinuncia a vedere nella propria borghesia il nemico principale. Anzi: si sprecano consigli all'imperialismo italiano perché capisca che "il problema, nell'immediato futuro, consiste nel deficit di protagonismo dell'Europa nella politica estera e in quella di difesa" (Giovanni Russo Spena, intervento al Senato il 13-05-98 nel dibattito sull'allargamento della Nato).
Insomma: non si aderisce alla guerra, certo, né si sostiene (oggi, ieri sì) il governo che la pratica. Ma non si va oltre una leale e costruttiva opposizione ad esso (rafforzata da un convinto sostegno a quella stessa maggioranza politica nelle giunte delle principali città). Non è molto diverso dal "non aderire e non sabotare", in fondo.
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