L'intervento congressuale di Marco Ferrando di presentazione del secondo documento
Le ragioni e i contenuti della svolta che proponiamo al Partito
di Marco Ferrando
Il IV congresso del nostro partito è straordinario, come tutti sappiamo, non già ragioni di calendario ma per lo sfondo politico in cui si è calato: una ricollocazione all'opposizione; la scissione più rilevante della nostra storia; la necessità di ridefinire, dall'opposizione, la nostra linea politica e strategica: e non a fronte di una situazione politica ordinaria ma entro una nuova fase convulsa della cosiddetta transizione italiana che reca in sé un'aggressione frontale, come mai era avvenuto, alla stessa presenza politica e istituzionale dei comunisti.
Proprio questo scenario deve indurci innanzitutto a valorizzare insieme, al di là delle diverse posizioni, un più avanzato livello unitario del nostro partito. Non era un fatto scontato ma tanto più ne va sottolineata l'importanza: il nostro partito è oggi unito da una comune collocazione all'opposizione. Ha rinsaldato la propria unità a difesa di questa scelta contro un'operazione scissionistica tanto inqualificabile quanto triste. Reinveste oggi questa unità nel difficile rilancio dell'iniziativa politica e di massa a partire da quella decisiva campagna antireferendaria che deve impegnare l'insieme delle nostre forze con uno scatto straordinario di tutta la nostra organizzazione.
Ma il IV congresso ha rivelato anche, una volta di più, che unità non è unanimismo. Ed anzi l'aspetto che più mi ha colpito è che proprio il nuovo clima unitario lungi dall'inibire il confronto delle idee, l'ha invece liberato rompendo pregiudiziali e sordità preconcette, abbattendo barriere e steccati, disponendo tutti ad una maggiore disponibilità all'ascolto: un ascolto forse più libero da vecchi riflessi condizionati e proprio per questo più vero, più attento al merito delle valutazioni e delle proposte che al nome o ai nomi dei proponenti. Consentitemi di dire che questo è il successo non di una mozione ma dell'intero partito e, in definitiva, della Rifondazione comunista.
E infatti: posso dire che persino l'ordine del giorno reale dei nostri congressi, è stato piegato positivamente da questa dinamica nuova? Si era proposto un congresso sulla linea politica e sulla fase, senza un rigo sul bilancio e rinviando ancora il tema strategico della Rifondazione. E invece la larga maggioranza dei nostri quadri e attivisti si è confrontata serenamente proprio sul bilancio e sulla Rifondazione: sicuramente con opinioni diverse, certo con limiti e insufficienze, ma con un convincimento diffuso: che non c'è discussione sull'oggi, se non in relazione al passato e al futuro; che non c'è discussione sulla linea politica fuori da un bilancio della linea perseguita e fuori da un progetto sulle finalità di fondo del partito.
Per un bilancio sereno ed onesto
Il bilancio, innanzitutto, è un dovere politico di tutto il partito ed è un dovere, credo, di questo congresso. Persino per un senso di comune rispetto per la nostra memoria. Perché è un po' imbarazzante che lo ricordi io: ma il III congresso due soli anni fa, si annunciò come congresso di svolta, come varo non solo di una nuova collocazione politica, ma di un nuovo corso strategico e di una nuova cultura. Dalla resistenza al progetto, così si disse. Presentammo lo stesso ingresso nella maggioranza di governo come innovazione strategica poiché finalizzata - così si disse - non già ad accomodamenti istituzionali ma allo sviluppo del movimento e del conflitto.
Dicemmo che il movimento e il conflitto, frantumati dal postfordismo, avrebbero necessitato a loro volta proprio della sponda di governo per potersi innescare, dispiegare, ricomporre, permeando così il centrosinistra delle proprie ragioni.
E teorizzammo così il nostro ruolo come ruolo di cerniera tra movimento e centrosinistra al servizio del cosiddetto compromesso riformatore.
Tutte tesi legittime s'intende, legittimamente sostenute per due anni nel partito. Ma ora davvero s'impone un bilancio sereno ed onesto. E il bilancio non può ridursi alla constatazione di una sconfitta senza indagare le ragioni strategiche di quella sconfitta. Perché ciò che è stata sconfitta non è una contingente operazione politica quasi a dire che una prossima volta potrebbe andar meglio, ma l'illusione antica di poter piegare a favore delle classi subalterne il governo delle classi dominanti, il loro personale politico, la loro cultura. Ciò che è stata sconfitta è la pretesa di sottrarci a una verità inscritta nell'intera storia del '900: quella per cui quando una forza del movimento operaio si associa a un governo della classe avversa non piega l'avversario, ne è piegata, non aiuta il movimento, lo rimuove, non gestisce un'avanzata, ma un arretramento.
E' ciò che è avvenuto per due anni.
Cari compagni, possiamo anche raccontare a noi stessi che in due anni non è accaduto nulla, che abbiamo garantito l'Euro senza massacri sociali. Ma poi lo stesso presente della società italiana è assai meno indulgente verso il passato.
E infatti: gli attuali processi di frantumazione sociale che oggi insieme denunciamo, incorporati ad un'autentica colonizzazione del Mezzogiorno, non sono anche l'effetto di quel famigerato pacchetto Treu che ebbe in Parlamento il nostro voto? Il mercimonio dei lavoratori che oggi passa per l'affare Telecom non è anche l'effetto di quella stagione privatizzatrice tanto intensa da aver regalato al governo Prodi il primato delle privatizzazioni in Europa e nel mondo? La caccia all'immigrazione clandestina che oggi dilaga, con effetti devastanti sul terreno del diritto e della coscienza pubblica, non è anche lo sbocco di quelle politiche sull'immigrazione varate da Prodi che inaugurarono lo scempio dei centri lager? La verità è che l'attuale salto offensivo del nuovo governo D'Alema contro conquiste sociali e democratiche è il punto d'approdo non semplicisticamente dell'abbraccio di Cossiga - come vorrebbe una lettura semplicistica - ma di un arretramento profondo dei rapporti di classe nella società italiana quale si è dispiegato per due anni sotto le insegne del precedente governo con effetti strutturali devastanti.
E nulla simboleggia meglio questo salto nella continuità proprio della figura di Romano Prodi e del suo attuale ruolo: quel Prodi che abbiamo sostenuto per due anni in nome della democrazia contro il centrodestra. Quel Prodi che abbiamo sostenuto persino nelle pieghe interne della dialettica della maggioranza. Quel Prodi che abbiamo a lungo elogiato per la sua lealtà negoziale è oggi la guida insieme a Fini di quella volata referendaria mirata a distruggere ciò che resta della proporzionale e la stessa presenza istituzionale del nostro partito. Non è questa la confessione postuma persino clamorosa del fallimento strategico del 21 aprile?
Archiviare la "maggioranza del 21 aprile"
Ora siamo finalmente all'opposizione. Non era scontato, ed è un bene prezioso. Abbiamo scelto la vita, è vero, contro la morte di due anni. Il Partito ritrova finalmente la sua naturale collocazione di classe. Pur in una situazione degradata dalla deriva sociale e politica di due anni, pur a fronte di una più vasta passività di massa, l'opposizione comunista è oggi in campo come unico fattore politico di resistenza, nel tentativo difficile di risalire la china. Nessuna divergenza passata può portare ad oscurare l'importanza di questo evento.
Ma la collocazione all'opposizione non è in sé, come tutti sappiamo, una linea politica, ma è piuttosto la linea politica che si sceglie a dare un senso o un altro alla nostra ritrovata opposizione. E la linea politica a sua volta non è, naturalmente, l'analisi e la denuncia, entrambe largamente comuni tra noi, né la ricerca, anch'essa comune, di una maggiore efficacia dell'opposizione, ma una prospettiva politica, uno sbocco. E su questo devo dire, con franchezza, che il confronto congressuale ha registrato e registra una divergenza netta, che la stessa vicenda politica di questi mesi ha confermato.
No. Non ho condiviso e non condivido la riproposizione pubblica della maggioranza del 21 aprile né come riferimento di prospettiva né come perimetro delle scelte politiche di oggi, dalle elezioni amministrative alle elezioni del Capo dello Stato. Vedo anzi qui il riflesso vero e profondo del nostro mancato bilancio e incognite serie per il nostro futuro.
"Siamo incompatibili con l'Udr di Cossiga" abbiamo dichiarato e dichiariamo. Bene, non vi è dubbio naturalmente su questo. Ma perché non indichiamo la stessa discriminante nei confronti di Prodi, Ciampi, Dini organici tasselli del 21 aprile infinitamente più rappresentativi degli interessi dominanti del paese che non un Udr in disfacimento? Davvero riteniamo, ancor più dopo l'esperienza di due anni, che i Prodi, i Ciampi, i Dini possano essere compatibili non dico con un'alternativa di società ma anche solo con una svolta riformatrice? Davvero riteniamo che una candidatura alla Presidenza della Repubblica di Carlo Azeglio Ciampi, uomo dei banchieri, custode di Maastricht, campione delle finanziarie lacrime e sangue contro lavoratori e disoccupati possa rappresentare addirittura un'ottima candidatura per il solo fatto di circondarsi dell'aureola del 21 aprile?
Sono interrogativi semplici che rimandano alla questione di fondo della natura di classe del centrosinistra oggi in Italia. Perché non si tratta di criticare il centrosinistra, ma di analizzare cos'è il centrosinistra. E a me pare che, al di là del variare imprevedibile dei suoi equilibri interni, il centrosinistra si confermi ogni giorno di più e sempre più come la rappresentanza di governo del capitale finanziario, come la soluzione strategica oggi prescelta dal capitale finanziario e dai capitani d'industria: che con l'abbraccio concertativo dell'apparato dei Ds e del sindacato legano e subordinano al proprio carro grandi settori di classi subalterne, ridotte al silenzio della rassegnazione, private di ogni autonomia, frantumate o colpite nei tentativi di resistenza.
Chiedo: la nostra opposizione deve mirare a risalire un domani su quel carro nell'illusione eterna di deviarne la corsa o dev'essere mirata a far scendere da quel carro lavoratori, disoccupati, giovani restituendo loro un'autonomia di classe e la coscienza dei propri interessi indipendenti?
Dobbiamo ricostruire tra noi e i lavoratori l'illusione di un possibile futuro centrosinistra riformatore o dobbiamo lavorare a liberare i lavoratori e il nostro stesso partito da questa illusione fallita?
Nelle contraddizioni del centrosinistra, per l'alternativa al centrosinistra
Si risponde legittimamente, che il centrosinistra ha molte contraddizioni e che occorre fare politica, non propaganda. Verissimo, l'uno e l'altra cosa. Ma occorre intendersi su quale politica, proprio per evitare tra noi la propaganda.
Rinnoviamo allora davvero il nostro confronto in relazione ai fatti nuovi della vicenda politica nazionale. Siamo oggi in presenza di una contraddizione nuova e profonda nel centrosinistra di governo tra DS e l'inedito partito di Prodi-Di Pietro-Rutelli. E' una contraddizione vera, da indagare, che sarebbe sbagliato ridurre a schermaglie politiciste. Da un lato abbiamo una socialdemocrazia liberale che mira a preservare il baricentro nell'alleanza dell'Ulivo quale garanzia di pace sociale e che oggi apre al contempo agli interessi emergenti di quella borghesia nuova e rampante dei Colaninno che cerca in Massimo D'Alema quello che cercò e trovò in Bettino Craxi. E dall'altro abbiamo un partito di Prodi che si dà come obiettivo strategico la ricomposizione della rappresentanza centrale della grande borghesia italiana: una sorta di partito degli Agnelli con basi larghe che mira a riequilibrare i rapporti di forza con la burocrazia DS nel centrosinistra o che addirittura punta alla dissolvenza stessa della socialdemocrazia italiana entro un grande contenitore democratico.
Dobbiamo noi comunisti intervenire in questa nuova contraddizione? E' indubbio. E' anzi un nostro compito centrale.
Ma dobbiamo cercare di capitalizzarla per riaprire il varco sia pure dal basso di un nostro futuro reinserimento nella maggioranza di centrosinistra, chiedendo equidistanti all'uno e all'altro dei contendenti la riapertura di un dialogo critico?
Oppure dobbiamo cercare di capitalizzare quella crisi contro il centrosinistra, per rafforzare la nostra opposizione da un versante di classe, per sviluppare la nostra egemonia nello stesso popolo di sinistra e tra le masse?
Noi avremmo oggi l'occasione di un grande affondo unitario, a partire dalle lotte, verso ampi settori della base di massa dei Ds per indurli a un bilancio di fondo del centrosinistra . Per dire loro che quell'alleanza col centro, presentata a suo tempo dai vertici Ds come fattore di progresso si è rivelata la metafora dell'alleanza con il capitale sul terreno delle peggiori politiche liberiste. Per dire loro che quell'alleanza col centro, presentata come fattore di difesa democratica rischia di trasformarsi nell'agente distruttivo dell'intera sinistra italiana o nella forma del suo drastico ridimensionamento istituzionale o in quella del suo assorbimento politico.
Per dire loro insomma che occorre rompere col centro, unire, dal basso, nelle lotte, tutte le energie del movimento operaio per ricomporre la sua indipendenza attorno a comuni obiettivi, interessi, ragioni tutte incompatibili col centrosinistra.
E' questa un'impostazione che potremmo articolare in ogni iniziativa di massa, nelle lotte dei metalmeccanici, nella mobilitazione sulla scuola, nella campagna di difesa dell'autodeterminazione della donna. Ovunque incuneandoci nella contraddizione vera e di fondo che attraversa il centrosinistra: quella tra la domanda sociale e democratica di vaste masse che lo sostengono e la sua organica natura confindustriale; quella tra le esigenze e aspettative di larghi settori operai e popolari e la politica liberale di Veltroni e D'Alema.
Ma possiamo liberare questa politica nuova, questa nuova articolazione della tattica, se la nostra prospettiva resta il rilancio del 21 aprile; se quindi noi stessi assumiamo l'alleanza col centrosinistra, sia pure corretto, come nostro orizzonte politico? Possiamo liberare questa nuova proiezione di egemonia presso la base popolare dei DS contro il loro gruppo dirigente, per un'altra sinistra, se preserviamo la cultura delle "due sinistre" certo distinte ma affratellate da un comune destino e quindi destinate a reincontrarsi in un domani entro una nuova combinazione di governo?
Una nuova politica di massa
Penso che la stessa giusta riflessione sull'efficacia della nostra opposizione non sia separabile dalla prospettiva politica che perseguiamo.
Dovremmo infatti liberare davvero un'elaborazione nuova sul nostro lavoro di massa, in una situazione sociale difficilissima. Ragionare sulla stessa necessità di una nostra concreta piattaforma rivendicativa per il rilancio e la ricomposizione del movimento.
Su come giustamente connettere la rivendicazione della riduzione d'orario all'obiettivo di forti recuperi salariali senza i quali continua a lievitare, tramite gli straordinari, l'orario reale. Su come connettere la riduzione d'orario alla richiesta centrale del salario sociale ai disoccupati, che non può ridursi ad agevolazioni simboliche, verso la quale va abbandonata una preclusione che considero assurda.
Dovremmo aprire insomma una riflessione nuova su come agire nei movimenti, in ogni movimento, in una logica di proposta, di direzione politica, posizionando su queste basi la stessa tematica di una autentica rifondazione sindacale che mi pare inseparabile da una logica di egemonia.
Ma questa intera riflessione nuova può decollare davvero nella realtà del Partito se innanzitutto assumiamo l'opposizione come scelta strategica, per l'oggi e il domani, investita nella difficile impresa di ribaltare i rapporti di forza nella società, quale condizione di un'alternativa vera di società.
Non decolla invece se l'opposizione viene assunta come momento tattico, transitorio, finalizzato a ritessere, come nuova Penelope, la tela di una maggioranza di governo che negherebbe per sua natura le ragioni sociali dell'opposizione attuale.
All'opposizione delle giunte uliviste
E così lo stesso spirito del 21 aprile mi pare oggi congeli una situazione letteralmente insostenibile del nostro partito in relazione ai governi locali ed in particolare nelle grandi città e nelle Regioni. Anche qui chiedo davvero di aggiornare il nostro confronto entro una situazione in parte nuova. Potrei limitarmi a ripetere di ritenere grave la nostra corresponsabilità sul piano locale nella gestione delle implicazioni della finanziarie nazionali lungo quella logica del meno peggio che in realtà è il binario del peggio: di ritenere incomprensibile la continuità del sostegno a quel Rutelli del santissimo Giubileo che persino Cofferati (è tutto dire) denuncia come campione del lavoro nero, o a un Bassolino che non solo rifiuta di ricevere i disoccupati ma si è costituito parte civile, in sede giudiziaria, contro le loro lotte. Invece invito tutti a misurarci con un fatto nuovo che a me pare paradossale e abnorme: l'aperta confluenza dei grandi sindaci Ulivisti, da noi sostenuti, nel partito del referendum Prodi-Di Pietro, nel partito dell'attacco frontale ai diritti democratici e parlamentari, e alla nostra stessa sopravvivenza istituzionale.
Di fronte a questa novità può restare immobile la nostra politica e la nostra collocazione? Possiamo continuare a sostenere, con nostri assessori, sindaci puntati oltretutto alla nostra distruzione?
Io credo che questo Congresso nazionale, di fronte alla novità subentrata, debba assumersi la responsabilità di una scelta politica nuova al di là delle divisioni di mozione: il ritiro della fiducia innanzitutto ai Sindaci di Cento città, a partire dal comune di Roma.
Si è aperto un confronto strategico
Ma in realtà tutte le divergenze grandi e piccole della nostra politica riconducono al nodo di fondo della Rifondazione, al grande nodo rimosso della nostra storia.
E' positiva qui la scelta annunciata di un aperto specifico confronto sul Programma fondamentale del partito. Positiva e importante.
Con una consapevolezza, però, penso comune: che il confronto strategico e programmatico è già stato avviato nella forma più chiara proprio da questo nostro Congresso. E non solo perché la domanda di chiarezza sul progetto ha pervaso, al di là delle mozioni, larga parte del dibattito, contro ogni logica di separazione tra linea politica e strategia. Ma più semplicemente perché questa separazione è impossibile: non esiste linea politica che possa essere neutra rispetto ad un orizzonte strategico. E proprio il nostro confronto ne è la prova.
Quando si propone l'alternativa di società come alternativa al liberismo, separata e distinta dall'alternativa al capitalismo, e basata su un programma keynesiano; quando si indica la linea Jospin e Lafontaine come esemplificazione della praticabilità dell'antiliberismo; quando si propone al centrosinistra italiano la linea Jospin invece che quella di Blair come possibile terreno di ricomposizione futura della maggioranza del 21 aprile, cos'è tutto questo se non appunto l'inevitabile connessione di proposta politica, linea strategica, visione programmatica?
Keynes e Lafontaine non possono essere la bandiera dei comunisti
Ma anche qui dobbiamo davvero aggiornare la nostra riflessione congressuale, confrontando le nostre tesi, tutte legittime, con la realtà del mondo e dell'Europa. Con la realtà qual è, non quale vorremmo che fosse.
Abbiamo titolato la prima pagina di "Liberazione" "Jospin alza la testa contro il pensiero unico" nello stesso giorno in cui Jospin annunciava il progetto di riforma a capitalizzazione delle pensioni e gli insegnanti francesi iniziavano la propria denuncia delle politiche liberiste in materia di istruzione. Abbiamo dichiarato una sospensione di giudizio sul governo Schroeder nei giorni in cui Schroeder, allora sostenuto da Lafontaine, annunciava il più vasto piano di privatizzazioni nella Germania del dopoguerra. Sono solo spiacevoli incidenti giornalistici o sono il risvolto persino crudele dello scarto abnorme tra immaginario e realtà?
Certo: dobbiamo cogliere le diversità politiche, sociali e nazionali come le differenze interne alle socialdemocrazie. E' indubbio. Le dimissioni di Lafontaine ne sono la clamoroso risvolto. Ma come non vedere, al di là di evidenti contraddizioni, il comune tratto di fondo delle burocrazie socialdemocratiche europee e la loro internità alle politiche liberiste sia pure diversamente temperate e concertate? Come non vedere che persino gli scampoli neokeynesiani di un Jospin, di un Lafontaine, di un Delors all'insegna del rilancio di politiche espansive, assumono come fonte di proprio finanziamento tagli allo stato sociale, flessibilità del lavoro, privatizzazioni? Non è indicativo che persino le sollecitazioni di Lafontaine all'abbassamento dei saggi di interesse, a imitazione dichiarata della Federal Reserve, si combinavano col sostegno alle ricette americane sul lavoro? La realtà è che ciò che rimane del keynesismo oggi in questa epoca di crisi, è tanto poco alternativo al liberismo da essere finanziato dalle politiche liberiste.
E in ultima analisi, la stessa sconfitta di Lafontaine sta qui.
Paradossalmente, non è sconfitto il suo radicalismo, ma la sua moderazione. Non è sconfitta la presunta alternatività della sua proposta rispetto all'Europa di Maastricht e alle politiche liberiste. E' sconfitta la sua pretesa di condizionamento interno di quelle politiche, di quell'Europa, di quel patto di stabilità da egli stesso accettato e difeso. E' sconfitta la sua pretesa di condizionamento interno di un governo socialdemocratico di collaborazione col capitale tedesco come fu sconfitta la nostra illusione di condizionamento interno di un governo Prodi ipotecato dal capitale italiano.
Anche per questo la bandiera Lafontaine, come metafora politica, è tanto più oggi una bandiera sbagliata per i comunisti.
Per una aperta opposizione all'imperialismo europeo
Abbandoniamo allora un "approccio astratto" qui sì ideologico, alla questione della socialdemocrazia e del nostro rapporto con essa. Superiamo un'ambiguità irrisolta. Dobbiamo scegliere. Non solo tra il sostegno critico a Jospin e le lotte di lavoratori, disoccupati, studenti contro la sua politica e il suo governo. Non solo tra il sostegno critico a Lafontaine e l'aperta contestazione del patto sociale da parte della sinistra sindacale tedesca. Dobbiamo scegliere un posizionamento strategico in Europa e verso l'Europa a fronte di un bivio obbligato.
Possiamo scegliere l'accettazione di fatto dell'attuale quadro europeo, sia pure per chiederne la democratizzazione e sollecitare riforme keynesiane: ma di fatto così accetteremmo, al di la di ogni intenzione, la natura di una Europa imperialistica, arena di giganteschi processi di concentrazione finanziaria, proiettata alla propria espansione sui mercati del mondo, in lotta spietata con Usa e Giappone: illudendo oltretutto i lavoratori e noi stessi sulla sua possibile futura dimensione "sociale".
Oppure possiamo scegliere una collocazione di opposizione al polo imperialistico Europeo, ai suoi interessi, ai suoi governi - lavorando a connettere ogni episodio di opposizione sociale e resistenza di classe alla prospettiva strategica di un'alternativa anticapitalista in Europa. Lavorando a costruire un ponte unitario, certo non facile, non solo tra i lavoratori e i disoccupati dei diversi paesi europei, ma tra il movimento operaio europeo e i popoli oppressi che anche l'Europa oggi sfrutta; non solo tra il metalmeccanico italiano e il metalmeccanico tedesco o francese, colpiti dalle medesime politiche, ma tra i metalmeccanici italiani e i lavoratori brasiliani sfruttati dalla Fiat, tra gli operai tedeschi e i minatori romeni prima piegati e poi comprati con le loro valli dal capitale tedesco, tra i lavoratori francesi e quelle genti d'Africa che i capitali francesi continuano a colonizzare anche sotto le bandiere di Jospin. Con una consapevolezza: che se è giusta la denuncia tanto più oggi dell'imperialismo americano, della sua arroganza militare, del suo cinismo diplomatico, non è meno importante la lotta all'imperialismo dell'Europa, all'imperialismo di casa nostra. E che la sovranità nazionale che i comunisti debbono rivendicare non è la sovranità del tricolore ma è la sovranità di quelle nazioni oppresse, di quei miliardi di uomini e donne che nel Sud del Mondo ed oggi nell'Est dell'Europa sono schiacciati dai capitali finanziari di tutte le bandiere, siano esse americane, francesi o italiane.
Scegliere una collocazione nel "movimento comunista"
Questo è dunque il bivio. E la nostra scelta determina e determinerà la nostra stessa collocazione non solo nella sinistra europea ma anche nello stesso movimento comunista.
Perché il confronto che attraversa qui il nostro partito attraversa in realtà larga parte delle forze comuniste dell'Europa e del mondo, entro una aperta battaglia politica. E anche qui dobbiamo scegliere, nella chiarezza.
Possiamo scegliere, ad esempio, di sostenere i vertici della Pds. tedesca che hanno aperto a Schroeder moltiplicando i governi comuni come oggi in Magdeburgo e domani in Turingia. Ma possiamo interessarci agli argomenti della sinistra interna di quel partito che chiede invece un opposizione aperta al governo socialdemocratico tedesco e alla suicida corresponsabilità dei Verdi .
Così possiamo scegliere di sostenere la politica della maggioranza dirigente del Partito comunista francese, che immemore del disastro del proprio sostegno al riformista Mitterrand dei primi anni ottanta, ha scelto la partecipazione critica al governo liberista temperato di Jospin. Ma possiamo invece riconoscere le ragioni di quella vasta sinistra interna al Pcf, ben radicata tra gli operai comunisti della Peugeot e della Michelin, che chiede oggi al proprio partito di sottrarsi al logoramento, di ritornare all'opposizione, di sviluppare un'alternativa alla socialdemocrazia.
E possiamo scegliere finalmente di interlocuire con quella sinistra rivoluzionaria francese che ottiene oggi il voto di milioni di lavoratori disoccupati, giovani, su un'aperta opposizione al governo Jospin e all'Europa di Maastricht.
Il nodo di fondo della rifondazione
Ma queste stesse scelte di collocazione richiamano la natura stessa del nostro progetto generale. E' questo il nodo decisivo, che la mozione Per un progetto comunista si è assunta la responsabilità di affrontare.
Si è detto che la nostra "è una fuga ideologica, un rifiuto di confronto con le novità del mondo".
E' vero l'opposto. Ciò che proponiamo è infatti proprio il confronto finalmente con la svolta d'epoca del mondo con la grande crisi congiunta del capitalismo e del riformismo.
Perché è la vecchia cultura riformistica e neokenesiana che non regge di fronte alla nuova grande crisi. E' la vecchia illusione dei buoni governi riformisti come possibile tappa di progresso che è smentita quotidianamente dall'esperienza concreta delle controriforme temperate della socialdemocrazia. E' la vecchia illusione pacifista di una possibile riforma dell'Onu come neutra autorità internazionale che non regge di fronte al nuovo rilancio delle grandi contraddizioni tra i blocchi imperialistici nel mondo.
Ecco, l'attualità di una svolta programmatica, di una coerente rifondazione comunista sta qui non nell'ideologia, ma nella nuova realtà.
Come agli inizi di questo secolo, entro una crisi profonda del capitalismo e del riformismo, i comunisti sono chiamati a proporre al movimento operaio una rottura con l'assetto politico e culturale ereditato dall'epoca passata di pace, prosperità, sviluppo. Per consentire al movimento operaio di reggere la sfida della nuova epoca di crisi, di instabilità, di convulsioni sociali che investe e investirà il mondo. Per consentirgli lo stesso incontro con quelle domande antagoniste e di liberazione che vengono dall'oppressione della donna come dalla devastazione dell'ambiente e che sono incompatibili con Lord Keynes, non col Marx della rivoluzione.
"Ma l'alternativa di sistema è immatura" si obietta.
Beh, se si intende che è immatura la coscienza soggettiva di quelle grandi masse che dovrebbero realizzarla; che sono oggi immaturi i rapporti di forza fra le classi, in Italia, in Europa, nel mondo per questo sbocco radicale, si afferma francamente un'ovvietà. E certo, dopo il crollo dell'Urss, le sconfitte materiali del movimento operaio e la devastazione delle coscienze che ne è seguita, possiamo dire che la forbice tra la necessità oggettiva di un'alternativa di sistema e le condizioni soggettive per la sua realizzazione resta drammatica. Ma qual è il compito di noi comunisti, della Rifondazione, di fronte a questa forbice?
E' quello di aggirare questa contraddizione, ripiegando noi stessi su quelle illusioni riformistiche che dovremmo invece debellare tra le masse contribuendo di fatto ad allargare quella forbice? Oppure il nostro compito è opposto: è quello di lavorare controcorrente, dall'opposizione, oggi e domani, alla difficile saldatura tra gli obiettivi immediati e l'alternativa anticapitalistica, sgombrando il campo dalle vecchie illusioni, riconducendo tutta la nostra politica di massa alla conclusione di fondo che "L'alternativa di società è anticapitalistica o non è" Questo è il codice di riflessione che proponiamo.
Ma la rifondazione non può ridursi alla restaurazione di un "dogma" si osserva.
E' vero, ma l'obiezione è mal posta. Nessuno pensa e può ragionevolmente pensare che a fronte di quanto è accaduto in questo secolo e delle nuove trasformazioni oggi del mondo, la Rifondazione comunista possa ridursi al puro esercizio di una memoria storica. Perché la rifondazione è anche lettura critica, nuova elaborazione, attualizzazione e aggiornamento del programma.
Ma il punto è: che cosa vogliamo rifondare, attualizzare, aggiornare.
Perché la rifondazione keynesiana è cosa diversa ed opposta da una rifondazione comunista. Aggiornare un programma di intervento pubblico nell'economia capitalistica, è cosa diversa dall'aggiornare un programma socialista, di superamento della proprietà privata, di pianificazione democratica dell'economia. Aggiornare un programma di riforma democratica delle istituzioni borghesi è cosa diversa dall'aggiornare il programma del loro rovesciamento per costruire come diceva Gramsci, un'altra democrazia, un altro potere. Rifondare il riformismo è cosa diversa, appunto, dal rifondare il comunismo. Mi permetto di aggiungere che quest'ultima impresa è terribilmente più complessa, più problematica, più complicata. Ma qui sta la nostra scommessa, la nostra ragione fondante, la nostra unica, vera radice.
Per una riforma del nostro partito
Il rilancio della Rifondazione comunista risponde infine, io credo, anche alle necessità più profonde del nostro stesso partito. Non solo al nostro futuro, ma al nostro presente. Non solo alla coerenza di classe della nostra azione politica che è inseparabile dai fini. Ma agli stessi problemi piccoli e grandi della nostra vita politica quotidiana, alla necessità di riformare nel profondo la costituzione materiale della nostra organizzazione.
Anche da qui emerge infatti la necessità di una svolta, non organizzativa ma politica.
Non sono sufficienti gli appelli rituali al radicamento sociale senza una nuova cultura di egemonia nel rapporto coi movimenti e con le lotte che motivi il partito al radicamento liberandolo dalle pulsioni governiste ed elettoralistiche, come dalle politiche di immagine.
Non sono sufficienti gli appelli sacrosanti alla militanza, alla formazione, alla stessa civiltà del confronto contro rissosità e primitivismi fuori dalla ricostruzione di una tensione ideale e programmatica che solo la Rifondazione comunista può alimentare e fuori dalla costruzione di un codice comune di confronto che solo un progetto generale può fondare.
Non è sufficiente infine la pur apprezzabile evocazione della democrazia del partito e nel partito, senza l'avvio di un progetto comunista che fondi uguaglianza e libertà tra tutti i militanti che lo perseguono che fondi la necessaria unità d'azione del partito sul confronto paritario e libero di idee e proposte diverse, non solo nelle parentesi congressuali.
In conclusione
In conclusione, care compagne e compagni, si sono confrontate e si confrontano, serenamente come abbiamo visto, non la linea e il dissenso: ma diverse valutazioni sul bilancio, diverse proposte politiche, diversi orizzonti strategici. Non c'è in questo ragione di sorpresa, né di scandalo. Non esiste al mondo oggi alcun partito di ispirazione comunista ed anticapitalista che non sia solcato da un confronto aperto di opzioni diverse. Razionalizziamo insieme questo dato, assumiamolo non come spiacevole ingombro, ma come possibile arricchimento, non come anomalia da sanare ma come democrazia da governare.
Facciamolo, e il nostro partito sarà insieme più libero e più unito. Perché l'esperienza comune ha ormai disvelato che l'unità del partito non è stata e non è minacciata da chi ha avanzato ed avanza proposte alternative. E' stata travolta da coloro che hanno votato all'unanimità sino alla vigilia le risoluzioni del segretario in nome della cultura della sintesi come negazione della dialettica interna. E così i compagni accusati per anni di tramare la scissione perché portatori di proposte diverse sono qui. Tanti e autorevoli dirigenti che di questo li avevano accusati siedono oggi sui banchi del governo.
Cari compagni, l'unità del partito è più forte nella libera dialettica delle differenze, più debole, nella recitazione dell'unanimismo. La "coppia più bella" del mondo celebrata per anni nel partito come simulacro rassicurante dell'unità è stata la tomba dell'unità. Perché la realtà si vendica sempre prima o poi delle finzioni d'immagine. E noi tutti dobbiamo rifondare la nostra unità non sulle finzioni ma sulla verità libera delle nostre idee, dei nostri convincimenti.
Per qualunque questione riguardante queste pagine web potete contattare Luciano Dondero. |