A SPASSO PER IL PARTITO
Alcune osservazioni in margine ai dibattiti nel recente congresso
di Alberto Airoldi
Molte analisi sono state fatte, come naturale, sui risultati del quarto congresso del nostro partito. Un aspetto che frequentemente viene trascurato e di cui, al contrario, bisognerebbe fare tesoro, Ë l'approfondimento dei più significativi argomenti emersi nel dibattito. Per chi ha condotto una battaglia su posizioni marxiste rivoluzionarie deve essere importante scavare nelle argomentazioni altrui, studiarne il retroterra, valutarne la presa sulle platee.
Lungi dal voler essere esauriente, intendo segnalare alcune delle questioni più discusse, senza tacere il fatto che il dibattito Ë stato quasi sempre molto povero e circoscritto.
Què viva Keynes!
Il keynesismo, anzitutto. Lord Keynes, Ë il caso di dirlo, vive e lotta insieme a noi. Lo fa in modo discreto, con una presenza spesso inconscia: una vera e propria possessione che si manifesta con argomenti di seconda o terza mano. Voglio dire, insomma, che Keynes per quel che fu, lo conoscono in pochi. Molti sinceri quadri e dirigenti del partito ignorano candidamente il disgusto per le masse popolari e l'odio per il comunismo che contraddistinguevano questo distinto inglese. Forse basterebbe qualche citazione, qualche giudizio sugli "stupidi e rozzi" bolscevichi, sul comunismo come "paccottiglia", ecc. per far capire che non stiamo parlando di un "compagno di strada", magari riformista e illuminato, ma di un coerente anticomunista e di un grande avversario. Essi restano inebriati, in tempi di privatizzazioni e tagli al cosiddetto "welfare", dall'intervento statale nell'economia e dallo stimolo della domanda attraverso la spesa pubblica. "Non sono certo keynesiano, ma tra chi taglia le spese sociali e chi mi propone interventi pubblici nell'economia " dice l'uno, "la rivoluzione non Ë certo all'ordine del giorno, quindi dobbiamo appoggiare, all'interno delle socialdemocrazie europee, quelle che hanno capito che non si può reggere una politica neoliberale e propongono una svolta neokeynesiana " fa eco l'altro.
Per essere sinceri un po' di keynesismo mascherato gira anche nella sinistra del partito, tra chi continua a credere che le crisi siano originate dal sottoconsumo delle masse, e che, quindi, se i padroni fossero un po' più illuminati e alzassero i salari...
Tutto ciò fornisce una misura di quanta strada debbano fare le analisi marxiste all'interno del partito, di un partito in cui fino a pochi mesi or sono Nerio Nesi faceva il responsabile dell'economia (e bacchettava in pubblico un insigne filosofo marxista, Meszaros, reo di aver parlato male del "più grande economista" di questo secolo, lord Keynes, appunto).
Qualche elementare considerazione, a questo punto, si impone. Anzitutto non Ë chiaro che l'intervento dello stato nell'economia non Ë sinonimo di progressivo avvicinamento al socialismo o quantomeno di gestione progressiva e riformista dell'economia. In questo ha ragione Keynes quando sostiene che non bisogna essere necessariamente comunisti o fascisti (guarda caso Keynes li mette sullo stesso piano) per accettare la pianificazione: essa Ë compatibile con il profitto e non mira neppure a trasformare necessariamente il sistema salariale.
In molti nel nostro partito ritengono che la politica economica sia una sorta di menu che varia a seconda del ristorante: prima o poi ci si renderà conto che lo chef keynesiano offre piatti migliori (magari per tutti) a prezzi più contenuti (per le masse). In realtà, volendo insistere con la metafora, non si coglie che lo chef Ë sempre lo stesso (magari coi baffi posticci) e bilancia abilmente il menu. Quante volte bisognerà ricordare il pesante intervento dello stato nell'economia ai tempi di Reagan o di Pinochet perché si capisca che il "monetarismo" e il "neoliberismo" non sono antitetici al "keynesismo"?
Non vi Ë, quindi, chi ci offre sacrifici e chi ci elargisce nuovo welfare, ma tutt'al più diversi orientamenti sui tempi e i modi dei sacrifici, diverse preoccupazioni di diverse frazioni della borghesia. E così, mentre noi, "realisticamente", chiediamo almeno un po' di keynesismo, dato che le masse pare non vogliano sentir parlare di comunismo, ecco che lo chef confeziona il "liberismo temperato". Con buona pace di forum e cineforum, associazioni e manifestazioni, marce e petizioni contro il "neoliberismo", che, quale ricetta invecchiata, può essere archiviata nello scaffale delle politiche antioperaie.
Keynesiani, ma per volere delle masse
L'alibi della scarsa coscienza delle masse Ë un altro dei cavalli di battaglia dei sostenitori della maggioranza. E' un argomento assai popolare, che fa presa sui militanti in quanto sembra vendicarli di tante frustrazioni accumulate nelle discussioni, al lavoro o al bar. E' l'argomento principe del riformismo, ma tutti sembrano esserselo scordato. La versione più raffinata si presenta più o meno così: "Certo che un partito comunista deve stare a un livello più elevato della coscienza delle masse, ma non chilometri più in alto ". Ovvero, quando da anni si Ë costretti a difendere trincee sempre più arretrate e a perderle sistematicamente, si perdono inevitabilmente di vista il punto di partenza e quello di arrivo. Si pensa, di volta in volta, che quantomeno si debbano difendere: le pensioni, la sanità, la scuola pubblica, ecc. Quando si perde su tutto le possibilità diventano: o dire che si Ë vinto (ma l'illusione dura poco) o pensare che si debba arretrare ancora e difendere ancora un altro "meno peggio". E' lo schema mentale a cui ci hanno abituati due anni di governo Prodi, Ë lo schema mentale tipico dei Comunisti Italiani, che funziona, come riflesso condizionato, anche in molti militanti del Prc. La rivoluzione, il comunismo, ecc., diventano, da questo punto di vista, persino ridicoli, oppure, si trasformano, nelle razionalizzazioni più raffinate, in uno scenario futuro, nell'utopia che serve a motivare le scelte (keynesiane) dell'oggi.
Se la radicalizzazione avviene a destra?
In un altro ginepraio ci si imbatte non appena si solleva il problema delle alleanze. Il primo elemento eclatante Ë la diffusa incapacità di pensare alla questione se non in termini politici o culturali: "Interloquire con le culture critiche, con le diverse anime dell'ambientalismo, con i cattolici progressisti, coi Ds, coi Verdi, coi Popolari". Praticamente nessuno coglie l'importanza di saper parlare a lavoratori, disoccupati, sottoccupati, a prescindere dall'appartenenza politica, la sensibilità culturale, ecc., ma a partire dalla radicalizzazione che si manifesta sempre più confusamente in questi settori. Pare che le ricerche, tanto spesso citate all'interno del partito, sul voto operaio alla Lega Nord, sulla contemporanea appartenenza alla Cgil e alla Lega in molte fabbriche lombarde, sul voto di molti disoccupati ad An. In queste contraddizioni noi dobbiamo attrezzarci ad entrare, come nelle crepe che si possono creare nella base operaia dei Ds: ma la linea politica, gli argomenti propagandistici, le iniziative di lotta che servono a questo scopo sono assai distanti dalla politica attuale del partito, e anche dalla strumentazione che può servire per esempio per trattare coi Popolari nelle giunte locali e interloquire con le "culture critiche". Sono due piani completamente distinti. D'altra parte non Ë sprecandosi negli elogi verso il papa "unico critico del capitalismo" o cercando convergenze nella comune critica al "neoliberismo" che si possono intercettare lavoratori cattolici, tutt'al più qualche intellettuale. Oggi i riferimenti culturali, le culture politiche di appartenenza o di provenienza sono assai labili, il voto, la simpatia politica sono ben poco ideologiche, e lo dimostrano i flussi elettorali che attraversano le forze politiche recepite come più radicali. Per questo dobbiamo sforzarci di comprendere come parlare al nostro blocco sociale spesso indipendentemente da come vota e dai suoi riferimenti politici immediati.
Non si vuole con ciò negare l'importanza della battaglia sul terreno culturale, né sminuire la forza della nostra "ideologia", al contrario: tanto più saremo chiari, coerenti con i nostri presupposti e con il nostro programma, tanto più ci mostreremo come i più radicali non solo come "critici del capitalismo", ma anche come propugnatori di una trasformazione sociale rivoluzionaria, tanto più saremo credibili nelle nostre battaglie quotidiane.
Lafontaine si dimette e Jospin bombarda
L'arretramento del dibattito Ë addirittura eclatante se si pensa che la situazione internazionale, a neppure un mese dallo scoppio della guerra, non ha avuto praticamente nessun peso. Qui si sconta spesso l'illusione, ben fomentata dal documento di maggioranza e da alcune interviste di Bertinotti, su una presunta funzione antimperialista dell'Europa. Per non parlare degli interlocutori che la maggioranza individua: Jospin e Lafontaine, che "certo non hanno il nostro programma, ma sono contrari al neoliberismo e aprono contraddizioni nelle socialdemocrazie di destra. Sarebbe miope non vedere le differenze tra Jospin e Blair o D'Alema...". Chissà se coi loro 10/10 oggi i nostri tattici delle contraddizioni tra le socialdemocrazie vedono ancora nitidamente tali differenze.
Infine ben pochi hanno chiaro il crescente ruolo imperialista dell'Italia (alcuni negano addirittura che l'Italia svolga una politica imperialista), le ambizioni dell'Europa, il confronto economico (e militare, nei tempi e nei modi oggi possibili) tra l'Europa e gli Usa. Quest'idea idillica della Unione europea, ovviamente, non può neppure lontanamente spiegare lo sforzo bellico europeo, i suoi interessi nella dissoluzione della Jugoslavia. E infatti, davanti all'enormità della guerra ci si rifugia dietro le sottane del papa, con posizioni di generico pacifismo, incapaci di dire qualcosa di più e di diverso sugli interessi in campo, sulle diverse responsabilità.
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