La dimensione internazionale dell'ottobre
di Piero Acquilino
La storiografia borghese ha spesso presentato la Rivoluzione d'Ottobre come un fenomeno prettamente russo, prodotto dalle condizioni particolari (arretratezza, assolutismo) dell'impero zarista. Lo scopo è chiaro: esorcizzare lo "spettro che si aggira per l'Europa", dimostrando l'impossibilità di una rottura rivoluzionaria in un paese capitalista avanzato.
Su un altro versante e con altri argomenti anche lo stalinismo ha avuto interesse a battere il chiodo della specificità russa: in questo caso si trattava di giustificare l'assoluta predominanza del Pcus sul movimento comunista internazionale e l'abbandono di qualsiasi prospettiva di rivoluzione internazionale, in favore della costruzione del "socialismo in un paese solo".
In entrambi i casi, la rivoluzione internazionale, di cui l'Ottobre rosso è stato lo splendido inizio, scompare. E l'assalto al Palazzo d'Inverno, dopo la rovinosa caduta dell'Urss e dei paesi satelliti, rimane soltanto un episodio storico, pur importante, a metà tra il folklore e la tragedia.
Dopo ottant'anni, per noi impegnati nel difficile compito di ricostruire un movimento comunista nell'Europa di Maastricht e nel mondo del "pensiero unico" liberista, è invece di fondamentale importanza riconsiderare l'Ottobre a partire dal quadro internazionale in cui esso è avvenuto, dalle contraddizioni economiche e sociali che lo hanno reso possibile dalla coscienza di classe organizzata, elemento indispensabile per la sua realizzazione.
L'imperialismo
Nello scritto L'imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916) (1) Lenin aveva messo in luce le caratteristiche della fase economica che aveva portato al primo conflitto mondiale: 1) concentrazione della produzione e del capitale con la creazione dei monopoli; 2) fusione del capitale bancario e del capitale industriale nel capitale finanziario; 3) predominanza dell'esportazione di capitale sull'esportazione di merci; 4) nascita delle multinazionali; 5) divisione del mondo tra le grandi potenze imperialistiche (2).
Il potere espansivo del capitale sembrava veramente non avere più limiti e sconvolgeva equilibri secolari: imperi millenari come quello cinese crollavano sotto l'azione combinata della penetrazione dei capitali e dei colpi delle cannoniere. L'Africa e l'Asia venivano trasformate in immense colonie e depredate delle loro ricchezze.
Lo sviluppo capitalistico non seguiva schemi preordinati e non rispettava i confini nazionali: non c'era nessun passaggio automatico e lineare dalla fase di capitalismo nascente, al capitalismo maturo e poi all'imperialismo. Piuttosto c'era un intreccio di fasi diverse, dove il sottosviluppo di un paese, o di una zona, era funzionale allo sviluppo di un altro paese, o di un'altra zona. E' quello che Trotsky definiva lo "sviluppo ineguale e combinato". Per il globo iniziavano a viaggiare vorticosamente capitali, materie prime e masse di proletari in cerca di lavoro.
L'esempio dell'impero zarista è significativo: sullo sviluppo del capitalismo autoctono analizzato da Lenin nello scritto Lo sviluppo del capitalismo in Russia (1898) (3), prese il sopravvento l'intervento del capitale internazionale, mentre l'agricoltura aveva ancora i piedi nel medio evo, nascevano moderne ed enormi concentrazioni industriali. Gli interessi dell'"arretrata" Russia si intrecciavano con quelli delle "progredite" Francia e Gran Bretagna e, ironia della storia, una repubblica e una monarchia costituzionale nate entrambe da due rivoluzioni diventavano il puntello internazionale dell'assolutismo zarista. Al contrario crescevano gli attriti con gli imperi confinanti per garantirsi sfere d'influenza sempre più ampie.
A oriente, nel 1905, scoppia la guerra russo-giapponese, la cui conclusione con la sconfitta zarista, porterà alla prima rivoluzione russa nello stesso anno; a occidente i contrasti tra Russia e gli imperi centrali porteranno i contendenti a soffiare sul fuoco dei nazionalismi contrapposti nei turbolenti Balcani. Il 28 giugno 1914, l'attentato contro l'Arciduca d'Austria a Sarajevo, ad opera di nazionalisti serbi filo-russi, sarà solo il segnale per proseguire la politica con i mezzi della guerra.
La guerra mondiale
L'attrito tra Stati nazionali era solo la causa esteriore del conflitto: il marxismo aveva da tempo messo in luce come il modo di produzione capitalistico, con la sua tendenza alla sovrapproduzione di merci, conducesse inevitabilmente alla guerra: sia per necessità di distruggere merci all'interno (compresa la forza-lavoro), sia per fame di mercati all'esterno. È con la guerra che i profitti del grande capitale fanno balzi in alto vertiginosi.
Naturalmente, visto che è sempre difficile trovare qualcuno disposto a farsi massacrare per il profitto, il lavoro di mascheratura ideologica era, anche in questo caso, imponente: intellettuali, poeti, scienziati: tutti a spiegare, secondo le proprie competenze, come il nemico rappresentasse una minaccia per la democrazia, per l'arte e per la civiltà. Con l'avvicinarsi del conflitto si affermò un vero e proprio "pensiero unico", omogeneo nella sostanza e differenziato solo perché nemici e amici cambiavano a seconda del paese. In questo modo, i valori democratici nati dalla rivoluzione francese venivano difesi, contro il militarismo prussiano, nientemeno che da Nicola II, autocrate conosciuto dalle masse del proprio paese con l'eloquente appellativo de "il sanguinario".
In ogni nazione la guerra coagulava un blocco economico, sociale e militare che esercitava un'egemonia, ideologica e politica, sull'intera società. Tale egemonia si estendeva su di un amplissimo arco politico (dall'estrema destra al socialismo riformista), esprimeva correnti ideologiche e culturali (interventismo, nazionalismo), dava vita a una militanza nelle manifestazioni in favore della guerra e nelle associazioni militari e formava, tramite l'esperienza comune della guerra, la coscienza di larghe masse di combattenti.
La prima guerra mondiale rappresentava un vero e proprio salto di qualità rispetto alle guerre del secolo precedente: il numero di paesi coinvolti, la potenza distruttrice degli armamenti, la durata stessa dello scontro, provocarono uno shock nella società europea. Un milione di morti nella battaglia di Verdun (1916); solo un soldato francese su tre uscì indenne dalla guerra; morirono mezzo milione di inglesi sotto i trent'anni, quasi un'intera generazione (4). Sul fronte orientale la Russia subì perdite altrettanto spaventose E se la carneficina toccò tutte le classi sociali, furono gli operai e, soprattutto, i contadini che pagarono i prezzi maggiori.
Nelle retrovie la mobilitazione spopolava le campagne di uomini ed animali da lavoro, facendo precipitare il tenore di vita. Sui mercati cittadini le derrate alimentari scarseggiavano: non a caso le prime rivendicazioni delle masse russe raccolte dai bolscevichi per il vittorioso assalto al potere saranno: pane e pace.
La guerra sconvolgeva gli equilibri sociali: milioni di contadini il cui orizzonte di vita non aveva mai oltrepassato il campo o, al massimo, il villaggio, venivano sradicati a forza dalla loro situazione, irregimentati con una disciplina feroce, costretti a scegliere tra farsi uccidere dal nemico o farsi fucilare. In Italia, soprattutto dopo Caporetto, i plotoni d'esecuzione dei carabinieri lavoravano senza sosta: oltre 4000 condanne a morte pronunciate, quasi un migliaio eseguite, senza contare le esecuzioni sommarie (5).
Come osserva Antonio Gibelli (6), la prima guerra mondiale applicava al conflitto le rigide forme di organizzazione del lavoro, di selezione e di utilizzo della scienza che, nei decenni precedenti, si erano affermate in fabbrica: Il taylorismo metteva la divisa: l'operaio-massa della catena di montaggio si trasformava nel soldato-massa della guerra di trincea.
Nello stesso momento in cui il capitale imponeva sui proletari e sui contadini il suo potere assoluto, era costretto a minare alcuni pilastri di questo potere costruiti in tempo di pace. Il rispetto delle leggi, i tabù dell'omicidio e del quieto vivere venivano spazzati via. L'operaio e il contadino tornavano dalla guerra profondamente mutati: passati attraverso esperienze e sofferenze terribili, avevano visto morire i loro compagni a centinaia di migliaia e, soprattutto, avevano imparato a combattere. La fiducia delle masse nei governi era profondamente minata dal contrasto tra le promesse di vittorie sfolgoranti e di un avvenire migliore e l'amara esperienza di privazioni e massacri. Gruppi nazionali minoritari, ingabbiati da uno status quo tra grandi potenze che durava da decenni, vedevano, nella crisi degli imperi multinazionali, la possibilità di un'autodeterminazione fino ad allora negata: a Pasqua del 1916 si ribellava l'Irlanda, oppressa dalla corona britannica; dalla crisi dell'Austria-Ungheria e dell'impero zarista nascevano ben nove nuovi stati. In tutta Europa si creava una situazione rivoluzionaria.
I sintomi di una tale situazione erano stati così definiti da Lenin nel 1915: "1) L'impossibilità per le classi dominanti di conservare il loro dominio senza modificarne la forma; una qualche crisi negli "strati superiori", una crisi nella politica della classe dominante che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento e l'indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che "gli strati inferiori non vogliano", ma occorre anche che "gli strati superiori non possano" vivere come per il passato; 2) un aggravamento maggiore del solito dell'angustia e della miseria delle classi oppresse; 3) in forza delle cause suddette, un rilevante aumento dell'attività delle masse, le quali, in un periodo "pacifico" si lasciano depredare tranquillamente, ma in tempi burrascosi sono spinte, sia da tutto l'insieme della crisi che dagli stessi "strati superiori", ad un'azione storica indipendente" (7).
Lenin constatava questi sintomi nel complesso della realtà europea e non nel solo impero russo. Per lui, e per il marxismo rivoluzionario, l'era delle rivoluzioni nazionali era definitivamente finita e si apriva un processo che aveva dimensioni continentali. Il problema diventava quello di capire in quale situazione la rottura poteva avere inizio, cioè quale era "l'anello più debole della catena".
La crisi del movimento operaio
Ma la guerra apriva un fronte anche all'interno del movimento operaio. Gli ultimi anni dell'800 e l'inizio di questo secolo avevano visto uno sviluppo straordinario del socialismo su scala continentale. In tutti i paesi i partiti aderenti alla II Internazionale erano diventati organizzazioni di massa con centinaia di migliaia di aderenti e milioni di voti. Il partito guida dell'Internazionale, la socialdemocrazia tedesca, nonostante le leggi antisocialiste del periodo bismarkiano era riuscita a costruire una struttura organizzativa poderosa: oltre tre milioni di voti, cinquanta giornali quotidiani (8). Gli altri partiti europei, a cominciare da quello francese, erano poco da meno. E, se nell'Internazionale alcuni avevano da tempo iniziato a mettere in discussione l'obiettivo della rivoluzione sociale secondo la celebre parola d'ordine di Edward Bernstein "il fine è nulla, il movimento è tutto", nessuno metteva esplicitamente in dubbio la necessità della lotta contro la guerra.
Nel 1912 tensioni internazionali causate dalla politica coloniale e la prima guerra balcanica avevano indotto il Bureau dell'Internazionale socialista a convocare un congresso straordinario a Basilea. Il manifesto conclusivo, votato all'unanimità, è, sulla questione della guerra, estremamente chiaro: "Se minaccia di scoppiare una guerra, la classe operaia dei paesi interessati, e i suoi rappresentanti in parlamento hanno il dovere, aiutati dall'azione coordinatrice del Bureau internazionale, di fare ogni sforzo per impedirla con tutti i mezzi che ritengono più adeguati
"Nel caso poi, in cui, ciononostante, la guerra scoppiasse essi hanno il dovere di intervenire per porvi rapidamente fine e di sfruttare la crisi economica e politica provocata dalla guerra, per svolgere l'agitazione tra gli strati più bassi della popolazione e per accelerare la caduta del dominio capitalista" (9).
Meno di due anni dopo, nel luglio 1914, il manifesto di Basilea era già dimenticato. Di fronte al precipitare della situazione verso la guerra, l'Internazionale si dimostrò impotente e non organizzò nessuna reazione alla mobilitazione. Disorientate e prive di direzione, le masse dei lavoratori restavano in balia del nazionalismo borghese. La manifestazioni di quella che in Francia chiamavano "union sacrée", cioè dell'unità tra partiti socialdemocratici e partiti borghesi ai fini della guerra, coinvolsero anche molti proletari.
I governi si resero presto conto che non c'era nulla da temere da un movimento operaio diretto in tal modo e marciarono risoluti verso la guerra, accantonando, sia in Germania che in Francia, ogni progetto repressivo nei confronti dei dirigenti socialdemocratici (non certo di quelli rivoluzionari).
Il 4 agosto 1914, al Reichstag, la socialdemocrazia tedesca votò in favore dei crediti di guerra, quella francese la imitò ben presto; le direzioni sindacali l'avevano preceduta di qualche giorno concordando con il governo tedesco la tregua sociale.
La capitolazione di fronte alla guerra dimostra che la II Internazionale era diventata un colosso dai piedi d'argilla. I partiti di massa che la componevano erano attrezzati per agire in tempi pacifici, ma incapaci di far fronte al precipitare degli avvenimenti. L'opportunismo delle loro direzioni aveva trasformato l'utilizzo rivoluzionario della tribuna parlamentare in parlamentarismo e concepiva le posizioni conquistate nella società non come strumenti della rivoluzione, ma come obiettivi in sé, da salvaguardare costi quel che costi. Il patrimonio materiale (sedi, giornali ecc.) del partito e del sindacato era diventato più importante degli obiettivi programmatici.
E la guerra trasformava l'internazionalismo proletario in un abbraccio mortale con le borghesie nazionali all'insegna del peggiore sciovinismo. Trotsky, espulso dalla Francia dal Governo dell'"union sacrée", scriveva al ministro "socialista" Guesde una sprezzante lettera aperta di commiato, rivendicando l'eredità del socialismo, di cui Guesde era stato uno dei principali esponenti, contro il tradimento del Guesde, ministro di un governo di guerra, che discuteva con lo zar sul "modo più sicuro per impadronirsi di Costantinopoli" e concludeva: "Espulso da voi, lascio la Francia con una fede profonda nel nostro trionfo. Sopra la vostra testa lancio un saluto fraterno al proletariato francese che si risveglia al grande destino. Senza di voi e contro di voi, viva la Francia socialista!" (10).
Questo tradimento della politica dell'Internazionale era stato preceduto da profondi mutamenti nella teoria. Nonostante che il dibattito sulle tesi di Bernstein si fosse concluso all'inizio del secolo con una formale sconfitta del revisionismo, il centro dell'Internazionale, in base a una concezione evoluzionistica dello sviluppo economico, teorizzava che il capitalismo sarebbe crollato inevitabilmente per le sue contraddizioni interne. La società sarebbe quindi caduta senza sforzo nelle braccia della socialdemocrazia se queste fossero state abbastanza forti da sorreggerla. La rivoluzione si riduceva al massimo ad un mitico "sciopero generale", panacea di ogni male: il partito diventava così un elemento statico e conservatore.
Queste teorie non erano il frutto di errori di questo o quel dirigente, ma avevano la loro base in concreti rapporti tra le classi. Scriveva Lenin, argomentando la rottura dei bolscevichi con la II Internazionale: "L'opportunismo consiste nel sacrificare gli interessi fondamentali delle masse agli interessi temporanei di un'infima minoranza di operai, oppure, in altri termini, nell'alleanza di una parte degli operai con la borghesia, contro la massa del proletariato. La guerra rende tale alleanza particolarmente evidente e coercitiva. L'opportunismo è stato generato, nel corso dei decenni, dalle particolarità di un determinato periodo di sviluppo del capitalismo, in cui uno strato di operai privilegiati, che aveva un'esistenza relativamente tranquilla e civile, veniva "imborghesito", riceveva qualche briciola dei profitti del proprio capitale nazionale e veniva staccato dalla miseria, dalla sofferenza e dallo stato d'animo rivoluzionario delle masse misere e rovinate. La guerra imperialista è la diretta continuazione e la conferma di un tale stato di cose, perché è una guerra per i privilegi delle grandi potenze, per la ripartizione delle colonie tra queste grandi potenze e per il loro dominio sulle altre nazioni. Per lo "strato superiore" della piccola borghesia o della aristocrazia (e burocrazia) della classe operaia, si tratta di difendere e di consolidare la propria posizione privilegiata " (11).
Date queste premesse, non è certo un caso se, come sostiene lo storico Georges Haupt: "Alla vigilia della guerra l'energia delle direzioni è completamente assorbita dalla lotta contro l'ala radicale, minoritaria, ma sempre più combattiva" (12). Come sempre, quando la borghesia diventa amica, la rivoluzione si trasforma in mortale nemica.
La ricostruzione dell'Internazionale
La catastrofe della socialdemocrazia, avvenuta proprio all'affermarsi su scala europea di una situazione rivoluzionaria pose immediatamente all'ordine del giorno, per le minoranze rivoluzionarie che si erano opposte alla deriva sciovinista dei gruppi dirigenti, la ricostruzione di una nuova internazionale.
Spesso, soprattutto da storici e giornalisti borghesi, l'Internazionale comunista viene presentata come uno strumento creato dal potere sovietico per estendere il proprio dominio sul mondo. Ma, se si analizza in modo meno superficiale la sua genesi si può facilmente constatare che, pur essendo stata formalmente fondata nel 1919, cioè dopo la rivoluzione d'ottobre, il suo processo formativo datava almeno dal 4 agosto 1914, cioè dal famigerato voto dei crediti di guerra da parte della Spd.
Allo scoppio della guerra la rottura di alcuni nuclei rivoluzionari con la direzione dell'Internazionale aveva già una storia lunga. In Germania, Rosa Luxemburg, reduce della battaglia contro il revisionismo di Bernstein, aveva rotto con Kautsky, massima autorità della II Internazionale, già nel 1910, sulla base del rifiuto di quest'ultimo di inserire la repubblica tra le rivendicazioni del partito (13). Tra i russi, Lenin, pur non rendendosi conto dell'involuzione in atto ai vertici del partito tedesco (romperà ufficialmente con il "rinnegato Kautsky" solo nel 1914), conduceva dall'inizio del Novecento una battaglia durissima contro l'ala menscevica del Posdr sulla base delle più completa autonomia di classe del proletariato nei confronti della borghesia. Tendenze di sinistra esistevano in quasi tutti gli altri partiti dell'Internazionale.
Allo scoppio della guerra i partiti italiano e svizzero, rimasti su posizioni pacifista, tentarono invano di ottenere una riunione della direzione dell'Internazionale. Il fallimento di questo tentativo contribuì a spostare su posizioni radicali i socialisti che, in Europa, continuavano ad avversare il conflitto. Il partito socialista svizzero accettò di convocare, in segreto, una conferenza internazionale contro la guerra. Tale conferenza ebbe luogo a Zimmerwald, presso Berna, dal 5 all'8 settembre 1915, e riunì le diverse tendenze internazionaliste europee. Il manifesto conclusivo, indirizzato ai proletari d'Europa, metteva in luce il carattere interimperialistico della guerra, denunciava la capitolazione dell'Internazionale, ma rimaneva sul vago per quanto riguardava i mezzi con i quali bisognava opporsi alla guerra. Il manifesto di Zimmerwald ebbe un'enorme eco in Europa e fu sottoscritto da interi partiti socialisti tra i quali quello italiano, svizzero, rumeno, bulgaro, portoghese da tutte le componenti socialiste russe, polacche e statunitensi. Lenin, accettando il manifesto con riserva, cominciò a lavorare per raggruppare l'ala conseguentemente rivoluzionaria, pur mantenendo l'unità con la componente moderata.
La Commissione socialista internazionale, fondata a Zimmerwald, convocò una nuova conferenza a Kienthal dal 24 al 30 aprile 1916. In questa occasione la sinistra pone chiaramente il problema della rottura con gli opportunisti e della fondazione della terza Internazionale. Commentando i lavori della conferenza Zinov'ev conclude: "Due ideologie, due concezioni del mondo, due programmi, due Internazionali: quella dei socialisti e quella dei socialpatrioti. La seconda conferenza di Zimmerwald è un passo avanti in questo senso La Terza Internazionale deve venire, essa verrà. La lotta rivoluzionaria delle masse l'attuerà." (14).
L'anello più debole della catena
Con la rivoluzione del febbraio 1917 in Russia l'anello più debole della catena imperialista cominciò a rompersi. La speranza dei menscevichi e dei socialrivoluzionari che si potesse abbattere lo zarismo e sostituirlo con un regime democratico-borghese attraverso la spinta delle masse operaie e contadine urtava contro la realtà: le masse volevano la pace, ma gli interessi della borghesia russa, al pari delle altre borghesie europee, erano legati alla guerra. La "via nazionale" alla democrazia si rivelava, nei fatti, impraticabile. Per avere la pace gli operai e i contadini russi dovevano abbattere non solo lo zar, ma anche il governo borghese.
Lo scontro tra il blocco sociale diretto dal proletariato e la borghesia era direttamente sul piano internazionale: come per i governi Miljukov e Kerensky era stato di vitale importanza onorare gli impegni dello zar con gli alleati, così per il governo bolscevico era altrettanto importante onorare l'impegno della pace preso con i lavoratori russi ed europei. Con il trattato di Brest-Litovsk, accettando pesantissime condizioni militari e territoriali, il governo sovietico privilegiava gli obiettivi di Zimmerwald e la sopravvivenza della rivoluzione rispetto all'integrità territoriale dello Stato russo.
I soldati tedeschi impegnati sul fronte orientale che nel '14 erano stati abbandonati alla loro sorte dalla socialdemocrazia, vedevano cessare i combattimenti per opera di un governo comunista: una nuova internazionale rivoluzionaria metteva le radici nella realtà.
La strategia dei bolscevichi
Come abbiamo già ricordato, Lenin valutava che, con la guerra, si fosse aperta per l'intera Europa una situazione rivoluzionaria e che l'impero zarista fosse la situazione nella quale le condizioni oggettive (profondità della crisi economica e sociale) e quelle soggettive (presenza di un partito d'avanguardia profondamente radicato tra i lavoratori, crisi del potere zarista e di quello borghese), aprissero maggiori possibilità per l'inizio di un processo rivoluzionario su scala europea. Egli, da marxista dialettico, combatteva il meccanicismo della II Internazionale che riservava la rivoluzione socialista ai paesi capitalisticamente più avanzati; nondimeno aveva chiara l'impossibilità di costruire un'economia socialista in un paese solo e, per di più, arretrato.
Rivoluzione russa e Internazionale comunista non erano soltanto due elementi collegati, ma erano due aspetti della stessa unità: con la rivoluzione si creava una testa di ponte, un riferimento politico e una base organizzativa per la rivoluzione internazionale. Non a caso i partiti aderenti all'Internazionale comunista definiranno se stessi, sezioni dell'IC, cioè articolazioni nazionali di un unico grande partito rivoluzionario.
Nella lettera aperta di commiato ai lavoratori svizzeri, prima di salire sul celebre "vagone piombato" che lo avrebbe riportato a Pietrogrado, Lenin scriveva: "La Russia è un paese contadino, uno dei paesi più arretrati dell'Europa. Il socialismo non vi può vincere direttamente e immediatamente". E, dopo aver descritto le misure che la rivoluzione russa avrebbe dovuto adottare per sopravvivere, continuava: "Con le sue sole forze, il proletariato russo non può condurre vittoriosamente a termine la rivoluzione socialista, ma può dare alla rivoluzione russa un'ampiezza che crei per essa le migliori condizioni, e, in una certa misura, la inizi. Può rendere più facili le condizioni per l'intervento del suo principale, più fedele e sicuro collaboratore, il proletariato socialista europeo e americano, nelle battaglie decisive" (15).
Per Lenin la necessità, per il proletariato russo, di prendere la direzione della rivoluzione, era da un lato determinata dall'incapacità della borghesia russa di portare a compimento la stessa rivoluzione borghese, ma dall'altro era la condizione indispensabile per fare della rivoluzione russa il prologo della rivoluzione socialista internazionale. Su questa linea si articolerà la battaglia che per oltre un decennio vedrà confrontarsi proletariato e borghesia in Europa.
La sconfitta su questo terreno porterà al dominio della barbarie fascista e nazista sull'Europa e alla controrivoluzione burocratica di Stalin in Urss: alla "mezzanotte nel secolo".
Note
1. V. I. Lenin: Opere complete. vol. XXII. pagg. 187-303. Editori Riuniti 1966.
2. Op. cit., p. 266.
3. V. I. Lenin: Opere complete. vol. III, Editori Riuniti 1956.
4. Eric J. Hobsbawm: Il secolo breve. Rizzoli 1996, p. 38.
5. Enzo Forcella Alberto Monticone: Plotone di esecuzione. Laterza 1972, p. LXXIX.
6. Antonio Gibelli: L'officina della guerra. Bollati Boringhieri 1991, pp. 14-15.
7. V. I. Lenin: "Il fallimento della II Internazionale". In: Opere complete, vol. XXI, p. 191. Editori Riuniti 1966.
8. Roberto Michels: "La socialdemocrazia tedesca", in: Michels. Antologia di scritti, a cura di Giordano Sivini, Il Mulino, Bologna 1980, p. 90.
9. Jules Humbert-Droz: Le origini dell'internazionale comunista, Guanda 1968, pp. 7-11.
10. Lev Trockij: "Le tzarisme sur le sol républicain", in: La guerre et la révolution, Editions Tête de Feuilles, Paris 1974. Vol. II, p. 234.
11. V. I. Lenin: "Il fallimento della II Internazionale", in: Opere complete, vol. XXI, pp. 218-219. Editori Riuniti 1966.
12. Georges Haupt: L'Internazionale socialista dalla Comune a Lenin. Einaudi 1978, p. 290.
13. Rosa Luxemburg: "La teoria e la prassi", in: Scritti scelti, Einaudi 1975, pp. 317-377
14. Grigorij E. Zinov'ev: articoli sul n. 2 di Vorbote, 10 luglio 1916, in: Jules Humbert-Droz: op. cit., pp. 227-231 (le sottolineature sono di Zinov'ev).
15. V. I. Lenin: Lettera di commiato agli operai svizzeri" 26marzo (8 aprile) 1917, in: Opere complete, vol. XXIII, pp. 368-369.
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