Divagare navigando : Poesia e Narrativa


Spero che le poesie e i racconti che ho scritto piacciano anche a voi ! Un ciao ... a presto.

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Queste sono alcune delle mie poesie !

Pomeriggio

Una ape sbatte
contro il vetro della
finestra semiaperta
Vento leggero
s'infiltra
tra le lenzuola
umide.
Brivido
corre sulla pelle
veloce
come bacio negato.
E' la fine
-lo sai-
dal tuo
non desiderare.

Tristezza

Tacendo
Ricordi
Inediti
Stasera
Ti
Eludo
Zitta
Zitta
Amandolo.

Autobiobrafia falsa

E' strano sentirsi
una statua di gesso,
mentre con voce
fintamente calma,
ti dicono che
hai un tarlo.
Ti alzi
nella notte
e guardandoti
allo specchio
te ne accorgi:
dal gesso che
si sbriciola
lentamente.

Mare in tempesta

Fluttua
ondeggia
si agita, si alza
Di colpo
ricade
torna ad ondeggiare
gorgogliando
e con
impeto
si solleva
nel vuoto
per poi
distendersi
allungarsi
avvicinarsi
al cielo
e ricadere
con fragore.

C'e' un sito per gli appassionati che cercano di essere "letti" : Biblioteca dell'inedito

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La sorte

di Vincenzo Cerami e Paola Mazzocchi

C’è chi sorride al padrone per paura che il cane gli salti addosso. E c’è anche chi sorride al cane per rispetto del padrone. Fortunato apparteneva a questa seconda specie umana. Tanta era la sua ansia di piacere che aveva imparato a indossare con naturalezza ogni abito. Riusciva sempre a incarnarsi nell’idea che gli altri si erano fatta di lui. Per questo si sentiva amato e poteva fare sogni tranquilli. Ma quel giorno la sorte gli tirò un brutto scherzo. Qualcuno gli chiese involontariamente di essere ciò che mai avrebbe potuto essere. Forse se stesso, chi sa. Finalmente, quando era ormai convinto di aver sbagliato strada, vide il bivio con la Madonnina di pietra. Girò e si vide di fronte una salita dall’asfalto sconnesso. In alto sulla sinistra, circondato dai pioppi, apparve un convento monumentale, austero come la faccia d’un vecchio. Senza fermarsi Fortunato guardò la mappa segnata a matita sul foglietto, calò la marcia e prese una mulattiera ripida, subito a destra. Chiuse i finestrini perché il vento spingeva in macchina la terra sollevata dalle ruote. Dietro a quella polvere il sole s’era ingiallito. Un arbusto secco rimbalzò sul cofano e volò via. Da un momento all’altro si aspettava un grande cancello di ferro fuso, con le colonnine di granito rosso.
Questo apparve proprio dietro ad una curva, era aperto e percorse il viale che lo separava dalla villa. Arrivando nel cortile era certo di trovare qualcuno ad attenderlo e rimase deluso trovandosi solo davanti ad un vecchio portone di legno verde, ricoperto in parte dall’edera. Nessun campanello ma un semplice batacchio a testa di leone. Ebbe l’impressione che il suono si ripercuotesse lungo le pareti. Attese qualche minuto mentre la sera ormai prendeva corpo. Uno scricchiolio e la porta fu aperta da una bimbetta che con un filo di voce chiese di seguirla e lo condusse in una stanza. Guardandosi intorno aspettò l’arrivo della Madre Superiora che si occupava del collegio. Non si sentiva a proprio agio in un ambiente così austero e lontano dal proprio mondo, però aveva bisogno di lavorare e l’offerta di occuparsi del giardino, in cambio di vitto e alloggio con un piccolo compenso in denaro, gli era sembrata buona. L’arrivo della Madre Superiora confermò la sensazione di freddo che aveva provato varcando il portone. Fu salutato con molta gentilezza ma non vide un accenno di sorriso su quel volto. Data l’ora tarda Suor Agnese lo fece accompagnare nella casa del custode dove avrebbe vissuto, da solo.
La stessa ragazzina lo guidò lungo un corridoio sino alla cucina e, aperta la porta, gli indicò una casetta che appena si delineava nel buio. Attraversò il parco, immaginandolo pieno di colori con la luce del giorno, e arrivò in breve tempo davanti alla casa. L’ambiente era confortevole: un piccolo salotto, un cucinino, una camera da letto e un bagno. L’indomani Fortunato fu chiamato dalla Madre Superiora e gli fu detto quale fosse esattamente il lavoro che avrebbe dovuto svolgere. Il parco della villa si rivelò una sorpresa per la varietà di piante presenti e fu contento di aver accettato quel lavoro. Passando dalla cucina Fortunato incontrò suor Letizia, la cuoca, dalla quale si fece dare qualcosa per la colazione. Ebbe modo di sapere che la villa ospitava un collegio per bambini. Fece un giro di perlustrazione ed iniziò a lavorare potando delle siepi di rododendro, poiché i rami avevano invaso il piccolo passaggio. La potatura richiese molto tempo ed era quasi ora di pranzo quando finì di ripulire il viale dai rami tagliati. Sentì il suono di una campanella e si avviò verso la cucina. Attraversato il prato, che lo separava dalla villa, la sua attenzione fu attratta da un rumore che proveniva da dietro una siepe, si avvicinò e vide un bambino accucciato su se stesso che dondolava e cantava una cantilena di cui non si capivano le parole. Fortunato riconobbe la voce di suor Letizia che lo chiamava e si diresse verso la cucina. Mangiò con appetito e, bevuto il caffè, tornò a lavorare senza pensare più al bambino che prima aveva visto. Passò il resto della giornata tra mimose, betulle e rose, ammirando la bellezza delle ninfee di un laghetto situato al centro del grande parco. Le giornate si presentavano piene di cose da fare e il loro ritmo era scandito dallo scampanellio all’ora di pranzo e dall’imbrunire che non permetteva di lavorare all’aperto. Il quinto giorno rientrando in casa, dopo aver innaffiato diverse siepi, Fortunato sentì di nuovo quel mugolio che il primo giorno lo aveva attratto. Questa volta proveniva dalle scalette che portavano all’ingresso secondario. Arrivato lì vide quel bambino; avrà avuto forse dieci anni: minuto, pallido, con i capelli biondi e ricci. Se ne stava seduto su un gradino e si dondolava ripetendo sempre lo stesso suono. Lo chiamò, ma il bambino non alzò neppure la testa. Sentì aprire la porta che dava sulle scale e apparve suor Letizia, che chiamò il piccolo: Francesco. Rientrarono tutti e due in casa e a Fortunato non restò altro che fare la stessa cosa. Quella sera, però, non riuscì a fare a meno di pensare a quel bambino mentre cercava di vedere la televisione. Si domandava perché un bambino così bello se ne stesse in disparte e perché, poi, si dondolasse a quel modo. L’indomani, appena sveglio, si recò da Suor Letizia per sapere qualcosa di Francesco: era orfano, viveva lì dall’età di tre anni ed era affetto da autismo. Tutti avevano difficoltà nel comunicare con lui e così si era creato un suo mondo. Avevano provato a imporgli un ritmo di vita diverso ma si era rifiutato, tirando calci e mordendo chi aveva attorno ed anche se stesso, sicché lo avevano lasciato vivere a modo suo. Fortunato si sentì triste. Uscì per andare a curare una pianta di ibisco. Mentre lavorava, cercava di immaginare un mondo solitario come quello di Francesco e non poteva credere che una persona potesse isolarsi così, anche se il bambino aveva sofferto per la perdita dei genitori, sentendosi abbandonato. Era stato visitato da tanti medici e sottoposto a varie terapie, passando tra tante mani, ma senza ottenere nessun miglioramento. Nei giorni seguenti Fortunato ebbe modo di guardarlo da lontano, per non disturbarlo, ma anche per l’incapacità di stargli vicino, per la paura che Francesco lo potesse colpire o graffiare come spesso faceva con chi lo infastidiva. Dentro di sé non si sentiva tranquillo e diceva a se stesso che il problema non era certo suo, era lì da troppo poco tempo per affrontare quella situazione: se neanche le suore se ne occupavano tanto, perché avrebbe dovuto farlo proprio lui ? Fortunato, quella mattina, si svegliò presto con addosso una sensazione piacevole per via della bella giornata, dopo una settimana passata tra la pioggia e il cielo coperto e minaccioso. Dedicò tanto tempo alla potatura della siepe che costeggiava le mura del collegio. Ad un tratto sentì un rumore da un punto non molto lontano da lui, si avvicinò e allungò le mani dentro la siepe: qualcuno gli morse la mano, che ritrasse subito un poco intimorito. Guardò con attenzione tra le foglie e vide un piccolo cucciolo di cane, cercò di farlo uscire ma ottenne soltanto di essere morso nuovamente. Andò di corsa a casa e prese una scodella con il latte, la mise in terra accanto alla siepe e si allontanò di poco per vedere se il cucciolo sarebbe uscito dal suo nascondiglio. Dopo un breve attimo di esitazione, il cane si avvicinò alla scodella e iniziò a leccare il latte. Lo faceva continuando a guardare Fortunato e ad ogni suo tentativo di avvicinarsi si ritraeva. Finita la prima scodella, Fortunato versò ancora dell’altro latte. Il cane ricominciò a bere, ma senza avere più quell’aria di diffidenza, tanto che si lasciò accarezzare. Lo seguì fino all’ingresso di casa. Tentennò nell’entrare, poi lasciò cadere ogni paura: da quel momento diventò l’ombra di Fortunato. Ogni tanto non si capivano e Fortunato si trovava con qualche piccolo morso sulle mani, ma era contento di aver trovato una compagnia. Lo aveva chiamato Cicca e sembrava che il cane avesse accettato il nome. Con il passare dei giorni era riuscito ad insegnargli qualche gioco: ora riportava pezzetti di legno che gli lanciava nei momenti di pausa. Cicca cresceva e assumeva sempre più l’aspetto del cane adulto: doveva essere un incrocio di pastore tedesco, dal pelo nero e lucido. Fu all’alba di una mattina piovosa che Fortunato venne svegliato da qualcuno che bussava alla porta. Ancora intontito dal sonno andò ad aprire: era suor Letizia che parlava convulsamente. Non riuscivano più a trovare Francesco: il letto era disfatto e nessuno lo aveva visto uscire. Fortunato si unì alle suore per cercare il bambino, continuando senza risultato fino a sera: Francesco era sparito senza lasciare traccia. Dove poteva essere andato? Perché si era allontanato? Il buio impediva la ricerca. Durante un attimo di calma Fortunato notò che, da quando si era alzato precipitosamente quella mattina, non aveva visto Cicca. Certo era stato così occupato nel cercare Francesco da non farci caso, ma ora si domandava dove si fosse cacciato il cane. Decisero di riprendere le ricerche del bambino: ad ognuno venne affidata una zona ed a Fortunato toccò quella che circondava la sua casa. Escludendo di trovare Francesco dentro casa, si mise a frugare tra i cespugli che costeggiavano il muro della legnaia. Il buio e la pioggia non rendevano le cose facili. Stava per ritornare in casa, quando sentì un latrato e ripensò a Cicca. Si avvicinò alla legnaia e aprì la porta socchiusa, ritrovò il cane accoccolato su un mucchio di segatura, bagnato e infreddolito. Gli si avvicinò e, commosso, gli fece una carezza. Il cane lo guardò riconoscente ma con un improvviso movimento si alzò e si avvicinò ad una catasta di legna. Fortunato lo seguì e guardando nel buio vide i riccioli biondi di Francesco: il bambino aveva gli abiti bagnati, tremava e aveva una parte della catasta franata sulle gambe: non poteva muoversi e lo guardava impaurito. Non aveva potuto invocare aiuto perché non pronunciava una parola da tanto tempo e neanche ora riusciva a dire niente a Fortunato, lo guardava in silenzio, abbassando ogni tanto lo sguardo. Riavutosi dalla sorpresa, si avvicinò al bambino, gli fece una carezza sui riccioli e cercò con lo sguardo di confortarlo. Francesco improvvisamente gli fece un grande sorriso e per la prima volta vide brillare gli occhi del bambino. Fortunato tolse piano piano tutta la legna liberando le gambe e si rese conto però che Francesco non poteva muoversi. Temendo una frattura, cercò di bloccargli la gamba con due stecche di legno e la sua camicia, dopo averne fatto delle strisce, poi lo prese in braccio, con il timore che il bambino rifiutasse il contatto con lui: con grande sorpresa si trovò il collo circondato dalle braccia esili di Francesco. Lo portò subito dalle suore. Fu chiamato il medico che riscontrò una forte contusione alla gamba destra ma dichiarò che non vi erano fratture, diede un leggero calmante al bambino affinché potesse riposare e riprendersi dalla brutta avventura. Stanchi di quella giornata interminabile andarono tutti a riposare. Fortunato tornò a guardare Francesco, ne vegliò una parte del sonno e gli si addormentò accanto. Si risvegliò alle prime luci del mattino e trovò la manina del bambino vicina alla sua: appena si sfioravano. Francesco aprì gli occhi e guardandolo gli rivolse un altro sorriso. Fu allora che Fortunato si mise a piangere pensando che avrebbe dovuto lasciare il collegio, il lavoro e Francesco. L’indomani mentre si allontanava lungo il sentiero di terra battuta, vide il grande cancello richiudersi alle sue spalle. Ancor prima di arrivare al bivio con la Madonnina di pietra accarezzò Cicca, e fece un grande sorriso guardandosi nello specchietto: portava con sé molto più della compagnia di un cane.


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© Ginevra 1997

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