Ciò che emerge da quanto esposto nei due capitoli che precedono sembra indicare con decisione la necessità prima di tutto di un ripensamento della Legge 633 del 22 aprile 1941. La maturazione espressiva dell'arte cinematografica ne ha sviluppato la fisionomia nel senso di accentuare sempre più l'importanza del regista in rapporto agli altri personaggi (il soggettista, lo sceneggiatore e l'autore delle musiche) indicati dalla Legge come coautori del film; e questa evoluzione non solo ha segnato la cinematografia del nostro paese (e degli altri paesi dell'Europa continentale che privilegiano una visione artistica dell'opera cinematografica in luogo di vederla nella sua natura alternativa di prodotto industriale) ma si sta apparentemente facendo strada, sia pure per il momento da un punto di vista soprattutto contrattualistico, anche in ordinamenti come quello statunitense o quello britannico. La prassi e l'elaborazione giurisprudenziale hanno ormai eletto il regista ad autore pressochè esclusivo del film: e se tale percorso, nella generalità dei casi, ha portato la disciplina ad una maggiore aderenza alla realtà, abbiamo visto che anche l'equazione "regista uguale autore unico" può talora corrispondere ad un'approssimazione non giustificata.
Senza contare l'apparente inestricabilità della contraddizione tra la scelta di privilegiare, come fonte dei diritti d'autore, l'atto creativo (sia esso compiuto dal regista soltanto o dai quattro soggetti di cui sopra) e la necessità di tener conto dell'attività imprenditoriale che sola può permettere -in una forma d'espressione complessa ed onerosa quale quella cinematografica- l'esplicarsi della creatività. La nostra legge, che opta di salvaguardare ad un tempo sia la natura creativa che quella imprenditoriale della creazione cinematografica, fornisce scarse o nulle indicazioni su come risolvere problemi quali -per non fare che un esempio- come differenziare e valutare i contributi nati spontaneamente e quelli, invece, commissionati dal regista (o, addirittura, dal produttore) nell'ambito di un rapporto di lavoro. La natura complessa dell'opera cinematografica si apre ad un'infinità di possibili rapporti la cui poliedrica e multiforme natura sfugge continuamente alla ricostruzione già sommaria proposta dalla Legge; ma del resto non sembra proponibile un criterio casistico, per accertare e valutare di volta in volta l'entità dei contributi creativi, per stabilire se il coinvolgimento del produttore si sia limitato ad un'intervento finanziario o se si sia esplicato creativamente. Tutto ciò andrebbe decisamente contro lo stesso fine di realizzare una disciplina chiara ed inequivoca, soddisfacendo all'esigenza della certezza del diritto.
Ancor più problematica appare la situazione per quel che concerne la tutela del diritto morale dell'autore alla integrità dell'opera. L'evoluzione tecnologica ha esposto l'opera cinematografica ad una moltitudine di occasioni di lesione, finora ignorate quasi totalmente, ad eccezione del problema delle interruzioni pubblicitarie ai film teletrasmessi. Ed anche l'opinione della giurisprudenza su tale ultima questione, prima di essere provvidenzialmente corretto dalla sentenza App. Roma 16 ottobre 1989, si era progressivamente andato orientando nel senso di uno svuotamento totale del diritto morale. Alla sentenza citata è seguita poi la legge 6 agosto 1990 n. 233 sulla "Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato", il cui articolo 8, al comma III°, prevede che l'inserimento di messaggi pubblicitari, durante la trasmissione televisiva di opere teatrali, cinematografiche, liriche e musicali, è consentita negli intervalli abitualmente effettuati nelle sale teatrali e cinematografiche. Basterebbe questo a rendere discutibile una norma che ratifica sostanzialmente l'abitudine italiana di interrompere in due tempi -già nella sala cinematografica- opere cinematografiche straniere concepite senza previsione di intervalli. Ma l'articolo aggiunge altresì che per le opere di durata programmata superiore a quarantacinque minuti è consentita una ulteriore interruzione per ogni atto o tempo. Inoltre è consentita una ulteriore interruzione se la durata programmata dell'opera supera di almeno venti minuti due o più atti o tempi di quarantacinque minuti ciascuno. Si comprende perciò come l'affermazione della Corte d'Appello romana, secondo cui anche una sola interruzione o, addirittura, l'impercettibilità di esse possono determinare inquietanti lesioni non limitate al diritto morale dell'autore, non possa essere che un ben tenue conforto a chi difende l'inviolabilità da terzi dell'opera dell'ingegno.
Poco incoraggiante appare inoltre la caduta, nella definitiva approvazione della Legge di cui sopra, di un inciso che riferiva la limitazione della pubblicità alla tutela, oltre che del diritto di autore e dell'integrità delle opere, anche alla tutela dei diritti degli utenti. Ove approvato, l'innovativo riferimento avrebbe in parte affrancato la tutela dell'integrità dell'opera dal necessario ed esclusivo ricorso al diritto morale dell'autore; il quale ultimo, come è dimostrato dall'esperienza, non fornisce una tutela sufficientemente penetrante, potendo essere derogato da una qualsiasi opposta prassi contrattuale: si è visto, infatti, che pur essendo il diritto morale inalienabile, esso può venir aggirato dalla rinuncia dell'autore all'azione, che non estingue il diritto ma lo rende di fatto inutilizzabile nei confronti del destinatario del negozio di rinuncia.
Si trattava, per il legislatore, di intervenire nel difficile rapporto che lega l'interesse pubblico ed il diritto morale d'autore, cui finora è stata gelosamente riservata la gestione. Il riconoscimento di un diritto dell'utente ad una visione dell'opera cinematografica nella sua versione integrale avrebbe potuto essere un passo decisivo del legislatore nel senso della tutela del patrimonio culturale; quello che finora è stato un semplice interesse diffuso -e di conseguenza non azionabile- ad una fruizione non distorta dell'opera dell'ingegno, sarebbe stato promosso a diritto moltiplicando le possibilità di un'azione che sarebbe tornata in ultima analisi a tutela dell'integrità dell'opera cinematografica.
La scelta del legislatore è andata, invece, nel senso di lasciare all'autore la decisione finale sulla sorte della sua opera; una decisione che, di fatto, lo abbandona nel suo eterno ruolo di contraente debole. Anche il regista più famoso si trova necessariamente in una posizione di soggezione socio-economica rispetto alla controparte rappresentata dal produttore, titolare dei diritti di sfruttamento economico; ed a questo proposito basta ricordare il boicottaggio di cui il regista Bertrand Tavernier è stato fatto oggetto a causa del suo rifiuto di accettare l'interruzione pubblicitaria delle sue opere in televisione: l'emittenza privata ha dichiarato di voler operare l'esclusione sistematica dai propri palinsesti delle opere degli autori che rifiuteranno le interruzioni.
Come ben osserva Grandinetti, nella citata nota alla sentenza della Corte d'Appello di Roma, lasciare la decisione sul punto alla libera determinazione dell'autore ha dato e darà luogo ad una sistematica disapplicazione della norma, esponendo l'opera cinematografica ad ulteriori ed imprevedibili abusi.
Il che non può che alimentare l'inquietudine, nell'attesa dell'atto finale della vicenda Germi, attualmente al vaglio della Corte di Cassazione.