LA TUTELA MORALE DELL'OPERA COMPIUTA

Nel capitolo che precede siamo arrivati a concentrare nel regista la virtuale titolarità del diritto morale sull'opera cinematografica: una conclusione che, se va apparentemente contro la lettera della legge, appare avvalorata dalla maggioranza della dottrina e della giurisprudenza (e riceve ulteriore conferma dall'osservazione che la quasi totalità delle controversie sull'argomento ha come protagonista proprio il direttore artistico, essendo i contributi degli altri coautori già scontati in precedenza). Si è cercato quindi di evidenziare l'effetto catalizzatore che taluni articoli della Legge del 1941 possono avere sulla conflittualità potenziale sempre insita nel rapporto tra regista e produttore dell'opera cinematografica, non riuscendo a conciliare il diritto morale dell'autore con quello, spettante al produttore, di apportare modifiche all'opera in fieri. Resta da affrontare tuttavia la problematica concernente il destino dell'opera cinematografica una volta compiuta e conclusa, soprattutto per quel che riguarda le situazioni derivanti dall'applicazione di nuove tecnologie.

Giurisprudenza e dottrina sono concordi nel mettere su uno stesso piano lo sfruttamento di un film nella sala cinematografica (lo sfruttamento, cioè, espressamente previsto dall'art. 46 L.d.A.) e la sua proiezione televisiva. Come abbiamo ricordato, questa parificazione viene resa necessaria dal progresso tecnologico: evidentemente il legislatore non poteva includere nella sua previsione il mezzo televisivo che, nel 1941, esisteva solo a livello sperimentale. Si contesta dunque che nel testo dell'art. 46 l'aggettivo cinematografico comporti un necessario e limitativo richiamo alle sale di spettacolo: L'aggettivo cinematografico, nella diffusa esegesi lessicale, attiene come tutti gli attributi al contenuto qualitativo, o quantitativo, di un nome: si parla di linguaggio cinematografico, di critica cinematografica, di ripresa cinematografica. Se la norma avesse inteso conferirgli un significato locativo, si sarebbe espressa con una diversa locuzione, ad esempio In sale di spettacolo. 1.

In realtà l'argomentazione si nutre dell'annoso equivoco di considerare il cinema non nella sua specificità, ma solo come una tecnica di narrazione: è chiaro infatti che la percezione del racconto, nella sua sequenza di scene e di dialoghi, è pressochè identica indipendentemente dalle modalità con cui viene proposta al fruitore. E' pacifico, invece, che il cinema sia (o, come meglio potremmo dire per evitare generalizzazioni arbitrarie, possa essere) un'arte a sè stante, con suoi propri codici ed un suo proprio linguaggio, capace di suscitare sue proprie emozioni. L'importanza della proiezione in una sala cinematografica, con tutto ciò che comporta di rituale e di contatto con altri spettatori, fa sì che intendere l'espressione sfruttamento cinematografico nel senso di sfruttamento in sala di spettacolo non sia una limitazione di mero carattere locativo, ma una esatta percezione della natura dell'arte di cui si tratta. 2. Assimilare la proiezione televisiva di un film ad unospettacolo cinematografico, può validamente servire a dare risposta affermativa al quesito se il produttore debba ritenersi titolare dei cosiddetti diritti d'antenna (se, cioè, questi si possano considerare assorbiti dallo sfruttamento cinematografico dell'opera prodotta, riservato al produttore dagli artt. 45 e 46 L.d.A.); ma si tratta di un'approssimazione che mai e poi mai dovrebbe trovare applicazione estensiva al fine di giustificare manifeste violazioni dell'integrità dell'opera. La differenza tra il mezzo cinematografico e quello televisivo (al quale accorpiamo, in questo discorso, videocassette, videodischi ed ogni nuova forma espressiva audiovisiva non cinematografica) è tale che già il passaggio dall'uno all'altro si esplica attraverso una mutazione dell'oggetto-film; mutazione che non si può chiamare traduzione, poichè nel caso più semplice (del passaggio di un film in TV senza interventi consapevolmente modificatori) non vi è quell'elemento creativo implicato dall'attività del traduttore, ma che senza dubbio trasforma -e profondamente- la natura stessa dell'opera.

La differenza diventa sempre più impercettibile, via via che la tecnologia incalzante muta i costumi culturali della società; già oggi esiste un'intera generazione di pubblico cinetelevisivo per il quale un film resta un film, indipendentemente dal mezzo di fruizione. Nell'attesa di una nuova legge che adegui la normativa all'evoluzione della realtà occorre, quindi, da parte di dottrina e giurisprudenza, tenere ben ferma la distinzione tra due linguaggi ognuno sui generis; e questo non per uno sterile opporsi al corso degli eventi, bensì per salvaguardare un intero patrimonio di cultura cinematografica sempre più spesso insidiato nella sua integrità dalla speculazione e dall'ignoranza. Alla limitatezza connaturata nel mezzo televisivo -un fatto contro il quale c'è ben poco che si possa fare- devono infatti aggiungersi, nel quadro dell'offesa all'opera cinematografica, una serie di modalità di trasmissione e di elaborazione che attentano seriamente all'integrità del film. Tra di esse, l'attenzione si soffermerà soprattutto su quelle che siano oggetto di una cospicua letteratura giurisprudenziale; ma sembra importante segnalare anche talune altre manifestazioni di attività in spregio al diritto morale che, seppure si tratti spesso di pratiche diffusissime, non hanno finora goduto dell'attenzione del giudice.

Lo "scanning"

Si tratta di una pratica diffusissima eppure curiosamente poco nota, nonostante arrechi all'opera cinematografica lesioni assai superiori di interventi come quello della colorazione di pellicole in bianco e nero (cfr. infra), fenomeno che ha goduto invece una di vasta eco, quantomeno sui mezzi di informazione. La tecnica dello scanning deriva dalla disomogeneità tra la forma dello schermo televisivo (che ha un rapporto altezza/base di 1:1,33) e quello di alcuni formati cinematografici di tipo "panoramico" (i cui rapporti variano dal 1:2,66 del Cinemascope all'1:1,85 del formato Panoramico). La teletrasmissione di opere cinematografiche prodotte con tali tecniche avveniva inizialmente (e tuttora, talora avviene) facendo corrispondere la base dell'immagine cinematografica (per chiarezza: la larghezza del fotogramma) con quella dello schermo televisivo; naturalmente, così facendo, l'altezza dell'immagine non poteva più corrispondere a quella dello schermo: gli spazi rimasti al di sopra ed al di sotto venivano quindi riempiti da due bande nere parallele (il "mascherino elettronico"), che apparivano quindi delimitare in alto ed in basso i confini dell'inquadratura.

Questa del mascherino elettronico è l'unica alternativa che permetta di rispettare l'inquadratura così come il regista l'ha concepita, mantenendo invariati gli effetti di prospettiva, di alternanza tra campi vuoti e pieni, e di movimento quali si possono apprezzare con una visione dell'opera in una normale sala cinematografica. Senonchè questa soluzione comporta, com'è ovvio, un notevole rimpicciolimento delle immagini, tanto maggiore quanto più il rapporto altezza/base del film si allontana da quello televisivo. Per ovviare a questo inevitabile inconveniente, alcune reti televisive commerciali prima, e taluni produttori di videocassette -contenenti film cinematografici- poi, avviarono la pratica (scanning) di ingrandire elettronicamente il fotogramma fino a far corrispondere l'altezza di esso con quella del teleschermo, eliminando così il mascherino. L'effetto collaterale, tuttavia, fu quello di far esorbitare dallo schermo televisivo due segmenti di immagine assai consistenti a destra e a sinistra della inquadratura, sbilanciandone così in modo evidente l'equilibrio visivo.

A questo doveva aggiungersi un ulteriore problema di ordine pratico che si presentava in occasione di scene che avvenissero simultaneamente alle due estremità del fotogramma (ad esempio nel caso di due personaggi che dialogassero tra loro stando uno a destra ed uno a sinistra). Al di là del problema estetico, è evidente che il taglio dell'inquadratura potesse rendere la scena addirittura inintelligibile. Fu ideata, a questo punto, la "Panoramica elettronica" (Panning) che consente di spostarsi sull'immagine originale in modo da scegliere, di volta in volta, la parte di fotogramma che si vuole mostrare sul teleschermo (e, di conseguenza, la parte che invece si può sacrificare). Le modalità si limitano a due: nel primo caso (Panoramica elettronica propriamente detta) il mirino elettronico si sposta all'interno del fotogramma passando da un soggetto all'altro, o seguendo un soggetto nei suoi movimenti; nel secondo (Rimontaggio elettronico) si passa da un punto all'altro del fotogramma attraverso uno stacco. In entrambi i casi, com'è evidente a chiunque abbia nozioni anche elementari di linguaggio cinematografico, il rimedio è peggiore del male poichè si traduce in una pesante deformazione della fisionomia dell'opera cinematografica in esame, con alterazione del montaggio (e conseguentemente del ritmo anche narrativo), della composizione dell'inquadratura e dei movimenti di macchina.

Nonostante qualche sporadico appello sulla stampa specializzata, tuttavia, il problema è rimasto inspiegabilmente nel silenzio. Neppure gli autori, che come vedremo sono ben pronti ad invocare il rispetto del loro diritto morale in relazione ad attentati meno gravi all'integrità delle loro opere, sembra si siano mai rivolti al giudice per porre un freno a questa pratica ormai assai diffusa. Eppure il successo da essi ottenuto su questioni di minor importanza dovrebbe garantire a fortiori la fondatezza di una protesta contro l'uso dello scanning. E' possibile che la difficoltà per un profano di percepire ictu oculi la differenza tra la versione di un film con mascherino e quella con scanning possa essere una delle cause per cui il problema non è stato sollevato neppure in sede dottrinaria; a maggior ragione sembra importante segnalarlo all'attenzione in vista di un'auspicabile applicazione dell'art. 20 L.d.A.

Prima di passare ad altri interventi contro l'integrità del film (interventi con maggior riscontro dal punto di vista giurisprudenziale) merita un accenno la possibilità che la pratica dello scanning possa essere repressa non solo dall'autore, come manifesta violazione del suo diritto morale, ma anche -e finalmente- dallo spettatore. Nel caso di vendita di videocassetta contenente un film su cui sia stato operato lo scanning, infatti, ben si potrebbe ipotizzare il reato di frode ai sensi dell'art. 515 del codice penale qualora sulla cassetta stessa non venisse manifestamente segnalato il trattarsi di versione del film elaborata per il piccolo schermo 3. . In questo caso non sembra confutabile che all'acquirente venga consegnato un bene diverso da quello dichiarato sia in senso qualitativo (lo scanning, e quindi la scelta della parte di inquadratura da mostrare, viene operato di norma da tecnici di riversamento in elettronica e non da montatori professionisti) che quantitativo (l'immagine è decurtata anche del 50%).

La sovrimpressione del marchio

Un altro fenomeno finora mai portato davanti al giudice italiano, eppure diffuso nel nostro paese in maniera addirittura capillare, consiste nella permanente sovrimpressione del marchio dell'emittente sull'immagine trasmessa. Tale prassi da una quindicina d'anni a questa parte è applicata indifferentemente da ogni emittente televisiva inclusa, sia pure in misura più discreta, la Rai-TV. La rapidissima diffusione delle televisioni commerciali, e la preoccupazione conseguente agli effetti di una massiccia offerta cinematografica sui nuovi canali, ha fatto passare quasi inosservata l'introduzione del costume di contrassegnare qualsiasi trasmissione con un Logo (un marchio figurativo) atto alla duplice funzione di permettere allo spettatore di individuare immediatamente l'emittente selezionata sul proprio apparecchio televisivo, e di scoraggiare per quanto possibile un uso illecito da parte di terzi del programma trasmesso (vale a dire la commercializzazione di cassette pirata o addirittura la ritrasmissione dello stesso programma da parte di altra emittente).

In sè assolutamente lecita, tale pratica non suscita perplessità quando effettuata su un programma specificamente televisivo (quale un notiziario od un varietà); al contrario si deve ritenere che, quando il programma sia costituito dalla trasmissione di un film cinematografico, la sovrimpressione del Logo all'immagine ne costituisca un'alterazione non lecita se non espressamente autorizzata dall'autore. Così risulta, almeno, da una pronuncia del Tribunale di Grande Istanza di Parigi che, con sentenza 29 giugno 1988 ha condannato la rete televisiva "La Cinq" a versare 50.000 Fr. francesi a titolo di indennizzo a ciascuno dei due autori (regista e sceneggiatore) di un'opera trasmessa con la sovrapposizione del marchio figurativo dell'emittente 4. : tale sovrimpressione, infatti, era avvenuta in violazione delle norme vigenti sulla tutela dell'opera audiovisiva e sull'obbligo di chi rappresenta l'opera di garantire il rispetto dei diritti intellettuali e morali dell'autore; contravvenendo al divieto all'utilizzatore di apportare alcuna modificazione o aggiunta, anche minima, senza il consenso dell'autore. Il fatto che si trattasse di film televisivo, e quindi già concepito per la trasmissione sul teleschermo, piuttosto che per la proiezione in sala cinematografica, non è servito da attenuante: segno che non si può considerare la sovrimpressione del marchio come un diritto assorbito nella concessione all'emittente dei diritti di trasmissione di un'opera, quasi che non fosse tecnicamente concepibile una trasmissione senza Logo.

E' importante notare come il Tribunale abbia ricusato la tesi sostenuta dalla Cinq, secondo cui l'incrostazione del logo sul teleschermo non aveva alterato il ritmo e lo "charme" del telefilm che non era stato modificato poichè il logo era incrusté sur l'écran et nullement sur la copie de l'oeuvre. Questa linea di difesa dell'emittente -che tenta di scindere l'opera nella sua essenza dalla sua manifestazione pubblica- è infatti assai simile a quella che si riscontra, nel nostro paese, in alcune controversie concernenti l'interruzione della trasmissione di film in televisione con spot pubblicitari. Nella sua decisione, il Tribunale francese ha dichiarato che la Cinq, facendo apparire in permanenza il suo logo sulle immagini del telefilm trasmesso, ha compiuto una violazione del diritto morale di autore; nè valeva la giustificazione addotta che il Logo costituisse un repère nécessaire per il telespettatore, dal momento che gli apparecchi televisivi in commercio già indicano in maniera chiara ed autonoma la rete televisiva su cui si è sintonizzati: l'inserzione di esso aveva invece per solo fine quello di promuovere in permanenza l'immagine del canale televisivo con un fenomeno di autopubblicità del tutto estraneo all'opera telediffusa.

La colorizzazione

Introdotta negli Stati Uniti negli anni Ottanta, la colorazione di film originariamente realizzati in bianco e nero ha suscitato vivacissime polemiche di qua e di là dall'oceano, conquistando spesso gli onori della cronaca non soltanto sulla stampa specializzata, ma anche sugli organi d'informazione, che hanno riportato abbastanza puntualmente le proteste di autori illustri quali Frank Capra e John Huston. Pur non avendo preso piede, per il momento, nel nostro paese, il fenomeno ha goduto anche dell'interesse della dottrina, che l'ha sottoposto ad una sorta di preliminare valutazione di liceità in numerosi articoli 5. .

Il procedimento di Colorization (donde il termine "colorizzare", ovvero dare il colore, con questo sistema computerizzato, ad un film in bianco e nero) consiste nella colorazione di un fotogramma del film da parte di un operatore di computer che ha a disposizione una tavolozza elettronica di 16 milioni di colori; il computer provvede poi a colorare ad alta velocità l'intera scena successiva, rispettando gli standard fissati su quel primo fotogramma, tenendo conto delle variazioni di luminosità dell'originale in bianco e nero e via dicendo.

Va detto, in via preliminare, che i colori vengono apposti non sulla pellicola originale bensì su un suo riversamento su nastro magnetico. Questo per sgombrare il campo dal sospetto che la colorizzazione si traduca in una deturpazione irreversibile dell'opera: al pari dello scanning e della sovrimpressione del marchio e di tutte le pratiche analizzate in questo capitolo, anche questa resta confinata ad edizioni dell'opera cinematografica previste per una trasmissione televisiva o per un'edizione su videocassetta. E tuttavia ciò non può costituire un'attenuante: poichè l'opera audiovisiva è concepita in funzione della sua manifestazione al pubblico, ogni intervento sulla percezione che di essa avrà lo spettatore si traduce sostanzialmente in un'intervento sull'opera 6. .

Le questioni suscitate dalla colorizzazione ai fini del nostro discorso sono due. La prima riguarda la liceità di tale pratica e la sua conciliabilità con le norme che tutelano l'integrità dell'opera; la seconda è quella della tutelabilità dell'edizione colorata di un film in Bianco e Nero i cui diritti siano ormai caduti in dominio pubblico.

Quanto alla liceità, la soluzione del quesito è assai diversa a seconda che si tratti del nostro ordinamento o di quello statunitense. Negli USA infatti, a differenza che in Italia e gran parte di Europa, la sfera morale dell'autore di opera dell'ingegno non è oggetto di salvaguardia, essendo presa in considerazione invece solo la sfera patrimoniale. Ne derivano due conseguenze: la prima è che il film è tutelato contro le alterazioni solo fino allo scadere dei cinquant'anni previsti per la sua tutela economica, ed in seguito alla caduta dell'opera nel pubblico dominio ogni intervento diviene lecito. La seconda è che il produttore ha la facoltà di far colorare il film anche prima di tale scadenza, possedendo comunque la totale disponibilità economica del film 7. . All'inizio, l'autore non riceveva tutela neppure in virtù di norme convenzionali poichè la Convenzione Universale del Diritto di Autore -cui gli USA aderiscono- non prevede la tutela del diritto morale. Al di là del ricorso all'opinione pubblica, l'unica possibile soluzione per gli autori stava nell'appellarsi all'Art. 43a del Lanham Act, sulla concorrenza sleale operata attraverso mendaci indicazioni dell'origine o provenienza del bene: poichè è indubbio che il film ricolorato -presentato come frutto del lavoro di quel determinato autore- è in realtà cosa diversa. Si trattava comunque di una soluzione illusoria in quanto applicabile solo qualora la versione colorata fosse presentata senza evidenziarne la novità: era sufficiente che il film nella sua nuova versione venisse presentato come una creazione di soggetti diversi, basata su opera altrui ma con questa non identificantesi, per vanificare ogni addebito.

L'adesione degli USA alla Convenzione di Berna -avvenuta il 1° marzo 1989- dovrebbe dare agli autori nuove armi per far valere i loro diritti, implicando la recezione dell'art. 6bis, primo comma che recita: Indépendamment des droits patrimoniaux d'auteur, et méme après la cession des dit droits, l'auteur conserve pendant toute sa vie le droit de revendiquer la paternité de l'oeuvre et de s'opposer à toute déformation, mutilation ou autre modification de cette oeuvre ou à toute atteinte à la méme oeuvre, préjudiciables à son honneur ou à sa réputation. Fino ad ora, tuttavia, la legislazione non sembra essersi adeguata.

Maggior tutela l'autore americano riceve in Europa, come si desume dall'unica controversia a tutt'oggi pubblicata sul tema della colorizzazione. Con ordinanza 24 giugno 1988, il Tribunale di Grande Istanza di Parigi ha affermato che la programmazione televisiva, in versione colorata, di una opera cinematografica originariamente realizzata in bianco e nero può arrecare un danno irreparabile ed intollerabile all'autore dell'opera che intenda difenderne l'integrità e va perciò vietata su richiesta di questi o dei suoi eredi 8. . Il divieto di trasmissione venne chiesto, come provvedimento di emergenza, dagli eredi del regista John Huston, per interdire all'emittente "La Cinq" di diffondere la versione colorizzata del film "Giungla d'asfalto". L'obiezione dell'emittente, sostenuta anche dalla Turner Entertainment (proprietaria del film come avente causa della MGM, che ne era la produttrice originaria) consisteva nella contestazione a Huston della qualità di autore: egli infatti aveva lavorato in regime di subordinazione, come dipendente della MGM, ed aveva accettato la cessione automatica del frutto del suo lavoro in favore del datore di lavoro. La Corte d'Appello, che confermò la decisione con provvedimento 25 giugno 1988 (esattamente un giorno dopo la prima) rilevò al contrario che se è evidente che gli accordi intercorsi tra Huston e la società produttrice per l'utilizzazione del film sono soggetti alla legge americana, tuttavia, a norma dell'art. 11 del codice civile, l'art. 1 della legge francese sul diritto di autore (che protegge il diritto morale) può essere invocato da un autore straniero. Una sentenza successiva (App. Parigi 6 luglio 1989)- secondo cui Huston, non avendo in base al suo contratto ed alla legge americana, la qualifica di autore, non avrebbe potuto invocare il relativo diritto morale a tutela dell'integrità dell'opera- fu in seguito annullata dalla Corte di Cassazione confermando la tutela 9. .

Al contrario nel nostro paese, almeno fino al momento dell'adesione americana alla Convenzione di Berna, tale tutela risultava impraticabile. L'art. 189 L.d.A. statuisce che l'applicazione della legge italiana sia subordinata al fatto che il film sia realizzato in Italia o sia considerata "nazionale" a termini di legge; e qualora la legge italiana non sia applicabile ai sensi di quanto sopra, l'art. 186 richiama la possibilità che la si applichi ugualmente in virtù di convenzioni internazionali. La Convenzione di Berna, che attribuisce agli autori la tutela del diritto morale, adotta il sistema della territorialità, riservando ai Paesi aderenti di stabilire le modalità di detta tutela (art. 6bis, 2° e 3° comma) ma anche riservando la protezione agli autori di opere cinematografiche dont le producteur a son siege ou sa résidence habituelle dans l'un des pays de l'Union (Art. 4, a). Ma la scelta degli Stati Uniti di aderire alla Convenzione Universale (concepita in conformità della concezione giuridica anglosassone, secondo cui ogni diritto sul film spetta al produttore) rendeva possibile non solo la trasmissione di una versione colorizzata, ma anche la stessa colorizzazione di un film americano purchè esso non fosse più tutelabile azionando diritti patrimoniali. Nè poteva ovviamente valere un eventuale richiamo alla reciprocità generica richiesta (dall'art. 16 delle disposizioni preliminari al codice civile) per l'estensione allo straniero dei diritti spettanti al cittadino italiano.

Per quanto riguarda quest'ultimo, l'Art. 20 L.d.A. fungeva e funge tuttora da baluardo contro la colorizzazione di prodotti del cinema italiano, indipendentemente dalla sorte dei diritti patrimoniali. Benchè non esistano finora precedenti giurisprudenziali, un caso analogo a quello della colorizzazione si ritrova in Trib. Roma, 7 aprile 1960 10. , che decideva su una controversia tra Charlie Chaplin ed una società italiana di distribuzione cinematografica. Quest'ultima, oltre ad aver violato i diritti di sfruttamento economico di Chaplin (che, lo ricordiamo, era anche produttore di se stesso) distribuendo abusivamente alcune sue pellicole (tra le altre, "Il monello" ed "Il pellegrino"); oltre ad aver rimontato in un unico film quattro suoi cortometraggi mescolandoli, aggiungendo dialoghi inesistenti ed un finale arbitrario allo scopo di spacciare il tutto come un unico film; oltre a tutto ciò aveva aggiunto a "Il monello" (che era stato realizzato muto) una colonna sonora con commento musicale del tutto apocrifo. Nella sua pronuncia, il giudice romano si premura di evidenziare ripetutamente il valore della colonna sonora (definendola di alto valore, artisticamente efficace, effettivamente molto pregevole) per sottolineare il fatto che l'illecito sta nella sua apposizione ad un'opera autonoma, la cui fisionomia ed il cui stile -tra l'altro- appartengono ad un diverso periodo storico: (...) è musica moderna, non si adatta quindi a un film prodotto nel 1921; è musica a contenuto diverso da quello del "grottesco" particolare di Chaplin, che è sintesi descrittiva di elementi comici e romantici (...). La musica del maestro Morgan è invece piena di un simbolismo piuttosto ossessivo che fiabesco, rifugge dal descrittivismo (...). Ed, in conclusione, per quanto pregevole in sè, non si adatta allo spirito romantico della vicenda visiva, distrae anzi dalla visione e conseguentemente riduce la efficacia artistica ed il valore del film.

L'analogia con la colorizzazione balza agli occhi: in entrambi i casi al film già compiuto (e, aggiungiamo, compiuto spesso da qualche decennio) si aggiunge un elemento non presente nell'opera originale -e da essa assolutamente disomogeneo, da un punto di vista stilistico- senza chiedere il consenso dell'autore. Il fatto che, nel caso Chaplin, l'elemento aggiunto sia uno di quelli al cui creatore la L.d.A. attribuisce la qualifica di coautore, non sembra di importanza rilevante. Piuttosto, la limitazione del valore analogico della sentenza ora esaminata sta nel fatto che essa censura l'intervento sul film solo in quanto da esso consegue una riduzione del valore del film, uno scadimento che si risolve fatalmente in una lesione della reputazione artistica dello Chaplin. La misura di questa tutela sembra riduttiva della reale portata del diritto morale dell'autore all'integrità dell'opera in quanto la limita ai soli casi in cui la modificazione dell'opera si traduca nella lesione di onore e reputazione; il diritto a questi ultimi, invece, non costituisce che una parte degli interessi che il diritto morale intende tutelare. Al di là delle limitazioni espresse dall'art. 20, è opinione comune che possa costituire un illecito il solo fatto di identificare il soggetto-autore, attraverso l'impiego del suo nome, come autore di un'opera dell'ingegno la quale (in quanto non più integrale ma illegittimamente alterata, ancorchè tali alterazioni non siano pregiudizievoli all'onore o alla reputazione) non è più idonea ad esprimere ed a rappresentare la personalità dell'autore 11. . L'alterazione è lesiva ove interrompa il nesso che permette la riferibilità integrale dell'opera al suo autore, in modo da impedire la manifestazione della sua personalità e rivelarne socialmente il modo interiore per una fruizione altrui che non è solo emozionale, estetica, ma anche conoscitiva 12. . Per quanto riguarda l'apposizione del colore ad un film concepito e girato in bianco e nero, sembra evidente come tale trasformazione difficilmente possa rivestire un'importanza talmente secondaria da non inficiare il rapporto strettissimo tra autore ed opera. Come afferma ancora Zarcone, L'opera cinematografica (...) è una vicenda visiva caratterizzata da un certo spirito, da atmosfere ambientali, da un certo taglio delle immagini che è tale anche per particolari modi di usare e sfruttare il cromatismo e le sfumature del bianco e nero. Ciò secondo uno stile d'insieme (a cui collaborano naturalmente tutti gli autori del film) che fa sì che non si verifichino (...) contrasti fra gli elementi che concorrono a formare l'opera cinematografica; col risultato che il film possiede una sua individualità, un suo specifico significato espressivo di forma o di sostanza, le sue sfumature ed i suoi dettagli, organizzati e coordinati in maniera che su di essi si incentri nel modo debito l'attenzione dello spettatore, e da essi egli sia in grado di conoscere e comprendere il mondo ed il valore artistici e personali degli autori in quanto tali.

Per quello che riguarda il cinema italiano, comunque, il discorso resta necessariamente molto astratto: la tutela più penetrante contro la colorizzazione sta nell'assenza di un mercato di ampiezza tale da consentire di affrontare le ingenti spese connesse alla colorazione elettronica. Se, quindi, il diritto morale costituisce un ostacolo serio alla prospettiva di vedere un giorno "Ladri di biciclette" a colori, non sembra probabile neppure che nel nostro paese si proceda a colorare classici "fuori diritti" del cinema statunitense; anche se per il nostro codice questa attività sarebbe perfettamente lecita.

Resta da affrontare, per concludere le questioni poste dal tema della colorizzazione, il problema della eventuale tutelabilità della versione colorata come opera a sè. In effetti, poichè talune società di colorazione elettronica si sforzano di ricostruire con la massima approssimazione i colori originali degli oggetti e delle persone riprese (il procedimento si basa su una valutazione, effettuata dal computer, delle varie tonalità di grigio), sarebbe arduo ravvisare l'elemento della creatività in un'atto eseguito prevalentemente in maniera automatica. Tuttavia, durante le riprese di un film su pellicola in bianco e nero, i colori degli oggetti e dei costumi venivano scelti in funzione della loro resa bicromatica, sicchè la restaurazione dei colori originari produrrebbe in numerosissimi casi effetti decisamente grotteschi. Qui entra in campo l'attività creativa delle persone deputate alla selezione dei colori, che devono scegliere per ogni oggetto la tinta più indicata ai fini di un'equilibrata resa cromatica del fotogramma finale. A questa reinvenzione del film dal punto di vista cromatico, cui dapprima neppure l'ordinamento statunitense accordava tutela (poichè la sostanza del film rimaneva la stessa: un'osservazione che cela la persistente identificazione dell'opera-film con la narrazione da essa contenuta, e che una volta di più mostra come sia ancora lunga la strada che separa l'opera cinematografica dal riconoscimento autentico della sua specificità artistica), è stata riconosciuta infine la tutelabilità con sentenza 11 giugno 1987 del Copyright Office di Washington.

Le interruzioni pubblicitarie

Da sempre presenti e contestate vanamente -a causa dell'adozione del principio del film-copyright- nei sistemi televisivi dei paesi anglosassoni, le interruzioni pubblicitarie durante la trasmissione televisiva dei film vengono introdotte in Italia con l'avvento ed il moltiplicarsi delle televisioni commerciali antagoniste della RAI-TV.

A differenza dell'emittente pubblica, sostenuta finanziariamente da un canone annuale, le reti commerciali fondano la loro esistenza economica sulla vendita di spazi pubblicitari il cui valore è direttamente proporzionale al numero di spettatori che ne vengono raggiunti. Data l'accertata insofferenza di molti teleutenti per la pubblicità, e la conseguente tendenza al cambio di canale quando essa viene trasmessa, la strategia più comune è stata quella di porre gli inserti pubblicitari non già tra un programma e l'altro, bensì all'interno dello stesso programma, in modo che l'interesse dello spettatore per quest'ultimo lo costringa a restare sintonizzato sullo stesso canale anche durante la pubblicità. Questa esigenza, naturalmente, ha finito per condizionare le strutture dei film prodotti specificamente per l'uso televisivo, dando origine in particolar modo al nuovo genere del Telefilm; che di norma consiste in una serie di episodi di una lunghezza standard (tra i trenta ed i sessanta minuti) che consenta di inserirli quotidianamente in un palinsesto abbastanza rigido, in modo da mantenere certe ben stabilite fasce orarie, per creare prima un'abitudine e quindi un'attesa da parte dello spettatore.

Il condizionamento derivante dalle interruzioni si riscontra anche sul ritmo della narrazione finalizzata al solo sfruttamento televisivo; l'andamento della trama deve essere concepito in modo da mantenere desto l'interesse dello spettatore nonostante (e, anzi, sfruttando) l'interruzione pubblicitaria. Nel volume Television Writing Richard A. Blum analizza la "curva dell'interesse" degli spettatori di fronte a telefilm di varia durata. Un telefilm di 50 minuti è composto da un teaser di 4 minuti con la funzione di scatenare immediatamente la curiosità dello spettatore prima dei titoli di testa; seguono quindi quattro "atti" inframmezzati da spot pubblicitari. Ogni atto deve contenere un punto focale di grande suspense (e non si allude necessariamente alla suspense derivante da una storia d'azione: il termine qui indica semplicemente un'impennata narrativa che susciti maggior interesse); la suspense deve essere crescente fino al terzo atto, raggiungere il picco nel quarto, poi deve allentarsi nel breve "codino" con gag finale che chiude la puntata. Seguendo questi parametri, i telefilm statunitensi prevedono l'interruzione e se ne servono per interrompere la narrazione nei momenti chiave in modo da aumentare la suspense in maniera artificiale; l'interruzione è, in moltissimi casi, addirittura segnalata dal codice linguistico di un aumento del volume della musica seguito da una dissolvenza dell'immagine e dell'audio (dopodichè, nelle versioni originali del filmato, consegnate all'emittente, appare la didascalia "Place commercial here", "Inserire qui la pubblicità").

Dall'esame sia pur sommario delle tecniche sopra descritte si notano le peculiarità che devono contraddistinguere una narrazione concepita per essere scandita da una serie di intervalli. Se ne deduce agevolmente che analoghe interruzioni imposte ad opere realizzate in vista di una fruizione ininterrotta non possono che frantumarne il ritmo e la struttura in maniera da distorcerne pesantemente la fisionomia originale 13. . Con tutto ciò, il percorso della giurisprudenza sull'argomento segue una traiettoria tutt'altro che lineare, prima di arrivare a riconoscere in maniera netta la possibilità di azionare il diritto morale dell'autore per tutelare l'opera da ogni caso di interruzione pubblicitaria.

La questione in esame è stata affrontata per la prima volta in Italia da una pronuncia su un ricorso del regista Salvatore Samperi 14. , direttore artistico di due film ("Malizia" e "Peccato veniale") che erano stati trasmessi dall'emittente "Quinta Rete" con numerose interruzioni pubblicitarie. Poichè l'emittente annunciava l'imminente trasmissione di un altro suo film (si trattava di "Scandalo") che, era ragionevole prevedere, sarebbe stato sottoposto ad analoghe interruzioni, egli chiedeva che fosse ordinato all'emittente di mettere in onda tale film senza interruzioni pubblicitarie. Il ricorso mantenne la sua attualità anche dopo che l'emittente, senza attendere il responso del Pretore, ebbe effettuato la trasmissione, avendo essa il diritto -che intendeva esercitare- di replicarne la proiezione.

Nella linea di difesa della società resistente la spina dorsale era costituita dall'argomentazione cui si accennava nella nota 6. a questo stesso capitolo: si tentava una sottile distinzione tra la stesura (esplicazione concreta di un'idea in un tema concettuale attraverso una struttura esplicativa a mezzo di dati simbolici) dell'opera e la sua comunicazione (procedimento tecnico per mezzo del quale si porge la stesura alla percezione del fruitore) sostenendo che le modificazioni illegittime sono quelle riguardanti la stesura e non, come nel caso in esame, la comunicazione. Il sofisma non ingannò il pretore che si espresse in questo senso: La tesi (...) sembra ignorare un dato di realtà inoppugnabile: che, cioè, rispetto ad alcune opere, particolarmente se appartenenti al genere dello spettacolo, la stesura originale finisce con l'identificarsi con la stesura che viene offerta al fruitore mediante la comunicazione, ditalchè la reazione negativa che quest'ultima in concreto susciti, anche a causa di fatti riconducibili al gestore od ai suoi ausiliari, può determinare un turbamento nella corretta recezione dello spettatore che, in definitiva, viene ad incidere sulla valutazione dell'opera.

A questa considerazione andava aggiunta anche l'estensione, operata dal d.p.r. 8 gennaio 1979 n. 19, della portata dell'art. 20 L.d.A.: estensione che riconosce il diritto dell'autore di opporsi non solo ad ogni deformazione, mutilazione od altra modificazione dell'opera, ma anche ad ogni atto a danno dell'opera stessa che possa essere di pregiudizio all'onore o alla reputazione dell'autore. Il nuovo testo dell'art. 20 consente all'autore di vietare anche atti che non importino modifica in senso stretto dell'opera, incluso quindi l'utilizzo dell'opera a fini meramente pubblicitari. Per usare le parole del pretore: (la pubblicità) si risolve in intrusioni assolutamente spurie, che interrompono la continuità e l'omogeneità del discorso scenico (...). Tali interruzioni (...) offrono al teleutente una versione del film diversa da quella realizzata dall'autore, spezzandone e menomandone l'unità e la tensione narrativa.

L'obiezione della società resistente (e cioè che lo spettatore medio, con la capacità di discernimento che gli è propria, non collegherà mai all'autore gli atti della comunicazione ed ... anche se disturbato ... dalle interruzioni pubblicitarie, non esprime e non esprimerà mai una valutazione negativa sulla persona dell'autore) fu rigettata dal pretore con la motivazione che gli spot, interrompendo bruscamente l'azione scenica, distraggono la concentrazione e la partecipazione alla vicenda rappresentata, talora allontanando addirittura lo spettatore dalla visione del film e, comunque, distogliendolo dalla condizione migliore per un'adeguata fruizione dell'opera. Ditalchè è ragionevole ritenere che il suo giudizio sarà diverso e meno positivo che se il film fosse proiettato in versione originale; e tale giudizio sull'opera non può non riflettersi sulla considerazione dell'autore (lesione della reputazione).

Con tutto ciò, il Pretore non ritenne opportuno concedere la tutela preventiva a Samperi, adducendo che non si era potuto prender visione del film così come trasmesso, non esistendo (sic!) una registrazione della emissione comprensiva -oltre che del film- delle interruzioni pubblicitarie; la sussistenza di una lesione al diritto morale d'autore andrebbe infatti accertata caso per caso: essa dipenderebbe infatti da un ampio raggio di fattori, quali il valore artistico del film (film d'arte, film commerciale o film di qualità infima), il momento delle interruzioni (se cioè esse avvengano o meno durante le sequenze di maggior interesse) e la frequenza e la durata di queste. Non si capisce il motivo di tali distinzioni visto che, appena poche righe sopra, l'ordinanza asseriva l'effetto comunque distraente di un'interruzione pubblicitaria su un film, senza riferimento alcuno al suo valore artistico. Anche dando per buona la grossolana suddivisione dei film in tre nette categorie di qualità (il che proporrebbe l'ulteriore problema di a chi spetti il compito di giudicare il film sotto questo profilo: ad un giudice trasformato in critico cinematografico? Ad una commissione apposita di critici professionisti?) la Legge sul Diritto di Autore non offre alcuna indicazione su quali di queste meriterebbero tutela: supponendo che il Pretore intendesse tutelare senz'altro il film artistico (categoria, tra l'altro, di definizione tutt'altro che facile!) quale sarebbe stata la sorte del film cosiddetto commerciale?

Al di là delle espressioni di condanna generica per le interruzioni, la vera posizione del Pretore non sembra in realtà cogliere il nocciolo del problema, configurando un sistema secondo cui l'interruzione può non risultare dannosa all'integrità dell'opera qualora sia effettuata secondo criteri da determinarsi. L'ordinanza allude anzi ad una via a cui il pretore ha intensamente pensato: quella cioè di indicare le modalità di trasmissione (numero, durata e cadenza degli spot) che non producono la lesione di cui all'art. 20 in quanto non intacchino oltre i limiti di tollerabilità l'omogeneità e continuità dell'opera. Ora, premesso che anche il mantenimento di un intervento lesivo "entro i limiti di tollerabilità" (peraltro tutti da definire) non può far venire meno la natura -appunto- lesiva di esso, sembra che l'equivoco stia nel non ammettere la possibilità di un giudizio ex ante sulla sussistenza di una violazione del diritto morale. E' possibile che esso nasca dal fatto che, all'epoca del ricorso di Samperi, le emittenti televisive inserivano gli intermezzi pubblicitari in modo "selvaggio", spesso non limitandosi ad interrompere una sequenza, ma addirittura troncando a metà una frase del dialogo. Da qui, forse, l'idea che il thema decidendum fosse costituito -invece che dalla liceità delle interruzioni in quanto tali- dalla legittimità di un uso così spregiudicato delle stesse. Naturalmente, se la discussione si fosse concentrata sulla liceità della interruzione indipendentemente dalle modalità con cui questa venisse effettuata non avrebbe dovuto esserci difficoltà alcuna ad ammettere una tutela preventiva ed a concedere il richiesto provvedimento di emergenza ex art. 700 c.p.c.

L'equivoco sarà destinato a perdurare a lungo, pur producendo a volte risultati meno aberranti di quello appena ricordato. Nella seconda pronuncia giudiziaria sulla questione delle interruzioni 15. , in effetti, il Tribunale di Roma giunge attraverso lo stesso principio a conclusioni di fatto opposte a quelle del Pretore. La fattispecie, che riguardava il film "Serafino" del regista Pietro Germi, era assolutamente analoga a quella concernente il caso Samperi, con l'unica variante che il ricorrente non era l'autore originario -all'epoca del ricorso Germi era defunto- bensì suo figlio; una variante peraltro ininfluente, come si evince dall'art. 23 L.d.A., a termini del quale il diritto previsto dall'art. 20 può essere fatto valere, senza limite di tempo, dal coniuge e dai figli e, in loro mancanza, dai genitori e dagli altri ascendenti e discendenti diretti o, in assenza anche di questi ultimi, dai fratelli e sorelle e loro discendenti! Anche in questo caso il film in questione era stato trasmesso con un gran numero di interruzioni pubblicitarie da un'emittente che deteneva il diritto (ed aveva tutte le intenzioni) di ritrasmetterlo con analoghe modalità; ed anche in questo caso il ricorrente chiedeva l'emissione di un provvedimento di urgenza ex art. 700 c.p.c. per inibire ulteriori trasmissioni.

Il problema non poteva non porsi, commenta il giudice, atteso che le risorse economiche sulle quali si reggono i networks provengono principalmente, se non esclusivamente, dai proventi pubblicitari e che la proiezione di films costituisce la forma di spettacolo più gradita ai teleutenti, onde le ore di trasmissione di opere cinematografiche corrispondono a quelle con più elevato indice di ascolto nelle quali, naturalmente, saranno più frequenti le interruzioni destinate alla diffusione di messaggi pubblicitari destinati al pubblico. Per definire il problema è necessario allora individuare il punto di equilibrio tra i due contrapposti interessi in contesa, quello connesso all'esercizio della libertà di iniziativa economica (appartenente all'emittente) e quello dell'autore alla presentazione dell'opera nella sua identità originaria; compito dell'interprete, quindi, è di accertare fino a quale punto possa spingersi l'attività di impresa (finalizzata al conseguimento del massimo profitto) e dove questa debba invece arrestarsi per non ledere l'altrui diritto. Il limite non può che essere quello fissato dall'art. 20, dal che deriva che lo sfruttamento economico del film diventa illecito nel momento in cui assuma una forma tale da divenire fonte di pregiudizio per il diritto morale dell'autore.

(E' appena il caso di ricordare come anche in questo caso la società resistente avesse provato ad escludere l'applicabilità, alla fattispecie, dell'art. 20, sostenendo che tale norma sarebbe operante soltanto riguardo agli atti relativi alla stesura dell'opera e non anche riguardo a quelli concernenti la comunicazione di essa. Si argomentava in proposito che le interruzioni pubblicitarie non incidono sul contenuto ideologico e narrativo del film nè modificano il linguaggio espressivo, ma attengono puramente al modo di rappresentazione dell'opera. Senonchè la modifica apportata, all'art. 20, dal D.P.R. 8 gennaio 1979, n. 19 -che estende la tutela ad ogni atto a danno dell'opera- consentono all'autore di insorgere anche contro gli attentati alla dignità dell'opera che non importino modificazioni in senso stretto del contenuto e della forma espressiva. Ed anche prima della citata novella, esulando dal campo cinematografico, la giurisprudenza 16. aveva riscontrato nel testo originario dell'art. 20 gli estremi per considerare esistente la lesione del diritto morale anche solo quando la destinazione e l'uso dell'opera fossero stati radicalmente diversi da quelli voluti dall'autore, ravvisandosi in ciò una deformazione della volontà e del gusto dello scrittore e quindi, indirettamente, del contenuto intrinseco dell'opera).

L'ordinanza precisa, tuttavia, che il giudizio sulla esistenza in concreto della lesione del diritto morale dell'autore può avere solo carattere relativo al singolo caso, rifiutando la possibilità di formulare parametri astratti: condividendo sostanzialmente la posizione del pretore, il giudice dispose la visione del nastro videoregistrato contenente copia dela trasmissione messa in onda dalla società resistente, per concludere che in quel caso il blocco dell'azione scenica, reiterato per ben otto volte, per una durata apprezzabile e nei momenti più significativi, oltre a costituire un obiettivo fattore di svilimento dell'opera, non può non influire (...) sulla valutazione del film 17. . La nuova ordinanza diverge invece da quella del caso Samperi nel fatto che il giudice ritiene di concedere la tutela ex art. 700 giudicando non condivisibili le ragioni addotte dal pretore per negare la stessa tutela. Quest'ultimo si era dichiarato non competente a predeterminare le specifiche modalità di trasmissione di un film che fossero compatibili con l'omogeneità e la continuità dell'opera, assumendosi una funzione di supplenza finalizzata a colmare le lacune prodotte dalla inerzia del legislatore sull'argomento. Al contrario, il giudice del caso Germi precisa che l'emanando provvedimento di urgenza non implica la formulazione di prescrizioni di carattere generale (id est, la creazione di regole di condotta) alle quali debbano attenersi i titolari delle emittenti televisive, ma deve tradursi, puramente e semplicemente, nell'ordine di inibizione della diffusione del film "Serafino" con le stesse modalità già attuate nella precedente trasmissione o con modalità analoghe, per numero, frequenza e durata degli inserimenti pubblicitari, che compromettano l'unitarietà dell'opera e provochino le conseguenze negative sopra illustrate. Pur ammettendo che il suo provvedimento resta di carattere assai elastico -poichè finisce in sostanza col rimettere al soggetto obbligato l'individuazione di liceità della concreta utilizzazione dei film- il giudicante conclude sottolineando come la pronuncia di un provvedimento urgente di quel genere sia comunque idoneo ad una tutela preventiva del diritto morale dell'autore e che sia senz'altro più corretta di una decisione che -come quella più volte citata- riconosca l'esistenza di un pregiudizio imminente e irreparabile e, nello stesso tempo, neghi una qualsiasi forma di tutela cautelare.

La sentenza 18. che -provvisoriamente come si è accennato- chiude la vicenda non porta nuovi elementi di grande rilievo, se si eccettua che nella posizione difensiva dell'attore si incontra per la prima volta la tesi secondo cui ogni inserto pubblicitario comporta, di per sè, una alterazione della individualità dell'opera cinematografica trasmessa col mezzo televisivo di guisa che anche una sola interruzione integra l'illecito ex art. 20; una tesi che il giudice si rifiuta ancora di condividere. Merita forse ricordare anche, in quanto introduce un tema interessante su cui si tornerà, un'argomentazione della convenuta Reteitalia per dimostrare l'inesistenza di un illecito nella interruzione pubblicitaria della trasmissione televisiva di un film. Secondo tale tesi gli spettatori, per il fatto stesso di scegliere di assistere alle trasmissioni di un determinato canale televisivo, accettano preventivamente le inserzioni pubblicitarie e sono perfettamente consapevoli che esse non sono attribuibili all'autore dell'opera cinematografica. Mentre la posizione è agevolmente smontata dall'osservazione che nella fattispecie non si discuteva dell'interesse degli spettatori ad una visione non distorta del film, bensì del diritto dell'autore al rispetto della identità prima che della dignità dell'opera, sembra importante che si cominci a delineare l'esigenza di tutelare quest'ultima non più soltanto attraverso il diritto morale d'autore (e conseguentemente attraverso il nesso inscindibile che fa in certo senso tutt'uno dell'opera con chi l'ha creata, quasi personificandone la natura di proiezione della personalità dell'autore) ma anche, indipendentemente, come parte di un patrimonio culturale che va comunque salvaguardato dagli attentati compiuti in nome del profitto.

L'evoluzione della tutelabilità del film contro gli spot compie un passo indietro con la terza pronuncia giudiziale sulla questione 19. . Dopo Samperi e Germi toccava a Franco Zeffirelli convenire in giudizio un'emittente televisiva per le interruzioni inferte al suo "Romeo e Giulietta"; un film al quale la derivazione shakespeariana aveva conquistato almeno il favore unanime non solo del giudice (nella sentenza leggiamo attributi come ...notissima trasposizione di alto livello artistico: un giudizio che costituisce conferma dell'inopportunità di affidare ai tribunali un giudizio qualitativo su opere dell'ingegno) ma anche dei legali dell'emittente. Tale pacifico apprezzamento, tuttavia, non sortì effetti di rilievo se il giudice -pur ammettendo nel caso specifico la violazione del diritto morale a mezzo delle interruzioni 20. - non solo non concesse l'inibizione di ulteriori analoghe trasmissioni dell'opera, ma ritenne di dover dichiarare formalmente ciò che fino ad ora si era solo presupposto: e cioè che la comunicazione dell'opera cinematografica a mezzo (sic!) di inserti pubblicitari non è di per sè ed in ogni caso "specialmente" pregiudizievole: il giudizio sulla lesione del diritto morale dell'autore va espresso in concreto, caso per caso, in relazione al genere e alla qualità dell'opera nonchè alla frequenza, durata e collocamento degli intervalli di pubblicità.

Vedremo più avanti gli sviluppi ulteriori di questo inquietante rafforzarsi della tesi che, rifiutando di riconoscere l'illiceità di qualsiasi interruzione innaturale dell'opera cinematografica, vanifica di fatto la tutela preventiva del diritto morale sul film. E' opportuno però soffermarsi brevemente su un altro tema, che la sentenza in esame propone per la prima volta: e cioè quello dei limiti alla rinunciabilità del diritto morale, che la società convenuta evocava in ben due argomentazioni. Nella prima, l'emittente contestava l'esistenza in concreto della illiceità della propria condotta sulla base della mancata reazione giudiziale di Zeffirelli nei confronti della trasmissione della medesima opera avvenuta negli Stati Uniti con analoghe modalità; a ciò il giudice replicò agevolmente con la considerazione che il mancato esercizio del diritto non ne comporta l'estinzione (salvo che si dia il caso di prescrizione estintiva -che nella fattispecie non ricorreva- e l'ipotesi indicata dal II° comma dell'art. 22, su cui infra) nè può provarne l'inesistenza. Privo di consistenza era anche l'appellarsi della convenuta ad una dichiarazione dell'autore secondo cui la da lui contestata modalità di trasmissione non sarebbe stata dannosa ove remunerata: si trattava semplicemente di una concezione assai materialistica del diritto morale, concezione che tuttavia non può comportare, per l'interesse pubblicistico prevalente su quello privato, rinuncia al diritto (art. 22, comma I° L.d.A.).

La seconda argomentazione richiede una replica più articolata. La società emittente affermava di aver acquistato il diritto di sfruttamento televisivo del film "Romeo e Giulietta" dalla società americana Paramount a cui il regista aveva anteriormente ceduto l'identico diritto con l'espressa previsione della possibilità di interrompere la proiezione per consentire l'inserimento di pubblicità. Il fatto che l'asserzione della società non fosse corredata da validi elementi probatori non impedì al giudice di giudicare l'eccezione comunque infondata in diritto sulla base di un'attenta analisi dell'art. 22 L.d.A. A norma del I° comma, infatti, il diritto morale dell'autore è inalienabile, il che comporta il divieto di qualsiasi atto che abbia per effetto il trasferimento del diritto, quindi anche il divieto della rinuncia, non soltanto (ovviamente) traslativa, ma anche di quella meramente abdicativa. Ciò discende dalla considerazione della ratio del divieto che è quella (...) di garantire sempre la certezza della paternità dell'opera e la sua integrità. A temperare il rigore della norma giunge l'eccezione introdotta nel II° comma del medesimo articolo, secondo cui l'autore che abbia conosciuto ed accettato le modificazioni (ed ogni atto in danno) della propria opera non è più ammesso ad agire per impedirne l'esecuzione o chiederne la soppressione. Ma la norma va interpretata restrittivamente, se non si vuole tradire la ratio del divieto: si deve, pertanto, ritenere che la rinuncia al diritto morale dell'autore (...) può avere efficacia soltanto obbligatoria e non anche reale, nel senso che essa è vincolante soltanto tra le parti e non comporta il diritto del destinatario del negozio di rinuncia di trasferire a terzi tale diritto.

Riprendendo il tema dell'integrità, e proseguendo un esame cronologico della giurisprudenza, si incontrano i primi frutti del consolidarsi del criterio casistico nelle motivazioni di un'ordinanza 21. emessa dal Pretore di Roma. Chiamato a pronunciarsi sulla causa intentata da Federico Fellini contro Reteitalia e Canale 5, che avevano diffuso con le interruzioni pubblicitarie il film "Otto e mezzo" (un'opera -questa sì- di alto livello artistico) il pretore non si limitò a negare l'inibitoria di nuove trasmissioni analoghe, adducendo una volta di più l'impossibilità di un accertamento preventivo delle lesioni prodotte dagli spot, ma si spinse fino a dichiarare le medesime lesioni insussistenti anche nella specie sostenendo che:
-le opere di Fellini avevano ormai una fama consolidata a tal punto da non poter essere scalfita da qualsiasi interruzione pubblicitaria;
-la maggioranza dei telespettatori, come attestavano i sondaggi (sic!), si è assuefatta alle interruzioni pubblicitarie qualitativamente migliorate e quindi non reagisce più negativamente;
-avvenendo la fruizione dell'opera teletrasmessa in un ambiente assai diverso dalla sala cinematografica, la dannosità della pubblicità è limitata.

L'ulteriore svuotamento del contenuto del diritto morale è aggravato dall'essere attuato con argomenti evidentemente privi di valore, soprattutto quando si riferiscono alla possibilità di un danno "limitato", quasi adombrando -tra le due alternative di violazione e non violazione del diritto soggettivo- l'esistenza di una terza possibilità. Al primo punto risponde il Collovà 22. che, se si dovesse attribuirgli fondamento, bisognerebbe dire che quando una persona è universalmente stimata la si può diffamare impunemente perchè nessuno ci crede; la motivazione dell'ordinanza appare ancora più inquietante se la si confronta con la citata ordinanza sul caso Samperi, tenendo presente che in entrambi i casi non solo si trattava dello stesso ufficio giudicante -la Pretura di Roma- ma addirittura dell'identico estensore: il quale, allora, aveva affermato che l'esistenza, in concreto, di una lesione al diritto morale d'autore (...) dipenderà da una serie di elementi, quali la natura del film (essendo di tutta evidenza che la valutazione varia a seconda che trattasi(sic!) di film d'arte ovvero di un film meramente commerciale...) La contraddizione è palese: se l'opera non è un "film d'arte" può essere interrotta; se invece l'opera è talmente artistica da costituire un capolavoro universalmente riconosciuto allora..., proprio in quanto tale, potrà essere ugualmente interrotta dalla pubblicità! Viene spontaneo chiedersi quale debba mai essere il "giusto" livello artistico di un'opera filmica perchè possa dirsi leso il diritto morale... 23. .

il secondo argomento prospetta una sostituzione del sondaggio demoscopico alla norma di legge e noi sappiamo bene che, in diritto, non si può fare riferimento ad una reputazione media, ma occorre prendere in considerazione il soggetto leso 24. . Inoltre, per sostenere la tesi dell'accettazione pacifica dello spot da parte del telespettatore il pretore fa riferimento a sondaggi non meglio identificati dimenticando invece i dati -di segno inequivocabilmente opposto- di alcune indagini serie ed ampiamente documentate 25. . Infine, il terzo argomento introduceva, senza la giustificazione di alcuna norma della legge sul diritto di autore, una sorta di tutela affievolita per la tutela dell'opera cinematografica quando teletrasmessa.

L'ultimo atto dell'involuzione giurisprudenziale sul tema in esame, prima di una rassicurante e drastica inversione di tendenza, è costituito dalla famigerata decisione del Tribunale di Roma 26. su una seconda causa intentata da Zeffirelli. Il film in questione era, questa volta, il suo "La bisbetica domata", tratto da Shakespeare come il precedente "Romeo e Giulietta", ed esso pure trasmesso con numerosissime interruzioni pubblicitarie. Ribadita l'impossibilità di formulare parametri astratti per valutare l'esistenza della lesione, il giudice dispose la visione del nastro contenente la trasmissione cui il ricorso faceva riferimento per poi dichiarare che, nel caso di specie, otto interruzioni di durata variabile tra i due e i quattro minuti, cadenzate con frequenza oscillante tra un massimo di 17 minuti ad un minimo di sei, e contenenti ciascuna dai sei a dieci spot per un totale di sessantuno non hanno determinato (...) alcuna frammentazione del ritmo narrativo del film e alcuna degradazione del suo contenuto ideologico ed estetico. Appigliandosi all'indubbio miglioramento delle tecniche di interruzione attuate dalle emittenti (che ormai evitavano di interrompere a metà una scena o un dialogo, ed avevano imparato ad approfittare degli stacchi temporali interni alla pellicola) il giudice giunse a parlare di uso sapiente e dosaggio equilibrato delle inserzioni pubblicitarie. Gli inserimenti, infatti, risultano collocati nelle pause narrative o in momenti di naturale conclusione delle sequenze. Per esempio, il messaggio pubblicitario viene inserito al termine di un episodio recitato, dopo che la ripresa si distoglie dai protagonisti e si volge al paesaggio e quindi al cielo; oppure alla conclusione di una scena, dopo il matrimonio dei protagonisti, allorchè si esaurisce anche il tema musicale di accompagnamento; oppure alla fine di un colloquio e dopo una dissolvenza.

L'assoluta soggettività del giudizio viene posta nella massima evidenza dal confronto col tenore della sopra citata pronuncia del Tribunale di Milano: il quale, posto davanti ad una fattispecie sostanzialmente identica (stesso regista, stessa origine shakespeariana del soggetto e stessa entità e modalità dell'inserimento pubblicitario) ed applicando anch'esso il medesimo criterio casistico era giunto all'opposta conclusione della sussistenza della lesione -pur, come abbiamo visto, senza concedere alcun genere di tutela. Se quella posizione lasciava aperta la porta per lo meno ad una azione ex post, tale possibilità veniva esclusa dal Tribunale di Roma, la cui decisione fu definita dalla dottrina un'autentica pietra tombale per il diritto morale dei registi cinematografici 27. .

Per rincarare la dose, la sentenza giungeva a recuperare -avallandola- la distinzione tra stesura dell'opera e la sua comunicazione ai fruitori, idealmente fondata, in quanto (...) sono attività riconducibili a soggetti diversi: ai coautori la prima, agli utilizzatori la seconda. A seguire la pronuncia, l'identificazione tra stesura e comunicazione si potrebbe accettare solo quando l'opera venga proiettata in sala cinematografica, cioè nel modo ad essa più congeniale; la comunicazione televisiva, invece, deteriorando per la sua stessa natura l'opera cinematografica (che viene rimpicciolita, vede alterati i suoi colori ed i contrasti e perde in definizione ed in profondità) verrebbe percepita dallo spettatore come altra cosa rispetto alla proiezione cinematografica. Ma mentre la distinzione, in senso peggiorativo, fra trasmissione televisiva e proiezione cinematografica non può che trovare consenzienti, il giudice manca di distinguere tra i fattori dei deterioramento tecnicamente inerenti al mezzo televisivo e quelli che dipendono invece da libera scelta di chi opera la trasmissione: se necessariamente il tubo catodico riduce l'immagine a pochi centimetri quadrati, l'inserimento della pubblicità non fa certo parte delle insormontabili limitazioni tecniche imposte dal mezzo! Ne' può valere il ragionamento che, poichè la comunicazione televisiva subisce comunque una serie di modificazioni peggiorative, tanto vale sopportare anche gli spot, quasi si potesse configurare un aberrante cumulo giuridico di lesioni necessitate e non. Si può al contrario precisare che l'autore ha prestato il suo consenso alla trasmissione televisiva -con tutti gli ineliminabili inconvenienti che questa comporta- ma non all'arbitraria interruzione dell'opera.

Per buona misura, infine, la sentenza in esame ricorre ad un argomento addirittura imbarazzante sostenendo che quando il pubblico è in condizioni di individuare l'intervento altrui e di distinguerlo dall'opera creata dall'autore, l'eventuale danneggiamento dell'opera e la correlativa sottovalutazione della stessa non potranno risalire fino all'autore e comprometterne la reputazione. Se è vero che non ogni diminuzione di pregio dell'opera determina necessariamente una diminuzione di stima dello autore, si deve affermare che i due effetti sino variabili indipendenti ogni volta che l'azione lesiva sia dovuta al fatto del terzo. Da ciò deriverebbe che, poichè gli spettatori percepiscono con evidenza che i messaggi pubblicitari non sono inseriti dall'autore, la reputazione di quest'ultimo sarebbe salva e non si configurerebbe alcuna violazione dell'art. 20. Nel citato commento alla sentenza lo Zeno Zencovich replica coloritamente a quest'ultima posizione: E quandomai (...) l'azione lesiva non è dovuta ad un "terzo"? Contro chi mai verrebbe intentata l'azione? (...) Insomma la diminuzione (del diritto morale dell'autore) sussisterebbe solo in caso di auto-mutilazione... Fedele al principio che ha enunciato, il Tribunale dimostra così che può non esserci identificazione fra la stesura di una sentenza e la sua motivazione!

Dopo una pronuncia simile, di totale indifferenza per il disagio degli autori, la svolta impressa alla vicenda dall'ultimo atto del caso Germi 28. ha il sapore di una rivincita finale. Gli eredi Germi avevano proposto appello contro la sentenza citata più sopra contestando la necessità di dover decidere caso per caso sulla sussistenza della lesione: chiedevano la riforma del provvedimento nel senso che dovesse essere inibita nella diffusione del film "Serafino" qualsiasi interruzione mediante inserzioni pubblicitarie, e non soltanto le interruzioni attuate con modalità analoghe a quelle accertate nel corso del precedente dibattimento. La Corte rilevò che la sentenza impugnata era in linea con tutta la giurisprudenza che fino a quel momento aveva deciso sul tema, per poi osservare che l'ampliamento dell'art. 20 L.d.A. ad opera del d.p.r. 8 gennaio 1979 n. 19, aggiungendo al testo dell'articolo l'espressione ogni atto a danno dell'opera, aveva superato la limitazione della difesa alle sole modifiche materiali dell'opera, estendendola a qualsiasi condotta idonea a svilire l'immagine creativa dell'autore, come un'evoluta lettura impone di interpretare nello specifico l'endiadi "onore e reputazione dell'autore" di cui alla normativa.

L'esigenza di certezza del diritto -e lo si è visto chiaramente nella contraddittorietà delle due sentenze su ricorsi di Zeffirelli- rende quanto meno inopportuna l'asserita necessità di adottare il criterio casistico per accertare la sussistenza in concreto della lesione. A discredito di tale tesi milita inoltre la considerazione che una gerarchia delle qualità artistiche delle opere cinematografiche, al fine di stabilire una soglia d'intoccabilità alle interruzioni pubblicitarie, non può ragionevolmente essere riservata al potere sostanzialmente discrezionale del giudice (...) essendo questi chiamato soltanto a garantire paritariamente la libertà d'espressione, costituzionalmente protetta, indipendentemente dalla natura e dalle qualità di essa, che sono rimesse alle valutazioni proprie della generalità, della cultura, del tempo 29. . Nè è possibile quantificare in frequenza e durata delle interruzioni la idoneità o meno di esse a provocare lesioni, potendo per questo essere sufficiente anche una sola interruzione (o, addirittura, l'impercettibilità di essa, come precisa il giudice alludendo agli inserti subliminali, che penetrano direttamente l'inconscio emotivo sfuggendo alla mediazione della coscienza critica).

Infine, non sembra lecito ad un terzo stabilire numero e collocazione delle interruzioni non volute dall'autore, essendo la rappresentazione cinematografica strutturalmente realizzata per una fruizione ininterrotta e potendo ogni interruzione, non voluta dall'autore, compromettere il complessivo effetto della disposta composizione di immagini, voci e musica nella loro voluta successione. Non sembra esagerato affermare che quest'ultima frase ha una portata addirittura storica: la dichiarazione di infrazionabilità del film costituisce infatti il primo riconoscimento inequivoco e formale di quello specifico artistico che l'opera cinematografica inseguiva fin dalle origini, finendo confusa, di volta in volta, con l'elaborazione di opera preesistente, con la narrazione, con la drammaturgia. Il film è, in realtà, tutto questo insieme ed allo stesso tempo altra, unica ed originaria forma d'espressione artistica, in cui ogni elemento eterogeneo si mescola in maniera inscindibile con gli altri sotto la guida del regista.

Per tutti questi motivi il giudice ritenne di dover accogliere l'appello, rispondendo in senso positivo al quesito di stabilire se la tecnica dell'interruzione pubblicitaria di un'opera cinematografica teletrasmessa sia incompatibile con le esigenze di salvaguardia dell'opera; qualsiasi lesione di un bene giuridicamente protetto quale proiezione della personalità umana è illecita indipendentemente dal suo spessore; nè può il giudice giudicare della tollerabilità dell'atto lesivo, avocandosi la responsabilità di un atto che dispone del diritto alla reintegrazione od al risarcimento, e che quindi non può far capo che al titolare leso: egli deve limitarsi ad accertare la lesione e l'entità dell'eventuale danno per poter precisare il risarcimento.

Va ricordata, infine, la riflessione della Corte in risposta alle proteste dell'emittente convenuta, la quale rimarcava che l'emittenza televisiva privata è gratuita e trova nella pubblicità la sua esclusiva fonte di finanziamento: la sentenza che stiamo esaminando fa rilevare che, in primo luogo, la gratuità dell'offerta televisiva privata costituisce notoriamente non un atto di liberalità, bensì una scelta economica. E difatti non si contesta che, in una ricostruzione non romantica della filosofia economica delle reti cosiddette commerciali, sia evidente che il servizio da esse reso non consiste tanto nell'offerta ai cittadini di intrattenimento gratuito, bensì nella fornitura alle aziende di un pubblico per la loro pubblicità; il prodotto, insomma, non è lo spettacolo, ma il pubblico stesso. In quest'ottica è inevitabile che le opere cinematografiche teletrasmesse (come del resto ogni altra trasmissione su rete commerciale, sia essa varietà, notiziario o qualsivoglia d'altro) non possano che rivestire la funzione di "esca" per attrarre l'attenzione del potenziale consumatore sugli spot pubblicitari 30. . Ma se questa politica non è in sè giuridicamente censurabile, rientrando a pieno diritto nella libertà di iniziativa economica sancita dall'art. 41 della Costituzione, nessuna ragione giuridicamente apprezzabile giustifica che si possa esprimere meditatamente interrompendo senza consenso il naturale svolgimento dell'altrui opera per l'inserimento di spots, ben potendo questi ultimi ricevere lecita collocazione prima o dopo la fruizione dell'opera cinematografica o negli intervalli naturali di un'opera in parti. (...) La pratica pubblicitaria attuata mediante interruzioni delle opere del cinema trasmesse per televisione contrasta, infatti, con il limite dell'utilità sociale garantito dalla medesima norma primaria richiamata dalle parti appellate (l'art. 41 Cost., appunto), poichè è ben noto il diffuso interesse sociale, ordinariamente pretermesso, ad una corretta ed integra fruizione dell'opera che non dia spazio nel suo svolgimento ad inevitabili captazioni dell'attenzione, comunemente sanzionate dall'ordinamento, anche in materia negoziale, come distorsive della volontà.

1 Salvatore Loi, Videogrammi e diritto di autore, in Utilizzazione di opere cinematografiche e audiovisive (Roma, 1989).

2 Non è questo il luogo per una bibliografia critica sull'argomento, che sarebbe peraltro sterminata. Ricordiamo soltanto Buio in sala - Cent'anni di passioni dello spettatore cinematografico (Venezia 1989), documentatissimo saggio del Prof. Gian Piero Brunetta sulla sala cinematografica e sul suo ruolo determinante nella fruizione di un film.

3 Forse rendendosi conto di questa possibilità, alcuni produttori di videocassette hanno segnalato l'uso di scanning in taluni loro prodotti con la dizione "Versione a tutto schermo". Ma al di là della sporadicità di tali casi, non sembra che una simile frase possa valere come segnalazione della natura dell'intervento, almeno finchè essa non sia entrata nell'uso corrente. Il che non sembra debba verificarsi nell'immediato futuro.

4 Anonimo, Tribunale francese condanna "La Cinq" per l'inserzione del suo marchio nella proiezione di telefilm (Dir. Aut., 1988, 524).

5 Lax, Colorazione di vecchi films in Bianco e Nero e Diritto di Autore (Temi Romana, 1983, 233); Saranzani, Aspetti giuridici relativi alla riconversione a colori di film in Bianco e Nero negli Stati Uniti (Dir. Aut., 1986, 299); Gatti, Colorazione di vecchi films in Bianco e Nero e Diritto di Autore (Dir. Comm., 1990, I.391); Zarcone, Problemi relativi alla liceità della colorazione dei film in Bianco e Nero (Dir. Radio Telec., 1988, 396).

6 La precisazione può sembrare superflua ma non lo è ove si colgano le analogie con una delle giustificazioni addotte in talune cause concernenti l'interruzione di film con inserti pubblicitari: i quali, secondo i resistenti, non potevano arrecare danni all'opera in quanto incidenti solo sulla manifestazione, e non sulla sostanza, di essa. Cfr. infra.

7 Una spinta decisiva verso la colorizazione, infatti, avvenne con l'acquisto da parte della Turner Entertainment (una delle due principali società impegnate nella colorizzazione) dell'immenso magazzino cinematografico della MGM; acquisto verificatosi nel 1986 e che diede il via libera alla colorizzazione di centinaia di film degli anni '40 e '50. (Cfr.: Albini, Il falcone colorizzato- Il film ricolorato, Video Magazine n. 63, 1987; riprodotto sul catalogo Eurovisioni - 6-11 Ottobre 1987, Roma 1987).

8 Prima sentenza in Francia sulla colorazione di vecchi film (Dir. Aut., 1988, 522).

9 Un estratto della pronuncia della Cassazione francese (sentenza n. 861 del 28 maggio 1991) è pubblicato in Dir. Aut., 1991.

10 Rass. Dir. Cinem., 1960, 97).

11 Macione, Diritto morale d'autore e tutela della identità personale (Riv. Dir. Ind., 1983, 456 sgg.).

12 Zarcone, cit., pag. 402.

13 Se non rischiasse di portare fuori tema, si dovrebbe aprire qui una parentesi sul costume tutto italiano di interrompere i film anche nelle sale cinematografiche, operando una suddivisione in "Primo Tempo" e "Secondo Tempo" mutuata dal teatro ma assolutamente arbitraria nella proiezione cinematografica, quando si tratti di pellicole di produzione straniera: all'estero, infatti, l'intervallo viene inserito soltanto nei casi di pellicole particolarmente lunghe, oltre le due ore e mezza. Al contrario, poichè nei cinematografi italiani l'intervallo è tradizione consolidata, i film prodotti nel nostro paese vengono concepiti e realizzati prevedendo, spesso già in fase di sceneggiatura, la cesura centrale. La differenza si vede nella comparazione tra i tagli inferti a molti film americani (concepiti per una fruizione ininterrotta) e le interruzioni delle pellicole italiane: di regola, nel primo caso si tende ad interrompere a metà una scena appena incominciata, quasi a voler fornire allo spettatore il "teaser" della seconda parte. Nei film italiani, invece, la divisione in due tempi è di solito più netta e non è raro il caso in cui ai due tempi corrispondano due veri e propri "atti", differenziati anche da elementi narrativi, da ritmi e da ambientazioni.

14 Non è tuttavia esatto quanto riportato da Collovà che, in A proposito della interruzione dei film in televisione a mezzo di messaggi pubblicitari (Dir. Aut. 1990, 199), sostiene che Samperi sia stato il primo autore a sollevare la questione. In realtà il ricorso del regista è datato 26 ottobre 1982, ed è dunque successivo a quello presentato da Franco Zeffirelli in data 13 maggio 1982. E' vero invece che il caso Samperi costituì la prima pronuncia sull'argomento dato che, trattandosi della richiesta di un provvedimento d'urgenza, fu deciso con ordinanza il 30 dicembre del 1982; mentre Zeffirelli dovette attendere, per la pronuncia sul suo caso, il 13 novembre del 1984. Gli estremi delle due decisioni sono i seguenti: per Samperi, Pret. Roma 30 dicembre 1982 (Dir. Aut., 1983, 212 con riproduzione di un commento di Fragola, da Il giornale dello spettacolo del 7 gennaio 1983; Foro It., 1983, I, 453, con nota di Pardolesi e 1143 con nota di Roppo; Riv. Radiodiff., 1983, 97, con osservazioni di Santoro; Riv. Dir. Comm., 1983, II, con nota di Zeno Zencovich: Interruzioni pubblicitarie nei film e diritto morale d'autore; Giurispr. di merito, 1984, 702, con nota di Ceniccola: Spot pubblicitari nelle trasmissioni televisive); per Zeffirelli, Trib. Milano 13 novembre 1984 (Dir. Informazione e informatica, 1985, 231, con nota di Zeno Zencovich: Disponibilità del diritto morale d'autore e spot pubblicitari nei film).

15 Trib. Roma 30 maggio 1984 (Giurispr. It., 1984, I sez. II, 705, con nota di Zeno Zencovich: Diritto morale d'autore, diritti della personalità e interruzioni pubblicitarie di un film). L'ordinanza inaugura la lunga controversia giudiziaria fra gli eredi Germi e Reteitalia, che culminerà con la risolutiva sentenza App. Roma 16 ottobre 1989.

16 Trib. Milano 24 aprile 1950 (Boll. UPLAS 1951, 81); riportato da Galtieri, Protezione del diritto di autore e dei diritti connessi, Roma 1988. 17 Nel corso della proiezione del film si erano verificate otto interruzioni della durata oscillante tra i tre e i quattro minuti, in ciascuna delle quali sono stati diffusi dai sette a dieci spot (!) per un totale di sessantasei. Su due ore di trasmissione, poco meno di mezz'ora era stata costituita da pubblicità e le interruzioni, cadenzate in media a dodici/tredici minuti l'una dall'altra, in coincidenza con le situazioni più importanti della narrazione si avevano raggiunto una frequenza di soli sei/sette minuti!

18 Trib. Roma 23 novembre 1984 (Dir. Radiodiff. 1984, 571).

19 Si tratta della già citata Trib. Milano 13 novembre 1984; cfr. nota (14).

20 Si trattava di otto interruzioni pubblicitarie, ciascuna della durata media fra i tre e i quattro minuti, contenenti in totale sessantasei spot, il cui inserimento aveva allungato il tempo di fruizione del film di circa mezz'ora. Lo si riporta non per pignoleria ma per l'importanza che questi dati rivestiranno in un confronto -di cui infra- tra la presente ed altra analoga pronuncia successiva.

21 Pret. Roma 30 luglio 1985 (Dir. Informaz. e informatica, 1986, 160, con nota di Zeno Zencovich: Il diritto morale degli autori di spot pubblicitari e le pretese dei registi cinematografici; Giur. It., 1986, I, 2, 81, con nota di Garutti: Spots pubblicitari durante la trasmissione televisiva di un film, forme attuali e prospettive di tutela).

22 Op. cit.

23 Grandinetti, Diritto all'integrità dell'opera cinematografica e spots pubblicitari (Giurisp. Cost. 1990, 499).

24 Collovà, op. cit.

25 Di due sondaggi Eurisko ed Abacus aveva dato notizia il settimanale Panorama del 24 gennaio 1983, pag. 86. Nell'aprile dello stesso anno la rivista specializzata in marketing Prima comunicazione dava notizia di un sondaggio Demoskopea secondo il quale ben il 66% dei telespettatori aveva un riflesso di totale rifiuto delle interruzioni pubblicitarie.

26 Trib. Roma 20 febbraio 1987 (Dir. Inf. 1987, 1014, con nota di Zeno Zencovich: Una nuova sconfitta per il diritto morale dei registi cinematografici; anche su Nuova Giur. civ. 1987, I, 535, con altra nota di Zeno Zencovich: Opera cinematografica teletrasmessa - interruzioni pubblicitarie).

27 Zeno Zencovich: Una nuova sconfitta per il diritto morale dei registi cinematografici (Dir. Inf. 1987, 1019).

28 App. Roma 16 ottobre 1989 (Foro it., 1989, 3201, con una perplessa nota di Pardolesi; Dir. Inf. 1990, 115, con nota di Bianchini: Interruzioni pubblicitarie del film e tutela del diritto morale dell'autore: una questione ancora irrisolta). La sentenza è stata commentata estesamente e, per lo più, con entusiasmo dalla dottrina. Tra gli interventi più rilevanti, si ricorda il già citato Collovà, A proposito della interruzione dei film in televisione a mezzo dei messaggi pubblicitari (Dir. Aut. 1990, 199) che compie anche un attento excursus dei precedenti giurisprudenziali in materia; Scassellati Sforzolini, Sulla frazionabilità o meno dell'opera cinematografica teletrasmessa (Dir. Aut. 1990, 229); infine Grandinetti, Diritto all'integrità dell'opera cinematografica e spots pubblicitari (Giurisp. Cost. 1990, 499).

29 Alla conclusione si può pervenire, a contrario, dal comma II° dello stesso art. 20 L.d.A., che richiede esplicitamente una valutazione di ordine artistico per la tutela delle opere architettoniche. Se il legislatore ha creduto di dover testualmente prescrivere tale valutazione per quel determinato genere di opere, l'assenza di riferimenti ad analoga necessità per opere di altra natura non si può interpretare che nel senso di escluderli.

30 L'opinione è condivisa anche dalla dottrina d'oltralpe, come si legge in Kerever, L'intervention de la publicité dans le film télediffusés (Bulletin du droit d'auteur - UNESCO, n. 3, 1988, 10: "Ainsi la communication audiovisuelle commerciale apparait-elle comme une entreprise de location d'espaces publicitaires, les spectacles jouant le role de tissu interstitiel entre deux spots. Le spectacle est en somme un mal nécessaire qu'il faut bien accepter pour retenir l'attention du télespectateur, ou plutot de la cible du message publicitaire: mais l'idéal serait que le programme se présentat come une suite ininterrompue de messages publicitaires; malheuresement pour l'entreprise, le téléspectateur résiste at ne peut absorber les messages due dilués dans des spectacles".

Vai a Conclusioni, oppure torna al Capitolo 1 o alle Letture
1