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Quelli che seguono sono i testi di alcune lettere scritte negli ultimi anni. Appaiono in rosso le parti tagliate dai direttori e non pubblicate.
Lettera al Resegone, pubblicata con alcuni tagli il 21 maggio 1999
Signor Direttore,
Le scrivo perchè non riesco a trovarmi d'accordo con quanto sento e leggo sulla vicenda del Kosovo. Nel 1995 la Croazia fece la sua "pulizia etnica" nella Krajina, e buttò fuori circa centocinquantamila Serbi le cui famiglie avevano abitato la regione da cinquecento anni. I Croati non fecero le cose molto delicatamente, e il Tribunale per i crimini di guerra dell'Aia se ne sta ancora occupando. Non ricordo bene che cosa fecero la NATO e gli Stati Uniti per fermare i Croati, ma di fatto i Serbi non sono più in Krajina. Adesso che le parti si sono invertite e sono i Serbi a fare "pulizia etnica", le nostre coscienze si sono svegliate. Primo dubbio: non sarà che la "pulizia etnica" la stiamo facendo da qualche anno noi contro i Serbi?
La domanda non è peregrina, perchè mi sembra molto strano che i Serbi abbiano sempre torto, quasi che fossero incarnazioni del male. Certo, qualcuno pateticamente mette le mani avanti asserendo che i Serbi sono brave persone e che è solo la classe governante che vuole la "pulizia etnica" e la violenza. Già sentito. Durante il Ventennio l'unico fascista in Italia era Mussolini: anche Farinacci aveva qualche dubbio. E non parliamo dei Tedeschi: gente ordinata, con l'unico difetto di obbedire alle autorità! Mi sembra più probabile invece che, pur essendoci come in tutte le nazioni un buon numero di dissidenti, molti Serbi siano d'accordo con Milosevic, ma lo dico per spingerci a un esame di coscienza, non per condannare i Serbi insieme a Milosevic. Spesso infatti, di fronte a eventi spiacevoli nei quali, sotto sotto, sentiamo di avere avuto un ruolo, cerchiamo di esorcizzare le nostre colpe individuando la singola "scheggia impazzita" o il piccolo gruppo di schegge impazzite: se ammettessimo che un intero popolo può impazzire, nulla più ci difenderebbe dalla contro-ipotesi che i pazzi siamo noi.
E torniamo allora ai Serbi: che cosa gli ha fatto male? L'aria che respirano? L'acqua che bevono? Oppure sono geneticamente diversi dagli altri esseri umani? Hanno due cromosomi in meno? Può darsi, ma io preferisco un'altra ipotesi: che qualcuno, non perchè "cattivo" ma proprio perchè "buono", abbia fatto qualche errore, di cui adesso i Serbi pagano le conseguenze. E mi riferisco alla mania tutta occidentale di questi ultimi anni di prendere le difese delle minoranze. La storia dell'umanità è certamente fatta di minoranze oppresse fino al punto di scomparire, ma è anche fatta di minoranze che da sole, lentamente, sono riuscite a farsi valere e, in quanto minoranze, non certamente con la violenza. Se abbiamo fiducia nell'umanità e nei nostri principi, dobbiamo anche aver fiducia nel fatto che non è necessaria la violenza per progredire. E allora perchè appoggiare materialmente e moralmente quei gruppi che non tendono all'unione, ma alla separazione, non tendono alla collaborazione, ma all'autonomia? E che sono disposti al confronto diretto, fino anche alla violenza, per far prevalere le loro idee e le loro finalità? E chi ci dice che, appoggiando loro, per giunta non appoggiamo semplicemente una cricca di avventurieri e politicanti assetati di potere che, usando il loro stesso "popolo" come scusa o come ostaggio, lo sfruttano anche peggio di quanto non faccia il governo centrale da cui vogliono separarsi? E chi ci dice che la risposta violenta e disumana oggi adottata dal governo centrale non sia semplicemente l'ultimo gradino di una scala salita passo a passo in un botta e risposta con i separatisti, in cui ogni gradino è spiegato, se non giustificato, dal gradino precedente salito dagli antagonisti? Dov'era all'inizio la televisione, così scrupolosa nel farci vedere ora queste ultime "puntate"? Ma non sto dicendo queste cose per incolpare i separatisti: sto dicendole per incolpare noi. Senza il nostro "via libera", senza la nostra interessata compassione, nessuna minoranza si sognerebbe mai di mettersi contro alla maggioranza. Davide non ha affrontato Golia a mani nude: qualcuno la fionda gliela deve pure aver data.
E allora la domanda che pongo è questa: anzicchè incoraggiare, chi a parole e chi con aiuti concreti, le varie minoranze curde, kosovare o chi più ne ha più ne metta, non sarebbe il caso di esaminare davvero, obiettivamente e non emotivamente, le richieste delle popolazioni (non dei leader) e, se tali richieste risultano legittime, muoversi in senso positivo inducendo i governi centrali a una maggior giustizia, premiando ogni loro passo in tale direzione? Se il denaro buttato nell'intervento militare contro la Serbia e negli aiuti ai profughi kosovari fosse stato usato per pagare un comportamento più giusto da parte dei Serbi, dubito che ci troveremmo in questa situazione. Non è isolando uno Stato e umiliandolo con proposte di trattati "made in E.U." che si ottengono risultati. Abbiamo mai pensato a che cosa succederebbe se il resto dell'Europa imponesse alla Francia un trattato di autonomia richiesto dai leader degli indipendentisti corsi? O se la stessa cosa accadesse a noi per l'Alto Adige o per le comunità albanesi del Sud? Ma, soprattutto, chi ha paura di una terza guerra mondiale, pensi seriamente a che cosa potrebbe accadere se la popolazione ispanica residente chiedesse la separazione del Texas dagli Stati Uniti d'America: concretamente e addirittura legalmente non è un'ipotesi tanto improbabile. Forse non succederebbe nulla, se nessuno stato estero intervenisse. Ma se cominciassimo a promettere e magari a dare ai "Texanos" il nostro aiuto? E se provassimo a chiedere agli USA si sedersi a un tavolo con noi per decidere con noi il futuro del Texas? Il Cielo ce ne scampi e liberi
Antonio Attanasio
Lettera al Giornale di Lecco, pubblicata il .
Signor Direttore,
Come genitore sono rimasto perplesso davanti a un volantino col quale alcuni studenti hanno giustificato il loro diritto di interrompere il pubblico servizio fornito dalla scuola: loccupazione era giustificata perchè era stata decisa dalla maggioranza degli studenti di quellistituto.
Se lha deciso la maggioranza, è democratico, no?
No. Affinchè una decisione sia democratica, deve essere stata presa non da una maggioranza qualsiasi, ma dalla maggioranza di coloro che hanno diritto di decidere. Chi paga per il servizio fornito dalla scuola? Chi ha deciso di istituire tale servizio? Chi ne ha deciso programmi e regole di funzionamento? Luniversalità dei cittadini aventi diritto di voto, o direttamente o attraverso i rappresentanti democraticamente eletti. Ed è quindi solo quelluniversalità dei cittadini che ha il diritto di decidere se una scuola può essere occupata e il suo funzionamento può essere interrotto. Lessere studenti della scuola non dà quel diritto. Gli studenti possono tuttal più astenersi dallandare a scuola, e in tal caso se la vedranno con i rispettivi genitori, ma non possono impedire agli altri studenti, nemmeno se "minoranza", lesercizio di un diritto costituzionale.
Ci sono nella scuola tante cose che non vanno, ed è giusto che coloro i quali, vivendo al suo interno, se ne rendono conto facciano tutto il possibile per richiamare lattenzione dei responsabili. Ma "tutto il possibile" non include anche il sopruso e il disprezzo per i diritti altrui. E vi è poi una protesta che, rivolgendosi contro decisioni prese dal Ministero della Pubblica Istruzione, nasce da una totale incomprensione del metodo democratico. Far conoscere il proprio dissenso dalle decisioni prese dal Governo è un diritto. Tentare di ribaltare quelle decisioni con comportamenti che vanno oltre la semplice manifestazione del proprio pensiero è squadrista. Il Governo che ha fatto quelle scelte che non piacciono ad alcuni studenti non ha preso il potere con la forza, ma è stato formato secondo le regole di una Costituzione democratica e ha avuto lapprovazione di un Parlamento democraticamente eletto.
Personalmente sono su posizioni molto lontane dal Governo attualmente in carica, ma preferisco cento volte questo Governo piuttosto che portare indietro di settantasette anni il calendario della storia.
Antonio Attanasio
Lettera al Resegone, pubblicata con alcuni tagli il gennaio 2000
Egregio Direttore,
In una società multiculturale quale vuole essere la nostra, l'introduzione di nuove occasioni di festeggiare e divertirsi, anche se copiate pari pari da culture lontane, potrebbe essere routine. Tutt'al più, se un'annotazione sociologica merita di essere fatta, questa potrebbe riguardare l'opportunità o meno di istituzionalizzare un'altra festa in un calendario che è fatto di 365 giorni di divertimento all'anno (uno in più nei bisestili). Non Le chiederei quindi di sprecare spazio sul Suo giornale per questo mio commento, se non fosse che l'altro giorno mi è capitata sotto gli occhi la pubblicità di un locale dei dintorni che annunciava una serata dedicata a Halloween promettendo "la notte più pazza, più horror, più sexy dell'anno". Finché si tratta di scovare nuovi motivi per indurre la gente a spender soldi, la cosa può ancora essere "normale"; e quindi, pur con tutte le perplessità del caso, posso accettare senza commenti che questo mondo bottegaio approfitti della moda americaneggiante di Halloween per vendere zucche di plastica, cappelli delle streghe, lumini, e altre cose del genere. Al massimo, mi può venire un groppo in gola vedendo i nostri bambini agghindati come i loro coetanei americani senza sapere perchè e soprattutto senza la possibilità di andar di casa in casa a questuare un regalino (ma d'altra parte, grazie al fatto di abitare in condomini, non lo possono fare nemmeno il 31 gennaio, cioè alla data in cui in molti dei nostri paesi lo facevano i loro nonni). Quando però si approfitta di Hallowe'en (All Hallow Even, cioè la Vigilia di Ognissanti) per promuovere una "notte pazza, horror e sexy", un commento diventa d'obbligo. L'orrore non c'entra nulla con Halloween, e lo spavento (bonario) che i bambini americani vorrebbero incutere nei loro vicini di casa per farsi dare un regalino è già uno stravolgimento della tradizione: uno stravolgimento che non è il caso di portare oltre, nemmeno, o tanto meno, con una contaminazione in senso dissacrante. La festa di Ognissanti corrisponde alla cristianizzazione del capodanno celtico, iniziata probabilmente in Francia ai tempi di Carlo Magno e culminata con una bolla di Papa Sisto IV nel 1475. Quanto sia improprio parlare di pazzia, orrore e sesso a proposito della festa cristiana di tutti i santi e i martiri è assolutamente evidente, ma anche per quanto riguarda il capodanno celtico le cose non stanno in modo diverso. Secondo le tradizioni celtiche, la vigilia del capodanno, durante la notte, i morti si mettevano in comunicazione con i vivi o addirittura tornavano ad essere presenti fra di loro, ma nel senso di una benefica comunione cosmica, senza alcuna connotazione di orrore, di paura, o di peccato. Mala tempora currunt, si diceva parecchi decenni fa (non al tempo dei Romani, nonostante la frase sia in latino...): se correvano brutti tempi allora, che cosa dobbiamo dire di adesso?
Antonio Attanasio
Lettera al Resegone, pubblicata con alcuni tagli il 12 maggio 2000
Egregio Direttore,
Ricorderà certamente le manifestazioni degli agricoltori di qualche tempo fa per il problema delle "quote latte". Bene, il 4 aprile scorso finalmente è stato approvato il decreto che stabilisce lassegnazione delle nuove quote. Leggendo la notizia, mi ha colpito un particolare: le Regioni dovranno assegnare almeno il 20% delle nuove quote ai giovani agricoltori. E possibile, mi son detto, che ogni anno ci siano così tante persone che entrano nel mondo dellagricoltura da giustificare un provvedimento che riserva loro il 20% di qualcosa? Il numero degli addetti allagricoltura in Italia non era in calo? Ho riletto la frase e ho capito che, come succede quando si ha fretta, avevo messo insieme concetti che non centravano. Era agli agricoltori "giovani" che veniva riservato quel 20%, e "giovani" non vuol dire "nuovi": anzi, gli agricoltori giovani sono sostanzialmente i figli degli agricoltori vecchi, quelli che in altri settori chiameremmo i figli darte o i figli di papà: nuovi per niente. E, dato che le aziende agricole sono quasi sempre affari di famiglia, quella riserva ai giovani significa poco o nulla. Lagricoltura rimane un club privato tra i più esclusivi, in cui si entra per diritto ereditario o dietro pagamento di somme astronomiche.
Il caso ha voluto che subito dopo prendessi in mano il numero speciale della rivista Time, uscito per il 22 aprile, "giorno del Pianeta Terra". E a pagina 50 che cosa trovo? Un articolo intitolato "La giungla dasfalto" con un cappello che dice "la corsa globale ad accaparrarsi la terra sta inghiottendo lo spazio e le risorse di cui hanno bisogno lagricoltura e lambiente naturale". La fotografia a corredo dellarticolo, sviluppata su quasi due pagine, ritrae un tappeto di case monofamigliari ordinatamente allineate come si usa fuori dItalia, che copre tutta una pianura fino alle montagne allorizzonte. E la didascalia recita: "Periferia di Las Vegas. Dove è finito il deserto?"
Dunque, lidea secondo cui le case dabitazione sottraggono terreno prezioso allagricoltura e allambiente naturale non si trova solo da noi, ma è diffusa anche in altre nazioni occidentali. Coltivare vaste estensioni di terra è bello e giusto: metterci sopra una casa è brutto e sbagliato. Qualè la ricetta della felicità? Raccogliere la gente in microappartamenti in falansterii di venti piani. Poi la si può sempre scarrozzare a turni dentro un pulman a vedere attraverso il finestrino i campi coltivati e la natura incontaminata. Non aprite i finestrini, per favore.
A me però, che mi occupo della salute fisica e mentale della gente, non importa proprio che fine abbia fatto il deserto. A me importa che fine ha fatto la periferia urbana di quarantanni fa, con quelle case unifamigliari brutte, disordinate, ma tutte con il loro bravo orticello, col pollaio, con la vite e i due o tre alberi da frutta. Non mi dà fastidio il fatto che un condominio abbia preso il posto di un campo di patate: anche in questa nostra Italia e in questa nostra Lombardia, di terre incolte in cui trasferire il campo di patate ce ne sono ancora: quello che manca sono i nababbi con abbastanza soldi per comprarle e abbastanza voglia per coltivarle. Piuttosto, a me dà fastidio che il condominio abbia preso il posto delle case con il piccolo campicello; o che la casa col pollaio maleodorante e lorto con i cavoli brutti da vedere sia stata trasformata nella villetta per nouveau riches, tirata a lucido e con aiuole cimiteriali. E soprattutto a me dà fastidio che si continui a pensare allagricoltura solo come allindustria della produzione vegetale o animale, ignorando completamente la possibilità di una micro-agricoltura part-time o di pura sussistenza, e facendo solo leggi che favoriscono, a spese delle altre componenti delleconomia, chi già è padrone di terreni del valore di centinaia di milioni. se non di miliardi, senza pensare minimamente a favorire chi, senza ambizioni e capitali faraonici, vuol semplicemente iniziare a fare il contadino.
Da anni vado dicendo queste cose, ma la mia sembra una voce che grida nel deserto (lunico deserto rimasto, dopo che città come Las Vegas li hanno fagocitati). E mai possibile che il modello di vita condominiale vada bene a tutti e impensierisca solo me? Il condominio ha un senso quando è una scelta libera e autonoma dettata dal desiderio di vivere nel centro di una grande città o dal timore di sporcarsi le mani con la terra, non può essere unimposizione dettata da un sistema economico miope e demenziale. Molti dei problemi nervosi e comportamentali da cui è afflitta la nostra società nascono da questa imposizione di un modello di vita innaturale, eppure noi continuiamo a sfornare leggi che favoriscono la speculazione edilizia e, alzando in misura spropositata il prezzo della terra, obbligano chi non sia ricco o abbia ereditato terre e case a vivere prigioniero di pochi metri quadrati di cemento. Oppure, come nel caso citato allinizio di questa lettera, sforniamo leggi che, giocando sui termini, fanno finta di essere innovative ma in sostanza rafforzano semplicemente e ulteriormente lo status quo.
Antonio Attanasio
Lecco
Lettera al Giornale, pubblicata con il maggio 2000
A conclusione della notizia dell'uccisione di un giovane rapinatore da parte della sua vittima a Napoli, la giornalista del TG2 delle 13 ha detto (testuali parole): "saltano fuori Rambo che si difendono da soli". Definire "Rambo" un cittadino esasperato che non si sostituisce ad una giustizia esistente, ma colma semplicemente il vuoto lasciato da una giustizia ufficiale sopraffatta dalla criminalità è estremamente pericoloso. E altrettanto pericoloso è il segnale lanciato alla criminalità da quella stessa giustizia altrimenti latitante, nel momento in cui mette agli arresti, sia pur solo domiciliari, chi ha avuto l'ardire di sparare senza prima verificare la marca dell'arma del rapinatore. Certo, spiace che un giovane sia stato ucciso, ma chiediamoci: quel giovane avrebbe corso quel rischio, se la nostra "giustizia" non gli avesse dato la convinzione di poter violare la legge impunemente e con ogni garanzia di sicurezza? Colpevole di quell'omicidio non è chi ha premuto il grilletto, ma questo nostro Stato che cala ogni giorno le braghe.
Antonio Attanasio
Lettera al Resegone, pubblicata con alcuni tagli il
Signor Direttore,
Le scrivo questa lettera il giorno prima delle elezioni e non so quindi ancora chi le avrà vinte. So però una cosa, e cioè che in queste settimane mi sono arrivati parecchi "santini" con foto di candidati e simboli di partiti che mi chiedevano di votare per loro. Perchè dovessi votare per loro, però, non lo spiegavano.
L'ironia della sorte vuole che questa carta straccia abbia un costo, e che tale costo sia un po' a carico dei candidati ma un po' anche a carico mio, dato che i partiti si finanziano pubblicamente con le mie tasse, e quelli che eventualmente, con buona pace di "Mani Pulite", ricevono ancora fondi occulti li ricevono da ditte che poi ricaricano quelle spese sui prodotti che mi vendono. A tutti quindi il mio ringraziamento.
Non sarei però così irritato se quei "santini" dicessero almeno qualcosa di utile: chi è il candidato, che cosa ha fatto finora nella vita, come la pensa personalmente sui principali problemi del momento, e così via. E soprattutto i "santini" dovrebbero spiegare per filo e per segno quali sono i principi guida del partito e qual'è il suo programma. Ci vuole tanto? Evidentemente sì. Ci vuole una comprensione e un'accettazione del metodo democratico che ancora mancano nella nostra classe politica. Se però qualcuno, a elezioni terminate, dovesse ancora chiedersi perchè la gente non va a votare, una delle principali risposte è qua: i partiti politici non sono squadre di calcio e gli elettori non sono tifosi. Non bastano un bel nome, un simbolo fantasioso e quattro frasi ad effetto per meritarsi un mandato a rappresentare i cittadini. Alla squadra del cuore si può dare fiducia a scatola chiusa, ma a un partito o a un candidato no.
Antonio Attanasio
Lettera al mensile Qui Touring, pubblicata nel numero di aprile 2001
D'accordo col Socio Carlo Viola sull'opportunità di coinvolgere la scuola nell'opera di sensibilizzazione dei cittadini alla fruizione e alla tutela del nostro patrimonio artistico. E d'accordo con Adriano Agnati sul fatto che non si può pretendere che la scuola insegni tutto e che dedichi a ogni materia tutte le ore che i relativi cultori vorrebbero. Quindi forse aumentare l'importanza della Storia dell'Arte nelle nostre scuole non è una via praticabile. Come ex insegnante e attuale genitore so però che da qualche decennio ormai la scuola italiana brucia ogni anno occasioni uniche e risorse preziose organizzando "gite di istruzione" che troppo spesso servono solo a far fare turismo gratis agli insegnanti ed esperienze pecorecce agli studenti. Quanti inutili viaggi a Roma, Parigi, Londra, Vienna, Praga, o Madrid! Viaggi dai quali si ritorna stanchi, frastornati, senza aver capito niente, ricchi solo di un bagaglio di episodi boccacceschi da raccontare agli amici rimasti a casa... La "gita di istruzione" non può avere come meta una città, soprattutto quando è vasta e dispersiva come una capitale, ma deve essere il mezzo dimostrabilmente insostituibile di acquisire una conoscenza diretta di un preciso argomento del programma scolastico: non quindi la "gita a Firenze", ma la gita "agli Uffizi" (e sarebbe già una meta fin troppo vaga!). Ma soprattutto, è ora di fare gite per visitare mostre come quelle che Qui Touring riporta nel suo Almanacco, quelle mostre che gettano luce su punti qualificanti di un programma scolastico. Ne trarrebbero vantaggio il turismo, l'educazione dei nostri giovani, e la credibilità stessa della nostra scuola, oggi ridotta a una barzelletta.
Antonio Attanasio
Lettera al Resegone, pubblicata con alcuni tagli il 30 giugno 2000
Signor Direttore,
Ho letto quanto scritto sul Resegone di venerdì 16 giugno da Alberico Fumagalli in tema di imposizione fiscale. Ho appena finito di compilare la denuncia di quest'anno: grazie al gioco delle aliquote crescenti, di sola IRPEF ho dovuto pagare circa il trentatrè per cento di quanto ho guadagnato col mio lavoro. Sarei quindi favorevole a un'imposizione fiscale calcolata su un'aliquota fissa uguale per tutti, dato che tale aliquota verrebbe certamente fissata molto al di sotto del trentatrè per cento: un governo che rappresenta la maggioranza può infatti permettersi di imporre un simile salasso a una minoranza, ma finirebbe appeso ai lampioni del Lungo-Tevere se osasse imporlo alla maggioranza.
Non credo però che arriveremo mai ad un'imposizione fiscale a percentuale uguale per tutti, e ciò per diversi motivi: primo, perchè questo porterebbe a un gettito fiscale inferiore all'attuale, obbligando i nostri politici ad una gestione economica dello Stato più austera e corretta; secondo, perchè la maggioranza degli italiani è ormai troppo abituata all'idea che più si è ricchi, più si deve essere tartassati. L'eventualità che si possa arrivare a una più equa distribuzione dei redditi con modifiche a monte del sistema economico, e non a valle, non sfiora nemmeno lontanamente il senso morale dei nostri concittadini. Anche chi dice di essere di centro o di destra, sotto sotto è convinto che chi guadagna di più è perchè ruba di più, non perchè ha servito meglio la collettività.
Oh, intendiamoci: molto spesso è vero che chi guadagna di più è perchè ruba di più, ma non è vero sempre, e non c'è nulla di più odioso che sparare nel mucchio, punendo anche gli innocenti allo scopo di punire i colpevoli, tanto più che poi spesso i colpevoli sanno come cavarsela, mentre gli innocenti no. Immaginiamo due persone che fanno lo stesso lavoro, con la differenza però che uno lavora per sette ore al giorno e l'altro per dieci. Ovviamente il secondo guadagnerà di più, ma tale maggior guadagno deriva da un sacrificio maggiore e corrisponde a una produttività maggiore a favore della collettività. Perchè il secondo deve contribuire alle spese della collettività in misura maggiore del primo, quando ha già lavorato a favore della collettività più del primo? Ha conseguito sì un maggior reddito, ma mica glieli hanno regalati quei soldi. Oltre a tutto, può darsi che i soldi guadagnati in più gli servono per comprarsi la prima casa o per curarsi una malattia, o perchè ha una famiglia più numerosa, e sappiamo bene che il farraginoso meccanismo delle deduzioni e detrazioni fiscali non compensa affatto in modo completo e uguale per tutti queste spese.
Se vogliamo essere obiettivi e realistici, il nodo dell'equità fiscale non si può sciogliere giocherellando sulle aliquote dell'IRPEF: fisse, crescenti, o crescenti con quale pendenza. E neppure infoltendo o sfoltendo la giungla delle deduzioni e detrazioni con tutta la conseguente casistica che è solo un monumento alla presunzione e all'imbecillità. Il nodo dell'equità fiscale si può sciogliere solo rendendosi conto che non ci può essere equità senza moralità, e che non può essere considerato morale tassare il lavoro. E' quello il punto. Tassando il reddito da lavoro, lo Stato tassa il lavoro. L'imposizione sul reddito era nata limitatamente ai redditi fondiari ed aveva una giustificazione morale ineccepibile: il reddito che deriva dal possesso esclusivo di un bene sottratto all'uso comune deve dar luogo a un risarcimento. Purtroppo però l'ingordigia degli stati ha poi esteso l'imposizione sul reddito anche ai redditi da lavoro, mascherandosi dietro la giustificazione ipocrita secondo cui bisogna contribuire alle spese dello stato in ragione delle proprie capacità. Che cosa significa? Che se ho avuto la sfortuna di nascere col doppio di muscoli del mio vicino, sono obbligato a lavorare il doppio di lui per mantenere lo stato? Ma questo è schiavismo! Nessuno dà nulla per nulla: se il mio lavoro viene valutato il doppio di quello del mio vicino, è perchè chi ha tirato fuori i soldi ha fatto i suoi conti. Quindi io ho ricevuto il doppio perchè ho dato il doppio: siamo pari e non ci sono altri aggiustamenti da fare. Certo: può darsi che la valutazione del mio lavoro e di quello del mio vicino sia stata sbagliata, ma se è così, bisognerà fare in modo di eliminare questi errori, non di continuare a farli, ricorrendo poi al rimedio fasullo di tassare me più del mio vicino.
E allora come manteniamo lo Stato? Come si è sempre fatto: tassando i consumi, che è l'unica imposizione moralmente lecita. Intanto si possono fissare aliquote diverse a secondo dell'essenzialità o meno dei consumi, e già questo realizza un'equità fiscale maggiore di quella ottenibile con tutti i marchingegni adottati nella tassazione dei redditi (che poi spesso sono solo cani che si mordono la coda). E poi i maggiori consumi corrispondono più da vicino a una maggiore capacità economica. E infine tassando i consumi si va a colpire, come nella tassazione del reddito fondiario, la sottrazione di beni all'uso comune. Mi si potrà dire che questa tassazione indiretta esiste già: va bene, ma allora perchè affiancarle anche l'obbrobrio della tassazione diretta? Se il gettito della sola tassazione dei consumi non è sufficiente, alziamo le aliquote: una volta che sia stata eliminata l'imposizione sul reddito, se anche paghiamo più tasse sui consumi, che male c'è? Da ultimo, una considerazione: evadere le tasse sul reddito non è facilissimo, ma non è nemmeno tanto difficile, e un controllo serio non è possibile perchè non è possibile controllare quindici milioni di cittadini contribuenti. La stessa informatizzazione potrà riuscire abbastanza bene a individuare un maggior numero di errori formali (alienando così ancora di più le simpatie dei cittadini), ma non riuscirà certo a mettere il naso nel salotto buono della gente. Ma, una volta che sono stati controllati produttori e venditori di beni e servizi (cosa anch'essa difficile, ma più facile che controllare quei quindici milioni di persone), l'evasione del cittadino-contribuente diventa per definizione impossibile.
Antonio Attanasio
Lettera al Giornale di Lecco, pubblicata il agosto 2000
Egregio Direttore,
Lo scorso 18 maggio 2000 ricorreva il duecentesimo anniversario della morte del generale russo Aleksandr Vasilevich Suvorov, Conte di Rymniksky e Principe d'Italia. Chi ha prestato attenzione lo scorso anno alle celebrazioni di un altro duecentesimo, quello della Battaglia dell'Adda, avrà certamente sentito ricordare il generale Suvorov, che era appunto comandante in capo degli Austro-Russi e fu vincitore il 27 aprile 1799 a Cassano d'Adda contro i Francesi di Jean-Victor Moreau, luogotenente di Napoleone. Nei libri di storia si parla soprattutto di Cassano d'Adda, ma la battaglia venne combattuta anche a Lecco, ed è verosimile che Suvorov e/o i suoi soldati abbiano calcato le rive dell'Adda in prossimità del Ponte Azzone Visconti.
Proprio in questo duecentesimo anniversario della morte del generale Suvorov la città di Lecco ha terminato i lavori di sistemazione delle passeggiate a lago che si dipartono dal Ponte Azzone Visconti: non potrebbe essere questa una buona occasione per dedicare un tratto di queste passeggiate alla memoria del generale russo?
I motivi sono due: il primo è quello di stimolare in questo modo la curiosità dei nostri concittadini nei confronti della storia locale. Intitolare una strada, un largo, o una passeggiata al generale che vinse l'unica battaglia degna di nota combattuta sul territorio lecchese è certamente un contributo a far ricordare il passato della città.
Il secondo motivo è che, al di là di qualsiasi considerazione su chi aveva ragione e chi torto tra Francesi e Austro-Russi, e al di là di qualsiasi considerazione sulla moralità delle guerre, ricordare il generale Aleksandr Vasilevich Suvorov ci avvicina al mondo che è al di là delle nostre montagne. A parte il fatto che il Suvorov è tuttora considerato dai Russi il più grande generale di tutta la loro storia, anche se andiamo soltanto in Svizzera, poco fuori da Andermatt c'è un monumento eretto alla memoria del generale Suvorov e alla sua abilità tattica nel sottrarre i suoi diciottomila uomini dall'accerchiamento degli ottantamila del generale francese Massena, attraverso il Pragel e il Panixer fino a Coira.
Se tutto questo non bastasse, si potrebbe anche aggiungere che Suvorov fu un uomo molto colto, capace di parlare, oltre al russo e al latino, il tedesco, il francese, l'italiano, il polacco, il greco, il turco, e anche un po' di finlandese, arabo e persiano, ma soprattutto che fu un militare rispettoso delle decisioni dell'autorità politica ma capace anche di essere critico nei confronti delle tendenze autocratiche della corte zarista, al punto da cadere in disgrazia e di morire a San Pietroburgo depresso e malato, dopo che lo zar Paolo III lo aveva privato del comando, del grado, e dei titoli: un esempio di rigore morale di cui abbiamo certamente bisogno.
Antonio Attanasio
Lettera al quotidiano La Provincia, pubblicata il ottobre 2000
Signor Direttore,
Condivido, ma solo in parte, il parere espresso mercoledì 25 ottobre su queste pagine dal Generale Di Dato in tema di "alpinità". Mio padre, per metà siciliano e per metà lombardo, fece il servizio militare come volontario in Fanteria a Milano nella seconda metà degli Anni Venti, ma fu poi richiamato durante la Seconda Guerra Mondiale e mandato in Russia come Alpino nella Divisione Julia. Quando venne il mio turno di prestare servizio militare (si era negli Anni Settanta), feci di tutto per non farmi arruolare e, lo giuro, fu solo per non dare un dispiacere a mio padre e non certo per paura della galera che alla fine vestii la divisa. Era una divisa di fanteria, ed era il 1976. In Friuli la terra tremava e c'era bisogno di medici. Io invece venivo tenuto a scaldarmi al sole di Salerno. Medico laureato da tre anni, riscoprii il mio rancore verso l'Esercito e scrissi una letteraccia che venne pubblicata dal settimanale L'Europeo. Mi aspettavo di finire a Gaeta, e invece no: mi cambiarono divisa e destinazione e mi mandarono a Gemona. L'uniforme era quella dell'Artiglieria da Montagna, e la Divisione la Julia! Fu allora che cominciai a cambiare parere sull'Esercito e, da obiettore mancato, diventai un discreto sostenitore delle Forze Armate. Naturalmente il fatto di essere entrato a far parte della stessa Divisione Alpina di mio padre era solo uno dei motivi: a farmi cambiare parere era stata anche l'esperienza diretta di ciò che vuol dire la disciplina e l'abnegazione quando non ci si trastulla con le parole ma si ha davanti un nemico da combattere, sia esso un altro esercito oppure una calamità naturale. In ogni caso devo ammettere di aver provato un certo orgoglio nell'essere anch'io Alpino della Julia, come mio padre, e qui devo dare ragione al Generale Di Dato. Però devo anche notare che mio padre era, almeno per metà, siciliano e che io, almeno all'inizio, ero addirittura antimilitarista: e ciò nonostante siamo stati Alpini, ed entrambi fieri di esserlo. L'alpinità si assorbe nelle montagne tra le quali si presta servizio: l'alpinità si impara, non è nel sangue e non è nell'aria che si è respirata da bambini. Forse anzi un'eccessiva chiusura del "vivaio" di provenienza degli Alpini è proprio la causa di qualche piccolo difetto che a volte ne incrina l'immagine. Purtroppo avrei preferito che l'eventuale maggiore apertura di quel "vivaio" avvenisse nell'ambito di una leva ancora generalizzata e obbligatoria, non certo nell'ambito di un Esercito di volontari. La forza e la validità democratica di un Esercito sta nell'obbligatorietà del servizio, non necessariamente armato, che andava piuttosto estesa a tutti i cittadini veramente, comprese le donne e compresi soprattutto i tanti furbi e furbetti che proprio a vent'anni imparavano come si fa a farla franca per tutta la vita. Ma questo è un altro discorso...
Antonio Attanasio
Lettera a Tempo Medico, pubblicata con alcuni tagli il 29 novembre 2001
Egregio Direttore,
Perdoni se mi intrometto nella polemica iniziata con la pubblicazione del servizio sui fatti di Genova, ma sento il dovere di ricordare ai colleghi che si potrà forse fare matematica senza interessarsi di politica, ma senza politica non si può fare medicina. La medicina non è occuparsi di malattie come il raffreddore, che guariscono da sole, ma è ricercare le cause delle malattie vere, che spesso sono inestricabili da un modo di vita frutto di scelte politiche. E la medicina è adottare le cure più idonee, che non sono sempre e solo interventi chirurgici e farmaci, e che anche quando lo sono non possono essere prescritti con un semplice "Questa è la cura. Adesso arrangiati (o si arrangi l'SSN)". Fa bene quindi Tempo Medico a dare un taglio "politico" a molti suoi articoli e non mi dispiacerebbe se si occupasse anche di politica tout-court.
Forse però questo è il punto: la linea editoriale di Tempo Medico sarebbe più accettabile se lo spazio dato ai rapporti fra politica e medicina fosse più chiaro, se tutti gli articoli fossero sempre firmati, se il lettore sentisse in Tempo Medico un interlocutore più articolato, più autocritico e autoironico, più possibilista, invece di una anonima e monolitica "redazione". Non sarebbe poi male se, per tutti gli argomenti politicamente spinosi, si prendesse l'abitudine di presentare contemporaneamente più pareri diversi, come già viene fatto nella rubrica in terza pagina. In sostanza, avendo scelto una linea "progressista", Tempo Medico si trova in una posizione molto delicata, e non solo perché ovviamente scontenta i colleghi "di destra" e quelli del "qui non si fa politica", ma anche perché rischia di cadere nei trabocchetti delle cause "radical chic", molto meno popolari oggi che certi pseudo-progressisti con gli abiti firmati sono tornati al loro ovile conservatore, e da sempre invise a chi progressista lo è davvero. D'altra parte, non so fino a che punto la coerenza con gli atteggiamenti di riviste come Lancet o il British Medical Journal possa servire da giustificazione. Che si tratti di riviste di ottimo livello è pacifico, ma non è detto che tutto quello che viene da Oltre Manica sia perfetto o che, se eccessivamente enfatizzato, non produca qualche perplessità. Personalmente, abbonato a Lancet per oltre vent'anni e saltuariamente anche collaboratore su invito di Ian Munro, che non era certo un conservatore, poco tempo dopo l'abbandono della direzione da parte di Munro, di fronte a una più marcata "politicizzazione" della rivista, non solo ho cessato di collaborarvi, ma ho anche disdetto l'abbonamento. Se ora qualche lettore decide di fare lo stesso con Tempo Medico, non ne condividerò certo i motivi quando si tratta di un rifiuto della politica per principio, ma devo ammettere che un po' lo capisco quando penso a certe prese di posizione un po' troppo sicure di sè su questioni tutt'altro che oggettive. I fatti di Genova sono un ottimo esempio di questa oggettività pretesa ma inesistente, che noi poveri medici della mutua siamo obbligati tutti i giorni a sopportare. Come per i farmaci presentatici dalle ditte produttrici e come per l'evidence based medicine, anche per Genova dobbiamo fare un atto di fede in qualcosa che teoricamente potremmo o (nel caso di Genova), avremmo potuto verificare personalmente, ma che di fatto non abbiamo potuto e non possiamo verificare coi nostri occhi. Altri l'hanno fatto per noi, ma sappiamo bene che quegli "altri" sono solo una delle due campane, e che sia l'una che l'altra campana hanno ottime ragioni per mentire... Ecco da dove nasce l'irritazione dei colleghi. Che dobbiamo credere che, fino alla smentita dell'anno prossimo, il beta-farmacolo guarisce l'unghia incarnita dopo solo due applicazioni ed è privo di effetti collaterali, passi. Che dobbiamo credere che abbassando di due punti il colesterolo LDL, tutti i pazienti di sesso femminile di nome Andrea nati a Framingham nel 1969 avranno un'aspettativa di vita di quattro giorni in più, passi. Ma che dobbiamo anche credere che a Genova i poliziotti erano cattivi e il popolo di Seattle era buono, e che, se non ci fidiamo, abbiamo fatto male a non andarci anche noi a vedere di persona, questo è troppo. Non è tanto la questione di chi fossero veramente i cattivi e chi i buoni, ammesso che una distinzione si possa fare: è semplicemente il fatto che vorremmo essere indotti a interrogarci sul problema della globalizzazione senza dover fare ancora una volta un atto di fede.
Antonio Attanasio
Lettera al Giornale di Lecco, pubblicata con alcuni tagli il 3 dicembre 2001
Signor Direttore,
Sto seguendo con una certa preoccupazione i lavori di sistemazione del lungolago di Lecco fra piazza Cermenati e largo Europa. Mi pare infatti di capire che a lavori ultimati la sede stradale risulterà piuttosto stretta e le possibilità di sosta e parcheggio saranno ridotte rispetto a prima. Nulla di male, in teoria: basta lasciare la macchina un po' più in là e godersi la passeggiata a lago che fra l'altro, grazie a questi lavori, sarà ancora più bella. Il guaio è che il lungolago si trova a Lecco, e Lecco si trova in Italia. Questo significa che non ci si potrà ragionevolmente aspettare che i divieti di parcheggio e di fermata verranno rispettati, e di conseguenza in certi momenti sarà molto difficile o addirittura impossibile poter circolare sulla strada. Chi percorre il lungolago quotidianamente ne ha già avuto un assaggio in questi giorni, con auto, furgoni e persino camion parcheggiati alla bell'e meglio sulla carreggiata. Ci si può sempre illudere che, terminati i lavori, la polizia municipale avrà ordine di far rispettare i divieti di sosta con maggior rigore, ma, della volontà di far rispettare i divieti di sosta e fermata, abbiamo sotto gli occhi un esempio illustre in quella via Leonardo da Vinci che, come principale via di ingresso nella città, presenta ai nostri ospiti un biglietto da visita che ha il pregio di essere realista ed obiettivo ma non certo quello di essere lusinghiero.
Antonio Attanasio
Lettera al quotidiano La Provincia, pubblicata il 10 dicembre 2001
Egregio Direttore,
Le scrivo a proposito della questione del presepio alla scuola materna di Germanedo, a cui le maestre vorrebbero rinunciare in nome di una malintesa "tolleranza" verso chi professa altre religioni. Ci sono concetti che non possono essere estremizzati senza autoelidersi. Ad esempio, è dubitando delle "certezze", che abbiamo avuto il progresso scientifico e tecnologico di cui godiamo i frutti; se però dovessimo dubitare anche dell'utilità del dubbio, torneremmo anche più indietro del Medio Evo. Lo stesso discorso vale per la cosiddetta "tolleranza" (sarebbe più esatto parlare di "accoglienza", ma questo è un altro problema). Se, per non urtare chi è venuto fra noi con culture e tradizioni diverse, cancelliamo la nostra cultura e le nostre tradizioni in nome di una tolleranza portata all'estremo, finiamo col cancellare anche quella stessa cultura della "tolleranza" (o dell'"accoglienza") che ci ha permesso di accettare i "diversi". E' vero che non tutti i cristiani sono "tolleranti" ed è vero che molti credenti di altre religioni professano una tolleranza pari o maggiore di quella di molti "cristiani", ma il cristianesimo rimane di fatto l'unica religione che oggi ponga ufficialmente ed esplicitamente l'accettazione del "diverso" fra i capisaldi della sua morale. Possiamo tollerare tutto, ma non la cancellazione di quei segni della nostra cultura religiosa che sono alla base del nostro saper e "dover" tollerare. Tra l'altro, anche se la cosa può dispiacere tanto ai cristiani quanto ai nostri atei imbevuti loro malgrado di cultura cristiana, vorrei ricordare che il comandamento di amare gli altri come noi stessi ha senso solo come comandamento soprannaturale: eliminato ogni riferimento divino, da un punto di vista naturalistico quel comandamento diventa un assurdo che nemmeno l'ipotesi di un "contratto sociale" può interamente giustificare. Se eliminiamo i riferimenti religiosi, il nostro sistema politico e sociale potrà tenere solo fino a che si manterranno per inerzia gli effetti di sedici-diciassette secoli di cristianesimo: dopo sarà il caos.
Molti "tolleranti" della domenica sembrano essere condizionati da certi film e romanzi sulla tratta degli schiavi nelle Americhe due secoli fa: questa però è l'Italia e questi sono gli albori del ventunesimo secolo. Nessuno è andato nel Terzo Mondo a mettere le catene agli "extracomunitari" per portarli a sudare nelle nostre piantagioni di cotone. Queste persone sono venute da noi di loro spontanea volontà, ben sapendo che questo è un Paese cristiano. Hanno scelto liberamente l'Italia, che oltre a tutto è meno ricca e offre meno possibilità di lavoro di alcuni Paesi di cultura e religione islamica. Forse l'hanno scelta perché è più "tollerante"? Appunto, ma a quale "tolleranza" potevano riferirsi? Se fosse questione di religione, un musulmano troverebbe sicuramente la massima accoglienza e tolleranza in un Paese islamico. Non c'è quindi alcun bisogno di obliterare la nostra religione o la nostra cultura di stampo cristiano per "meglio accogliere" chi professa religioni diverse dalla nostra. Anzi: in questo modo rischiamo di scontentare chi, e ce ne sarà pure qualcuno, ha scelto l'Italia proprio perché Paese cristiano, e soprattutto rischiamo di educare all'intolleranza chi è venuto da noi per motivi di benessere materialistico. In fondo, perché chi è venuto fra noi per godere del nostro benessere deve aver difficoltà a "tollerare" la nostra religione e la nostra cultura?
Antonio Attanasio
Egregio Direttore,
Mi
riferisco all'articolo sulla sanità lombarda, in cui si sostiene che stiamo
andando verso un modello "americano", in cui la salute sarà garantita
solo a chi potrà pagare. Mi interesso di sanità da più di trent'anni, e credo
quindi di capirne qualcosa, e il modello proposto dalla nostra regione non piace
nemmeno a me. Proprio per questo vorrei però fare qualche puntualizzazione,
dato che nulla può aiutare di più un progetto sbagliato quanto un'obiezione
sbagliata.
Primo.
Che il modello sia "americano" è una semplificazione fuorviante.
Negli Stati Uniti il finanziamento pubblico dell'assistenza sanitaria non è un
problema risolto, ma è una questione tuttora viva, con soluzioni in divenire.
E' vero che non esiste un'assicurazione pubblica obbligatoria per tutti i
cittadini sul modello del nostro Servizio Sanitario Nazionale, ed è vero che ai
costi dell'assistenza sanitaria vengono applicate le regole generali
dell'economia, diversamente da quanto accade in Italia, dove ci illudiamo di
poterle evitare. Questo però non signfica che le persone senza assicurazione
vengano lasciate morire per le strade: significa solo che ai furbetti col conto
in banca non viene permesso di nascondere la carta di credito, cosa che
ovviamente fa arrabbiare i furbetti, che esistono oltre oceano come esistono
qua.
Secondo.
Come medico, sono grandemente lusingato ogni volta che sento dire che le mie
visite e le mie ricette salvano la vita alla gente, ma come persona raziocinante
rabbrividisco. Rispetto a qualche decennio fa, oggi ci sono più medici, più
esami specialistici, più medicine, più operazioni chirurgiche, e la vita media
si è allungata. Le due cose però non sono necessariamente correlate. Dalle
nostre parti la gente vive più a lungo (e affolla di più il pianeta sottraendo
risorse a chi è già povero) grazie al fatto che abita e lavora in condizioni
più protette, igieniche e sicure. Il contributo della medicina all'allungamento
della vita media è marginale, e comunque ha rilievo statistico solo nel campo
della medicina preventiva (quella vera, basata su vaccinazioni e norme igieniche; non quella
commerciale, basata sui farmaci anti-colesterolo o sui
consigli alimentari che cambiano come la moda di Parigi). Fatta questa premessa,
non si capisce questa furia di far fare gratis a tutti
TAC, PET, MOC, RMN e chi più ne ha più ne metta; o di far ingoiare
gratis a tutti antibiotici per il mal di gola, anti-ipertensivi per la pressione
a 150, anti-colesterolemici per il colesterolo a 240, o anti-infiammatori per il
mal di testa. Paradossalmente, ed è forse una nemesi sociale, se dovessimo metter tutto a pagamento e consentire quindi solo ai ricchi di curarsi con
questa roba, preserveremmo i poveri da una serie infinita di malanni fisici e
mentali causati da una medicina che solo in una minima parte ha validità
dimostrata scientificamente e solo in una parte ancor più piccola è necessaria.
In
conclusione: la sanità non si sottrae alle regole dell'economia, e ha dei costi
che qualcuno prima o poi deve pagare togliendo risorse ad altri settori. Prima
di decidere se e quanto denaro pubblico possiamo destinare alla sanità,
dobbiamo chiederci quali dimostrazioni scientifiche assolutamente ineccepibili
vi sono che le prestazioni sanitarie che compriamo con quei soldi non siano un
bidone. E' un dovere morale che abbiamo nei confronti di quegli stessi cittadini
che vorremmo "beneficiare" con quelle prestazioni e, soprattutto, di
quei cittadini che devono rinunciare a qualcosa perché noi destiniamo quei
soldi alla sanità anzicchè ai loro bisogni. L'assistenza sanitaria pubblica
oggi "assiste" più che altro i medici, i farmacisti, le case
farmaceutiche, i padroni dei laboratori, i fabbricanti di elettromedicali e
presidi medico-chirurgici, e soprattutto la gran carovana della burocrazia
sanitaria. E' un peccato che al loro coro interessato si uniscano inconsapevoli,
con la loro buona fede, coloro che vogliono difendere i cittadini e, soprattutto, i cittadini più
deboli.
Antonio
Attanasio