RAGIONAMENTI SU LINGUA E POESIA
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COMARE LINGUA

Traccia dell'intervento di Bruno Tognolini al convegno SARDEGNA DA SFOGLIARE, Cagliari, novembre 2001

LA LINGUA DELL'EDEN

Articolo pubblicato sulla pagina culturale del sabato de "L'Unione Sarda" nel gennaio 2007.

LE PAROLE STAMINALI

Articolo pubblicato sulla pagina culturale del sabato de "L'Unione Sarda" nel gennaio 2007.

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COMARE LINGUA

"C'era ogni volta nei regni delle rime"
Traccia dell'intervento di Bruno Tognolini al convegno "Sardegna da sfogliare", Cagliari, novembre 2001


  • I versi, le rime, le filastrocche, sono una MADRE-LINGUA, una lingua materna, amorosa, sillabata, cantata, ritmata con la pulsazione del cuore, del sonno, della conta, del gioco, del pincaro, della corda, della danza, della malattia, del lutto, e di tante altre onde del corpo e dell'anima.

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  • Alla MADRE LINGUA segue in genere il PADRE LINGUAGGIO, appreso a scuola; la lingua nazionale, non famigliare; la lingua della patria non della matria.

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  • Questo "padre lingua" per molti sardi e per molti anni è stato l'italiano, che - si dice - ha oppresso la madre lingua sarda. Sarebbe ben buffo che ora si rovesciassero i ruoli e fosse il contrario: il sardo per me sarebbe un "padre lingua", che per fortuna nessuna legge, opportunità o opportunismo geopolitico mi impone nel mio mestiere di (studiare a scuola e) adottare.

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  • (Oltretutto, francamente, lo preferisco come madre, che si propone in forza d'amore e non s'impone in forza di legge. E senz'ombra di dubbio più feconda e gagliarda appare la stirpe linguistica generata da madre lingua sarda e padre lingua italiano, che non l'opposto).

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  • La mia madre lingua, quindi, è l'italiano: bella e alta, grande e ricca, piena di forza e di soavità, come in un sirventese del trecento. In questa lingua scrivo in prosa e, con grande piacere e una certa abbondanza, in rima.

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  • Ma le madri, più spesso dei padri, di solito si conoscono a vicenda, si capiscono, si assomigliano, si intendono, "se la intendono", si riconoscono quando si avvistano da lontano.

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  • Ed è così per le MADRI LINGUA DELLE RIME, che anche se parlano lingue diverse spesso si incontrano in un sostrato più profondo, che entrambe le sostiene: il ritmo.

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  • Farò degli esempi, non da esperto ma da autore: quindi non di casi esemplari rappresentativi di un campione più vasto, ma di casi episodici e concreti, capitati a me sul cammino del mio lavoro. Dirò rime in italiano che ho scritto per i miei libri o per la televisione, e dirò come ho trovato parentele con altre culture, e addirittura altre lingue.

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  • Dirò rime e filastrocche. Dirò conte in italiano scritte da me e in sardo. Dirò come un duru-duru è stato la mia chiave di codice per capire cosa scrivere su un popolo scuro e difficile a comprendersi, per un documentario "poetico" su Orune.

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  • L'esempio più evidente però saranno le ottave, che si possono scrivere e leggere sui libri (ne leggerò alcune da "La sera che la sera non venne"); ma si adagiano benissimo dislocate in diversi e circoscritti ambiti culturali: per esempio possono essere cantate alla maniera dei maggi toscani (se l'atmosfera del convegno non è troppo paludata e lo consente, ne canterò una io stesso); e addirittura cantare a tenores (se riesco a farmelo copiare da Cabiddu, mostrerò il frammento di video in cui il coro di Orune canta la stessa mia ottava italiana).

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  • Possiamo divertirci allora a parlare, invece di una madre lingua, di una COMARE LINGUA DELLE RIME? La comare è la "cum-mater", la madre assistente, che può badare anche a figli non suoi. Ecco dunque: nei regni delle rime si può dire non solo "c'era una volta", ma c'era due volte, c'era tre volte diverse in posti diversi: c'era ogni volta in forme diverse e simili, sorelle, o cugine. O comari. "Cumare mia - sì - cumare mia...", cominciano molti balli sardi.

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    LA LINGUA DELL'EDEN
    Articolo pubblicato sulla pagina culturale del sabato de "L'Unione Sarda" nel gennaio 2007.

    Arianna Papini, amica autrice e illustratrice fiorentina, nel maggio scorso mi telefonò per raccontarmi un fatto che le era accaduto, e che riguardava un mio libro (qui lo cito con meno pudore, sentendolo quasi più "cagliaritano" che mio). Quattro anni fa aveva letto Mammalingua al suo bambino, prima e dopo la sua venuta al mondo. Dopo un anno e mezzo s'era trovata di nuovo incinta. Nell'attendere la nuova figlia, lesse ancora il libro al bambino, augurandosi che le stesse filastrocche fossero come un ponte fra le due nascite. Quando la nuova figlia nacque il fratellino, preda dei noti sentimenti di sciagura, non volle più vedere quel libro, che per due anni restò nello scaffale. Due anni dopo, in quei giorni di maggio, fu lui stesso, il bambino, a chiedere alla mamma di tirare fuori il libro e leggerlo insieme. Forse iniziava a respingere i suoi draghi. Ma non si tratta di questo: cosa accadde? Accadde che durante la lettura non lui, ma la sorellina prese a farsi seria, e lacrime presero a scorrere dai suoi occhi. La mamma, allarmata, gliene chiese la ragione. La bambina rispose che stava bene, che continuasse a leggere. E poco dopo spiegò: "Sai, io queste cose che leggi... me le ricordo". Arianna comprese che piangeva di emozione e piacere.
    Colpito da questo fatto, che qualcosa di scritto e detto (e confesso: scritto da me) potesse spingersi così lontano, giù nel buio di quelle vene risorgive, ho chiesto lumi a un pediatra ricercatore. È possibile che un fatto simile accada? È possibile e frequente, mi ha risposto, e m'ha spiegato il come e il perché con argomenti che aprivano belle e vaste regioni di pensiero. Da narratore, non da esperto di neuroscienze, riferirò quegli argomenti così.
    Prima della nascita noi siamo immersi in un linguaggio emotivo-sensoriale-percettivo, fatto di sensazioni creaturali, che quelle sensazioni distingue, articola e parla; e chissà - si chiede qui incantato lo scrittore - chissà mai con che parole potenti, soprassature di senso, radioattive; e allineate o raggrumate in chissà che discorsi "ineffabili", a noi ora vietati... Appunto: perché vietati? Perché questo proto-linguaggio, continuava l'esperto, amministrato dall'emisfero destro del cervello, dopo la nascita viene smantellato. La mente, per poter apprendere il linguaggio astratto-logico-razionale degli umani, ha bisogno di un bel reset, come i computer. Tabula rasa, dimenticare tutto. Su questa tavola l'emisfero sinistro, preso il controllo, comincerà diligente a scrivere il linguaggio che serve a noi umani per comprendere e negoziare la vita, per essere umani. Per questo non possiamo ricordare indietro oltre un certo segno: quel reset è come un muro nella mente, eretto per vietare ogni possibile ritorno. Prima delle neuroscienze, vien da notare, altre antiche narrazioni riferivano questi fatti: l'Eden, la Cacciata, l'impossibile ritorno. Ma dietro questo muro di divieto, questa firewall, la lingua dell'Eden è estinta? O sopravvivono residui? Parole, frasi, discorsi? Interi volumi?
    Qualcosa pare ci sia, ce lo dicono gli scandagli e gli specchietti che si possono lanciare là dietro: quelli della psicoanalisi, dell'ipnosi, quelli più antichi dei sogni, e gli assalti incorreggibili dei mistici estatici, dei poeti e dei pazzi, che vogliono tornare lì.
    Oppure i ricordi freschi dei bambini, che ne sono appena usciti.
    I bambini giocano ancora vicini alla lingua dell'Eden, seduti sotto il Muro che la chiude. Non la sanno parlare più, perché son stati "sprogrammati" e sono muti, stanno imparando una lingua nuova. Ma quella vecchia, radiosa e possente, sta appena là dietro. Con gli anni smetteranno di giocare, chiamati dai genitori si alzeranno e verranno via di lì. Ma la figlia di Arianna, che ancora era in zona, ha pianto di emozione sentendo parole battute in rima e metro, che forse echeggiavano altre parole che battevano là dietro in lingua dell'Eden.
    Sgombriamo il campo da ogni equivoco: nessun ritorno è possibile né augurabile, nessun progetto di riconquista di paradisi perduti. Nessun rimorso, quindi, per il compito duro degli adulti, che è strappare i bambini da lì: vieni via da quel Muro, non c'è più niente da fare per te là sotto, e vieni... Appunto: dove?
    Qui, nel mondo. Guarda: quello laggiù è un albero. Questo che tocchi è una tavolo. Quella che hai in bocca è pappa. Ogni cosa ha il suo nome: distinzione, divisione, secessione. Una lingua tagliata di cose divise fra loro e divise da me. Ma ripeto: nessuna contrizione per questo taglio, al contrario: orgoglio per il lavoro gaudioso di Adamo il Nomenclatore. Il padre e la madre che indicano al figlio le cose, pronunciando nel contempo i loro nomi, vedono per la prima volta con gli occhi dei figli quelle cose, quei nomi, e la nuova alleanza tra essi. E scandiscono quei nomi con orgoglio legittimo, di re che presentano ai principi eredi il loro regno, di nuovo scintillante, e la lingua materna che lo dice.
    Passano gli anni. Secondo come viene narrata, la storia della lingua di un uomo può suonare come una mesta serie di espianti ed espropri. La lingua materna scaccia il neonato dalla lingua dell'Eden; la lingua scolastica scaccia il bambino dalla lingua materna. Io non ho questa visione: penso invece che a ogni lingua sottratta, o ridotta in riserve, un'altra diversamente utile e bella, dotata di altra "utile bellezza", venga in cambio donata. Fino a un certo punto - forse a un certo grado di allontanamento da scuola e famiglia e accostamento al mercato - quando purtroppo lo scambio diventa rapina, che in cambio di ricchezza offre miseria.
    Farò solo un esempio. Veniva trasmesso alla radio, tempo fa, uno spot pubblicitario così misero da indurmi a trascriverlo. Diceva: "Insegno a dei ragazzini a cui non importa niente di niente. Ieri però li ho visti interessarsi a qualcosa: la mia fotocamera Samsung, vinta coi buoni Q8". Questo adulto finto-insegnante (e l'adulto pubblicitario che l'ha scritto) non deve stupirsi se ai suoi alunni non importa niente di niente. Ma sbaglia, non niente di niente: niente di lui. Niente di ciò che lui gli dice e gli offre. Quei ragazzi hanno tutte le ragioni a preferire una telecamera a lui: un adulto che parla così vale meno di una telecamera vinta dal benzinaio. I molti adulti che parlano del vuoto dei giovani, che dicono che ai ragazzi non importa più niente di niente, non si rendono conto che i ragazzi sono i nostri specchi, e che quindi stanno parlando di loro stessi. Del loro essere adulti da niente di niente.
    Valeva la pena di toglier loro la lingua dell'Eden, per vendergli una fotocamera?
    Vale la pena combattere contro costoro. Contro la loro rapina di lingua dell'Eden, di lingua bambina, scrivendo libri, facendo film, TV, illustrazioni, racconti e lezioni di scuola più ricche possibile, più inzuppate che possiamo, di bellezza.
    Dove la andiamo a prendere questa bellezza?
    In quel Muro ci sono dei bei buchi. Li conoscono i pubblicitari, ma non solo loro.

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    LE PAROLE STAMINALI
    Articolo pubblicato sulla pagina culturale del sabato de "L'Unione Sarda" nel gennaio 2007.


    Da bambino conoscevo un personaggio che si chiamava Gesù Mimetto. Non ero ben certo di chi o cosa fosse. Per me era un Gesù come quello del Cielo di cui mi parlavano i miei genitori, ma più piccolo, più allegro e più buffo. Comunque non ne ero sicuro: aspettavo di capire meglio.
    Sono passati da allora molti anni, ora faccio lo scrittore, e finora lo scrittore per bambini. A uno scrittore per bambini si domanda spesso se adoperi scrivendo parole "più semplici". Come se fosse semplice adoperare parole semplici (non povere). Comunque la risposta è sì, utilizzo parole semplici. O meglio evito di utilizzare parole inutilmente complicate. Uso quelle che sono "utilmente" complicate. E cosa sarebbe questa utilità? È l'utilità e la bellezza dell'apprendere.
    Quelle che seguono non sono teorie pedagogiche, ma semplice esperienza artigianale, perizia di contafiabe. Che m'ha insegnato questo: se io do al bambino ciò che già sa, berrà la mia storia (filastrocca, film, programma TV, etc.) come acqua, soddisfacendo vendite e ascolti, e ricavando lo stesso nutrimento che dall'acqua si ricava. Se gli do qualcosa di totalmente diverso da ciò che già sa, non berrà affatto; o trovandosi obbligato a bere, e non avendo i "recettori" per quelle forme e contenuti, di nuovo non tratterrà niente. Se gli do ciò che già sa "più uno", cioè qualcosa che assomiglia a ciò che sa ma con un bordo che sporge sconosciuto e misterioso, il bambino si arrampica e cresce.
    Un bambino apprende la lingua così, o anche così. Quando sente una parola nuova ("più uno") non se ne sgomenta: la mette lì, in una zona "temp" della memoria, in osservazione. Non sa ancora cosa vuol dire: può voler dire tutto. Possiede già quella parola, ma non ancora il suo significato, che può evolvere in qualunque direzione. Queste parole in attesa di significato sono, si potrebbe dire, totipotenti: sono "parole staminali".
    Le menti dei bambini sono ricchissime di parole staminali. La maggioranza di esse è destinata a evolversi, restringendo i campi dei possibili significati fino a cristallizzarsi su uno. La mente bambina, con la vertiginosa capacità di calcolo e stivaggio dati di cui è dotata, in fulminei processi di confronto con parole consimili, con contesti, varianti, ridondanze e algoritmi di cui la mente adulta (a proposito di "cose semplici") da un pezzo non è più capace, pian piano realizza questa messa a fuoco.
    Qualche volta però non accade. Le parole staminali si rivelano codici errati, file corrotti, non evolvono verso niente. Il mio Gesù Mimetto, per esempio, qualche anno dopo si è andato a frantumare, poverino, nell'ortografia della frase "Gesù, mi metto nelle tue mani", incipit della preghiera della notte. Ma non è vero, non è finita proprio così...
    Le parole staminali sono la generazione successiva di parole bambine potenti (totipotenti) dopo quelle potentissime e aliene della lingua dell'Eden. Come quelle son destinate all'estinzione: la più parte perché evolvono verso "tessuti specializzati" (vogliono dire quelle cose e solo quelle) e altre perché regrediscono al niente (non vogliono dire più niente). Ma qualcosa di loro rimane. I loro fantasmini, le loro impronte virtuali, le virtù di parole che possono ancora voler dire tutto, fare tutto, essere tutto, trapiantate in menti adulte di scrittori e viaggiatori e sognatori, e normali signore e signori, possono ancora tenere vivi e sani i tessuti dell'anima.
    Ognuno di noi ha i suoi Gesù Mimetto e potrebbe raccontare simili storie. Personalmente le sto ancora raccontando: e Gesù Mimetto, ben lungi dall'essere morto, è qui accanto che suggerisce. Speriamo che resti.


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    Questa pagina è stata modificata l'ultima volta il 15 ottobre 2007


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