2. Scandriglia (Rieti) 1908
Cesare Liguori, incantato dai tasti bianconeri del
pianoforte che vedeva nella casa di una sua zia e che spesso
strimpellava provocando gran frastuono, manifestò all'età di 8 anni
il desiderio di imparare a suonare lo strumento.
Suo padre, un proprietario terriero del reatino, assecondò
ben volentieri la voglia del piccolo Cesare e lo mandò a lezione da
un vecchio professore di pianoforte, Giovanni Castroni, che era stato
il maestro elementare di Montelibretti, un paese delle vicinanze.
Castroni era un arzillo vecchietto che aveva alle spalle
un passato davvero avventuroso. Giovanissimo combattente nei moti
risorgimentali del 1848, aveva mantenuto, nonostante gli anni, uno
spirito ribelle.
Più che di pianoforte amava parlare di libertà, facendo
riferimento al momento attuale dell'Italia: ".è meglio morire
piuttosto che essere schiavi, perché la vita vale la pena di essere
vissuta solo se si muore per la patria..." e alle donne,
inventando strampalate analogie fra esse e l'arte di suonare lo
strumento: ".ricorda di trattare il pianoforte come il
corpo di una donna. Con dolcezza e con forza. Lavora con i pedali per
eccitarlo. Poi lascia che la musica esploda nella sua cassa armonica
con la stessa irruenza dell'oceano che rompe una diga."
E quando parlava di musica, con ossessione gli ripeteva:
"Metti tutto l'ardore che hai nel cuore quando suoni. Cambia pure
le note se lo reputi necessario, ma cerca sempre di regalare grandi
sensazioni al tuo pubblico." E ancora: "Studia Beethoven,
genio musicale per eccellenza, dal quale hanno attinto e attingono
tanti compositori; poca musica, prima e dopo lui, vanta una così
grande ispirazione. Puoi regalare a Beethoven, se vuoi, uno
struggimento che oggi nessuno è in grado di dare.."
Quelle parole entrarono nelle orecchie del piccolo Cesare
e rimasero per sempre nel suo cuore. Sotto la guida del suo
stravagante ma valente maestro, adottò, anno dopo anno, quei pezzi
pianistici che più si adattavano al suo carattere aggressivo.
Durante le sue esecuzioni, si piegava sulla tastiera
agitando furiosamente tutto il corpo. Mentre con le agili mani correva
a cercare le note sui tasti, un ricciolo nero ciondolava a destra e a
sinistra della sua fronte, strapazzato dai movimenti impetuosi che la
musica gli suggeriva.
Frequentò l'Accademia di Santa Cecilia di Roma, si
diplomò in pianoforte e cominciò con successo a fare i suoi primi
concerti. Poi nel '40, con la dichiarazione di guerra dell'Italia alla
Francia e all'Inghilterra, abbandonò ogni attività legata alla
musica e partecipò alla campagna di Grecia. Dopo l'armistizio del '41
ritornò in patria e nel '43 si unì alle forze partigiane.
3. Ponticelli (Rieti) maggio 1985 - Un pianoforte canta
Un pianoforte canta una canzone triste nella casa appena
fuori dal paese di Ponticelli. È una canzone disperata come il canto
di un pettirosso che rientra al nido e non trova più i suoi piccoli,
rapiti forse da un falco rapace. È una canzone amara che
inumidisce gli occhi di chi ha cuore quella che lui fa cantare
ogni giorno al suo strumento, a volte per interi pomeriggi. È una
canzone che vola con il suo carico di tristezza fin sul versante
opposto della vallata per poi disperdersi nel nulla, dopo aver
accarezzato le chiome degli ulivi.
A suonarlo è un anziano uomo di 85 anni, che in un
freddo pomeriggio invernale, qualche anno prima, si era presentato
sulla via principale del paese con una piccola valigia e una grande
voglia di vivere in quella casa isolata, per godere dell'unica
compagna della sua vita: la solitudine.
Nemmeno Alma, la ragazza che da un anno provvede alle sue incombenze
domestiche, è riuscita a diradare il fitto velo di mistero che
ricopre il suo passato e a strappargli qualche piccolo segreto.
I capelli candidi come la neve e ancora folti, divisi da
una riga sulla sinistra del capo, il volto magro e scavato dal tempo,
il fisico asciutto e ancora armonico gli regalano un fascino che va
ben oltre l'età anagrafica. La piega amara della sua bocca, le spalle
curve, a chi sa leggere i segni del corpo, indicano forse che il gioco
della vita non è stato per lui molto fortunato.
L'unico amico sincero, a cui si rivolge nei momenti
infelici, che lo asseconda senza mai annoiarsi, che gli dà lo stesso
conforto di un ventre di donna, quando la malinconia buca la sua
anima, è il suo amato pianoforte.
Lui ripaga quell'amicizia preziosa e disinteressata con
un amore sviscerato: la vita senza il suo inseparabile compagno
sarebbe inutile, perché l'uomo non sa concepirne un'altra.
L'anziano musicista si fa chiamare Mario, ma non è il suo vero nome.
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