Il resto del viaggio proseguì non malamente. In piedi sì anzi: seduto sui predellini del corridoio sullespresso da Crotone a Milano e in compagnia di certi ameni profughi dei Balcani, loro però seduti (stravaccati) negli scompartimenti. Di tanto in tanto mi faceva compagnia una giovane profughetta che si divertiva a trasportare un bicchiere dacqua bucato, dal proprio scompartimento al bagno, dove faceva il pieno, incidentalmente aspergendomi il Corriere della Sera e i pantaloni. Allarrivo in stazione centrale a Milano nove del mattino, in ritardo di sole tre ore rispetto alla tabella di marcia seguii il codazzo dei profughi, condividendone idealmente la sorte e la pena (di aver viaggiato con le F.S. obviously). Fui anche fermato dallimponente cordone di sicurezza (due poliziotti), spediti ad accogliere gli stranieri in Milano. Convinti (dalla giacca e non sicuramente dalla faccia) di avere a che fare non con un profugo, ma con un disgraziato semplice, mi lasciarono andare alla mia ansia dellincontro con Montanelli, libero e senza neanche tirar fuori i documenti. Arrivai con tre quarti dora abbondanti di anticipo, allappuntamento con Montanelli; nei pressi della sua magione mi diedi da fare inutilmente per capire dove avrei dovuto passare quel tempo. Optai per cornetto e cappuccino (in questordine), e per una visita al vicino supermercato. Fra detersivi e saponette che trovo reparto molto utile quando si cerca lispirazione in un supermercato cercai inutilmente di recuperare il filo logico delle domande che avevo preparato per Montanelli alla stazione dAncona. Trovai solo che era molto tardi e dopo una ravviata ai capelli (non i miei, quelli altrui che mi aveva lasciato in eredità sulla giacca lo scomodo viaggio), feci in compagnia del portiere la strada che mi separava dallabitazione dello zio Indro. Al momento di bussare, trovai la porta già scostata e il segretario ad aspettarmi. Dun tratto mi si aprì alla vista una casa signorile, una serie di bastoni da passeggio e un giallo colore dominante. Molta luce. Il borbottare di Montanelli e lo squittio dellallora ospitessa del maestro, mi arrivavano in lontananza dalla stanza di là, mentre chiacchieravo ancora, e piacevolmente, col gentile e intelligente segretario (ognuno ha i segretari che si merita) che avevo conosciuto solo al telefono. Quando fu il momento beh: quando fu il mio momento, andai e deciso incontro ad un Montanelli più magro della magrezza per comè generalmente intesa, scomodamente mi sembrava installato su una poltrona di velluto verde. Quello che seguì fu un colloquio davvero cordiale, e che mi piacque. Per la prima volta lemozione mi evitò rossore e balbettii, e anzi diventò sprone ad un colloquio vagamente imbarazzato. Accidenti a quella tesi, che era stata loccasione per incontrarlo, Montanelli! Avrei voluto buttar via tutto e farmi spiegare tante altre cose, da quel maestro mio. Invece no: è detto che siamo nati per soffrire, e per quel giorno evidentemente la sofferenza non era ancora abbastanza. Di tesi dovevo parlare. Fortunatamente mi venne in soccorso più volte lo stesso maestro, deviando abilmente dalla via che con una insicurezza da professionista tracciavo nelle mie domande: finimmo di parlare dei suoi reportages dalla Finlandia nel 1940, e di tante altre amenità che non ricorderò, perché ricorderò di più gli occhi, di quelluomo. Talmente fissi nelle cose del mondo, nelle cose che hanno visto, che diventano anche un po i tuoi, dellascoltatore che ha la voglia e lintelligenza di ascoltare. Un minorenne anziano, Montanelli, con una forza nel cuore che neanche lontanamente ricorda certo ricorrente sconforto del sottoscritto indegno ventitreenne. Qui segue cosè venuto fuori per la mia tesi. Serbo gelosamente, invece, quello che non riesco a scrivere: quellemozione che ancora mi rimane, dopo mio primo incontro veramente importante, da qualche parte nello stomaco. lunedì 14 giugno 1999 Piersante Sfredda
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