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MILLENOVECENTOTTANTASETTE
Era la primavera
dei nostri quindici anni. Carnevalesca e Marzolina, la vita tutta
si svolgeva lungo
il nastro di Moebius dell'abitudine: scuola-compiti-sede-partita a
basket-cena-T.V..
E poi via, altro giro, altra corsa! Soltanto l'attesa delle vacanze
spingeva questa
ruota verso il domani impercettibilmente diverso, di quel tanto che
bastava a ricordarci
di non essere solo i protagonisti di una Sit-com di scarso successo.
Alle quindici in punto telefonavo
all'Ade (come poter dire altrimenti, visto che a
rispondere era sua madre, "Caron dimonio
con occhi di bragia"!!!). La conversazione
era scarna, ma più o meno, sempre
di questo tenore:
-"Che fai oggi?".
-"Studio, ho molti compiti, e tu?".
-"Proffi bastardi! Ce la fanno
pagare la vacanza!! ...anch'io ho un mare di
compiti!!!".
-"Allora oggi niente partitona
a basket".
-"Niente partita, sarà per
domani".
-"Domani?".
-"Domani!".
-"Ah, domani!!!". Silenzio per
quasi dieci secondi.
-"Ti va tra mezz'ora al 'Santa'?".
-"Sì, porto i libri così
studiamo in biblioteca".
-"...?!". Silenzio.
-"...io Italiano e Latino. E tu?".
-"...?!?!?!?". Doppio. triplo,
silenzio.
-"...ah, Storia!!".
Ed io: "O.K., la palla la porto
io, ma tu offri il gelato!". Chi ha detto che il
diavolo non lo si può fregare!
Il "Santa" era il Santa Addolorata
del Buon Cammino, istituto di suore e scuola
privata, che aveva l'onore (o l'onere)
di ospitare tanto il Reparto Roma 14, nei propri
scantinati, quanto, nelle celle, pardon
aule, ai piani alti, due irrequieti scolari di cui ora
mi sfugge il nome, ma dei quali si può
a tutt'oggi ammirare poesie, graffiti ed
arabesche iniziali, incorniciate da volumetrici
muscoli cardiaci, su ogni porta di ogni
gabinetto che quell'edificio in cent'anni
abbia mai posseduto e non ancora sostituito.
Ma il Santa era per noi soprattutto l'enorme
cortile, già allora molto ridimensionato,
sui cui campi sportivi abbiamo consumato
scarpe e tute, ginocchia, gomiti ed una
amicizia senza pari.
Arrivavo col mio cane, bastardo
e pulcioso -che all'anagrafe canina avrei voluto
battezzare "Bastardo e Pulcioso", ma
che, dovendo per legge il nome essere unitario,
ho dovuto chiamare (non senza l'istituzionale
litigio con una impiegata USL)
"Bastardoepulcioso"-. Inutile sottolineare
che quel modo di chiamarlo era riservato
agli amici più intimi. Anzi si
accucciava "in cagnesco", se così lo appellava uno
sconosciuto con tono irrisorio ...d'altronde
come poteva essere altrimenti? Comunque
nelle occasioni ufficiali l'ho sempre
presentato col suo diminutivo: "Bastogne".
Arrivavo, dunque, Bastogne al mio fianco,
fino al cancello d'ingresso del Santa: qui,
lui si accucciava al centro del passo
carraio, quel tanto da non esser visto da Suor
Evelinda. Nel frattempo, entravo dal
portone adiacente, e mi intrattenevo in
chiacchiere inutili e banali con la suddetta
guardiana ("Chissà che farà il Città del
Vaticano domenica prossima... gioca col
Divino Amore, e si sa che sono dei
miracolati!" oppure "Ma che bella tonaca...
usate Fash, che lava più nero che più nero
non si può?"). La poverina, essendo
sorda come un serpente, era costretta a rispondere
a caso, facendo affidamento sul suo intuito
di
non-udente-refrattaria-ad-apparecchio-acustico
di lunga data. A quel punto le
chiedevo un santino o una di quelle terribili
caramelle allo zenzero -o meglio, “glielo
mimavo”- e ...la trappola era scattata.
Dovendosi piegare per afferrare il Santo di
turno, od altro, lasciava incustodito
il bottone del comando, ed io con felina rapidità
premevo l'apricancello, giustificando
poi quell'apertura con l'entrata di qualche tonaca
colà vivente o lavorante o soltanto
visitante (di solito inventavo i nomi più disparati,
confidando sempre nell'ottenebrato udito
della suora: nomi come Padre Cerutti Igino,
Padre Efiglio Espirito Santo, Suor Lambretta,
il vescovo di Canterbury, l'Arcivescovo
di Costantinopoli, etc. etc...).
Pomeriggio dopo pomeriggio, i qundic'anni
si consumavano rapidi, candele non
ancora accese dai due lati, ma comunque
ben sostenute dal vento frizzoso
dell'adolescere. Nessuno dei due aveva
a mente altro che il rimbalzo del pallone sul
cemento o il deteriorarsi troppo rapido
delle tomaie sullo stesso (perché per noi, ai
box, non c'era un cambio rapido di gomme,
ma quello doloroso dei connotati!). Tiro,
rimbalzo, terzo tempo ...persino la famigerata
"penetrazione" era allora priva del
doppio senso facile e demente. L'erotico,
o il sesso, erano qualità di film, foto, canzoni
ed anche libri e fumetti, non di certo
elemento centrale del nostro esistere.
Ma si sa come il fantasioso, improbabile,
spudoratamente menzognero vantarsi
degli amici, possa far emergere desideri
ancora non sbocciati a certe età, che i
pedagoghi amano definire "critiche",
forse perché sono quelle in cui nacque in loro il
desiderio di bacchettare i genitori e
i figli, volendo ridurre alla schiavitù delle leggi
scientifiche ciò che invece é
puro istinto gioioso: la fanciullezza. Malditos!!!
Fidanzatine non erano mancate, anzi cominciammo
a mieter cuori, ma solo quelli, sin
dalla tenera età di sei o sette
anni. Esattamente, il problema che rapido creebbe in noi,
la malattia che ci inguaiò nel
brusco volgere di pochi soli, non fu l'incapacità di
"contar balle", come gli altri brufolosi
pari età della nostra cricca, ma la assoluta
convinzione di esser gli unici a farlo.
Avevamo alfine scorto quella locanda
malfamata e malfrequentata, il cui nome
terrorizza tanto più i genitori,
quanto meno i ragazzi: l'adolescenza. Fummo traghettati
così dall'irrinunciabilità
della palla arancione, all'urgenza del primo bacio,
dall'esaltazione per un canestro da tre
punti, all'attenzione per le coetanee. Attenzione
che Ellade misurava con un metro tutto
personale. Nella sua timidezza, una battuta
diventava segno d'amore, e una risposta
fuori registro una dichiarazione di guerra.
Certo la sua sensibilità mal tarata
era fonte di grossi dispiaceri, ma per contrasto gli
permetteva di assaporare le gioie con
un gusto più elevato. Anzi, sapeva elevare al
gusto di gioia, eventi che per chiunque
ne erano privi. Faccio un esempio su tutti.
Durante i Campi Estivi Scout, alla sera,
si organizza il "Fuoco", come momento di
aggregazione del gruppo, con canti e
scenette, che si svolge, appunto, attorno ad un
fuoco. Al termine di esso, ci si attarda
nei saluti e nelle “buonanotti” di rito, con
scambi di strette di mano, pacche amichevoli
e ...baci sulle guance.
"Normale amministrazione", direte
voi.
"Tutt'altro" vi rispondo.
Ellade viveva quei momenti con
attesa nevosa e snervante (io gli ero sempre
accanto). Cercava una lei con lo sguardo,
si avvicinava mimetico, spargendo saluti ai
venti come un contadino la semenza...
ma spesso si bloccava. Non aveva problemi con
gli “altri”, né con le “altre”,
anche se era a conoscenza di un loro interesse nei suoi
confronti: in quei frangenti erano il
nulla, il fumo dietro cui nascondersi nell'attesa di
uscire allo scoperto. Vi si intratteneva
persino a chiacchierare, ma il cuore, il desiderio
erano rivolti alle tanto amate guance,
da sfiorare e rendere consapevoli mediante il
semplice contatto con le proprie labbra.
Cerchiamo di capirci: oltre non si andava, non
si poteva andare, né si credeva
di andare! Ma lui era esattamente così. Sensibile al
punto di piangere se lei avesse scambiato
due parole in più con un altro, se non
l'avesse salutato a dovere o non l'avesse
salutato affatto, oppure ebbro di euforia nelle
ipotesi specularmente opposte. Non volendo
alimentare fraintendimenti, sottolineo che
le ragazze cui mi riferisco (...ahem,
“due” e perdipiù ben distribuite nel tempo), non
erano le "ragazze di Ellade”, ma solo
“ragazze amiche di Ellade”, come di altri
duecento Scout, per cui il nostro vecchio
nutriva qualche simpatia. Ciononostante, nel
momento in cui sorgeva un "interesse"
da parte sua, loro divenivano esseri di mondi
paralleli, governati da regole amorose
impossibili, non-Euclidee, assurde. Così
pretendeva che quel bacio, semplice come
l'acqua del rubinetto, divenisse un segno
evidente del suo affetto, imbestialendosi
quando non veniva afferrato nella sua intera
complessità, e ritenendolo sufficiente,
da solo, ad assolvere al suo (di lui, Ellade) onere
di corteggiamento. Svelerei l'ovvio se
vi dicessi che la ragione di tali idiozie risiedeva
in un cocktail adolescenziale, che ha
riempito il cuore di molti più giovani di quanti
sarebbero capaci di ammetterlo: timidezza
+ desiderio/paura del primo bacio +
insicurezza/odio del proprio corpo e
della propria età.
Tutto ciò, peraltro, aveva
anche un risvolto grottesco, facendo sempre apparire,
l'evidenza di un attrazione femminile
nei suoi confronti, insufficiente a convincerlo.
Per quanto ne fossero palesi e macroscopici
i segni rivelatori, lui abbracciava la fede
del "se lei non me lo chiede, non é
vero". Lo avrei preso a schiaffi e scossoni (e l'ho
fatto), perché si "buttasse nella
mischia", ma ogni scusa era buona. Tra le più
divertenti e ricorrenti ricordo, svariati
"é troppo per me", e correlativi "figurati se mi si
fila", innumerevoli "ha il ragazzo",
molti "siamo soltanto amici/mi considera un
amico", e persino un "siamo fratello
e sorella" (fu questo il più divertente). Aveva
paura, lui...
Invece io anche. Ma ero come sono:
spavaldo, cocciuto, pieno di me e di
qualcos'altro.
L'ho dato, quel banditissimo primo
bacio, a tale Maira, due settimane dopo gli
eventi che mi accingo a narrare e molti
mesi prima del nostro vecchio. Seduto sulle di
lei diciottenni ginocchia, io ero solo
un bimbo, un bambolotto, forse il pegno di una
scommessa persa. Arrivai prima a quel
contatto fra lingue; primo ad assaporare il
gusto di una donna. Ma al contatto fra
i cuori, al sapore dolce dell'amore che é
nascosto dentro quello più materiale
dell'"altro", sono arrivato dopo di lui, in ciò mio
maestro insuperato, e spero, io, allievo
fedele.
Perché dopo anni mi sono
convinto che lui, seppure pauroso e spaventato, non
aspettò semplicemente, ma volle
aspettare.
Su quel rettangolo di cemento con
due pali, tabelloni e cesti alle estremità., era
una assolata domenica di aprile, sicché
Ellade ed io, eravamo scesi, dopo la messa, a
farci due tiri a basket. Azzurri nella
divisa azzurra, e rossi di sudore dall'affannoso
impegno, avevamo gettato a terra i maglioni.
Notai subito le vistose bretelle, di colore
lilla, che il vecchio aveva indosso e
non mi sottrassi al mio istituzionale dovere di
sbeffeggiarlo.
Dopo una manciata di minuti, una
ragazza sconosciuta, nostra coetanea, alta,
capelli castani, corti sulla nuca con
un lungo ciuffo sulla fronte a coprire gli occhi
azzurri, ci si parò davanti. Non
si presentò, né ci salutò, ma chiese solamente ad
Ellade se poteva prestarle quelle bretelle,
giacché le calavano i jeans troppo
abbondanti. A metà frase lui,
o la sua bontà, aveva già svestito l'oggetto della richiesta,
porgendoglielo, con la sola raccomandazione
di restituirlo, come se fosse una azione
naturale ed ordinaria, ripetuta in mille
altre occasioni. Era la prima di molte cose
destinate a sparire senza più
ritorno, cose che Ellade crede ancor'oggi conservate in
quegli armadi polverosi e disordinati
che non vide mai, ma solo immaginò.
Si chiamava Concetta, o Cetta,
per il pessimo vizio tutto Romano di troncar
parole e maciullar i nomi delle persone.
Anzi a dire il vero la chiamavano Cettina, a
causa di una omonima che, come lei, apparteneva
al nostro gruppo Scout. Dunque non
era del tutto una sconosciuta, ma, per
le ragioni già dette, la nostra esperienza dell'altra
metà del cielo, anche solo di
quello del Roma 14, non arrivava talora neanche ai
semplici nomi.. Al contrario lei ci conosceva.
Anzi conosceva Ellade, visto che lo
chiamò per nome, domandando un
favore con il tono imperioso e familiare che si usa
tra intimi amici quando si ha la certezza
di una risposta positiva.
Di fronte a tutto ciò anche
Bastogne volle dire la sua, emettendo un guaito, un
cigolìo sinistro della sua gola,
che tante cose ha visto passare dentro di sé (il
"pulcioso" mangia di tutto; da cucciolo
dopo aver mangiato una scatola di pastelli a
cera colorati, ha fatto della cacca così
variopinta e multiforme, che sono rimasto
indeciso tra il chiamare un veterinario
e preoccuparmi, o un critico d'arte per farmele
valutare e guadagnarci su...ho optato
per la prima ipotesi soltanto per la ragione
evidente che di arte merdosa ce ne era
già tanta senza che ci si mettesse il mio
cane!!!).
Come dicevo Bastogne emise il suo
guaito: "Eeouaoa". ("...Si é preso una
cotta", latrò l'infame presàgo).
Non ve lo ho detto che Bastogne
parla?
Forse questa storia me la sta dettando
egli stesso, quale suo testamento.
Ha quattordici anni. E' nato il
quattordici dicembre del millenovecentottantatré.
Una chiromante maligna gli ha predetto
che sarebbe morto a capodanno del
novantadue, ma lui, per tradire le aspettative
del Destino Bastardo, in quanto animale
fedele all'uomo soltanto, rimane artigliato
alla vita ed azzanna la Morte alle caviglie,
giacché la forza necessaria per
saltarle al collo da tempo lo ha abbandonato, ogni qual
volta essa si presenta per reclamarlo.
Lei, sconsolata e carica d'ira, promette
digrignando che ripasserà presto,
ma intanto fugge in tutta fretta.
E' sopravvissuto a tre incidenti
stradali, ad una caduta dal secondo piano ed a
sette decilitri di Acqua Ragia "Prixicell"
ingollati d'un fiato nella Coloreria Bordi &
figli, in Via dello Statuto, n° 32
(ricordo che dovetti anche pagare per intero il
solvente, e che non ci furono ragioni
per far capire al vecchio proprietario che uno
sconto mi era dovuto, atteso che Bastogne
ne aveva "consumato" molto meno del litro
contenuto nella tanichetta). Ieri sera
abbiamo avuto un incidente con la moto. Non
guidava lui. Il veterinario diagnosticandogli
non poche ore di agonia, prima del
trapasso, mi ha domandato il consenso
ad abbatterlo. L'ho negato, certo che domani
sarà a casa, in barba all'ennesimo
chiromante, miope ed inattendibile, ancorché
laureato.