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MILLENOVECENTONOVANTUNO
Il trentuno dicembre sbiadì
lentamente. Avvolta dall'euforia e dall'imminenza
dell'evento. Roma, si presentava come
un gigantesco circo, affollata di persone
sorridenti, nonostante il traffico caotico
e paralizzato da ore, comunque indaffarate,
ciascuna nei propri "vitali" compiti,
i quali spaziavano dalla scelta del vestito adatto, a
progetti fantasiosi su una certa notte
amorosa, con una certa probabile invitata, ad
un'altrettanto certa probabile festa.
Nulla di strano, dunque. Che le
si immaginasse come formichine indaffarate o
come clown intenti all'azione, quelle
innumerevoli persone erano tutte equipaggiate di
bagagli e pacchetti, abiti e cravatte,
tacchi a spillo, valige e borsette. Per questa
ragione nulla era fuori posto: il pomeriggio
si accingeva a lasciare il palco ad una
fastosa notte, e questa era destinata
solo a preparare il terreno per il vero protagonista
dello spettacolo, il capodanno; gli spacciatori
di polveri da sparo concludevano
frenetici affari dietro ogni luogo che
avesse un "dietro", dietro il quale nascondersi; gli
spacciatori di altre polveri da tempo
avevano fermato il business, in attesa di quella
notte, magica levitatrice di prezzi;
i commercianti spacciavano fregature milionarie in
stoffa povera a ricchi in cerca di una
novità capace di stupire altri ricchi; eccetera;
eccetera; eccetera.
Ade ed il sottoscritto, giacevamo
esausti, per ragioni affatto similari, sul letto
del di lui padre. Aveva appena trascorso
una notte insonne, tentando di stabilire il
record assoluto di velocità nel
tratto stanza-bagno, in preda a conati inenarrabili,
febbre equina, sbandamenti da fine del
mondo. Essendosi buscato la "cinese", ma in
quel momento non ne era al corrente,
si interrogava, nei radi sprazzi di lucidità, su
quali fossero stati i peccati più
gravi che gli avessero fatto meritare quel supplizio, la
notte prima della festa di Capodanno,
che, peraltro, aveva deciso di tenere in casa
propria. Dalle ore sette ante meridiam,
ero stato reclutato dal padre di Ellade, in
partenza "as usual", per occuparmi non
solo del sostegno morale & materiale del
quasi-moribondo, il che aveva comportato
pratiche disgustose in numero superiore
all'umano tollerabile, ma anche dell'acquisto
delle vettovaglie per la festa incipienda, e
vi assicuro che mai cose furono più
agli antipodi degli incarichi che dovetti eseguire
quel giorno.
Nell'affannosa ricerca della ragione
maligna dei suoi dolori, la prima congettura
portava diritta a tre notti prima, quando
avevamo avuto la brillante idea di andare a
mangiare in un ristorante Etiope, riesumando
nel cimitero del trascorso due amiche,
ormai fidanzate da tempo (“...ma non
si può mai dire!”): Cettina e Laura. Tuttavia,
quand'anche la sfiducia nella igienicità
dei cibi ingeriti fosse stata fondata, le
novantasei ore trascorse dall'infausta
scorpacciata sembrarono essere sufficiente
garanzia di sopravvivenza ad eventuali
malattie rare e/o incurabili. Scartata l'ipotesi
avvelenamento, e non volendo ammettere
quella della malattia, disastrosa nell'ottica
dell'incipiendo party, ne restava una
terza, la quale puntava decisa alle terribili
maledizioni ed anatemi che, al nostro
vecchio, erano state lanciate da Lina Ciampo.
Dal canto mio, pur essendo esausto ed
affamato, ricevevo in continuazione stimoli
fisici contrastanti (Riposa! Scappa!
Seduto! In piedi! Mangia! Digiuna! Non rigettare!
Rigetta!...), visto soprattutto il dovere
morale e giuridico di aiutare Ellade in ogni
necessità, anche le più
repellenti (il padre, infatti, dirigente anche nella vita, mi aveva
fatto firmare una elaborata impegnativa,
con la quale mi attribuivo ogni responsabilità
al 50% con il figlio per ogni tipo di
evento dannoso che si sarebbe verificato in casa
quella notte, salvo terremoti ed insurrezioni
armate). Ancora ero all'oscuro che fino
alla sera non avrei toccato cibo, tuttavia
iniziavo ad averne un vago, fantozziano,
sospetto.
Quasi si trattasse di una conferma
del temuto malocchio, verso mezzogiorno
giunse, inaspettata e perfida, una telefonata:
Lina, da Vigevano (il paese delle leggi
che furono). Mi fece un discorso dai
contenuti anarchici (N.B.: dicesi "anarchico", un
concetto assolutamente privo di costrutto
e legame logico con gli altri concetti che
formano un determinato pensiero), inteso
a spiegare la personalità complessa &
contraddittoria del vecchio (a me!!),
del quale non capii assolutamente il significato e
che si concluse con una frase che mi
lasciò di stucco: "...Io devo capire se vuole
ancora stare con me o no...". Mortificato
da una tale affermazione di scarsa intuitività
e pressoché nulla capacità
di comprendonio, lasciai la cornetta al mio vicino di letto,
sottolineando all'interlocutrice come
il suo preteso amante fosse gravemente debilitato.
Ed ancora diede prova di perniciosa occlusione
dei padiglioni auricolari, protraendo
una chiacchierata assolutamente inutile
per circa mezz'ora, ricercando affannosamente
argomenti di scarsissimo interesse nelle
pieghe polverose del suo inesplorato cervello,
unica vera impresa archeologica di questo
secolo, e tentando addirittura -udite! udite!-
di farlo ingelosire. Non ne poteva più.
Nel riporre sull'apposito supporto il telefono in
sua vece, mi volli togliere la curiosità
di sapere, direttamente alla fonte e con esattezza,
le parole usate dal vecchio Ade per scaricarla.
In verità erano state le più classiche, tra
quelle da lui sottratte al mio repertorio:
"...ci sono problemi ...ho bisogno di tempo per
me stesso ....é meglio finirla
qui ....restiamo amici...". Voglio ancora precisare che il
tempo complessivo di permanenza della
coppia Ellade-Lina fu di dieci giorni appena,
e che sesso non ne era stato fatto, al
più qualche “paccata” piuttosto scadente. Questo
é essenziale per capire l'assurdità
di ciò che accadde quel giorno e si ripeté durante
l'anno seguente, in maniera se possibile
ancor più grave.
Come repentina venne, così
rapida e priva di collateralità sgradevoli, la malattia
sparì nel primo pomeriggio. Giusto
in tempo per spostare il mobilio pregiato, quello
troppo fragile, e quello eccessivamente
ingombrante.
L'appartamento di Roberto, nel
quale Ellade viveva dal giorno della Seconda
Grande Fuga, costituiva un singolare
intreccio tra un ambiente casalingo, un teatro ed
una stalla del duecento, arredato con
passione, in stile povero, Umbro-Francescano.
Era situato nel cuore pulsante di Trastevere,
là dove la metropoli sbiadisce fino a
diventare un semplice paese di campagna,
con le viuzze che si intrecciano in ricami ed
arabeschi all'apparenza illogici, ma
pregni di un personale metro poetico, tanto da far
pensare che prima siano state tracciate
le strade e poi, soltanto poi, edificati i
caseggiati. In effetti, l'appartamento
di Ellade era una ex stalla, riadattata ad abitazione
intorno al millequattrocento: al piano
terra, presentava un immenso salone con un
camino, un micro (ma che dico micro,
fempto) bagno, una cucina tutta sviluppata in
lunghezza ed uno studio con un balconcino
fiorito; il secondo piano, sospeso da un
soppalco con balaustra, si affacciava
sul salone, ed aveva un bagno e due stanze da
letto, una delle quali a giorno, al di
là di un grosso arco Romano, protetta solo
attraverso una tenda dagli sguardi di
chi fosse stato nel menzionato salone. Dal
soppalco, poi, si accedeva ad una terrazza,
piattaforma quasi solitaria, nel deserto
frastagliato di tetti che innanzi le
si stendeva.
Verso le nove di sera arrivarono
quaranta tèrmiti travestite da ospiti. Era una
compagnia assolutamente eterogenea, composta,
come nella tradizione delle feste
diciannovenni, in maggioranza da (recenti)
ex brufolosissimi ragazzi piuttosto
malintenzionati. Tale eterogeneità
merita un approfondimento. Infatti, sebbene non
conservi un fotografia di quella serata,
vista l'intensità di ciò che accadde, ne porto in
me un ricordo quasi indelebile.
Da un lato del salone sedevano
quelli del Roma 14, pizzicando a turno, chi ne
era capace, le corde della chitarra di
Nanni, detto Prete, e cantando a squarciagola
motivi Battisto-Baglioniani i restanti,
indipendentemente dalle reali capacità delle
rispettive ugole. C'erano, oltre al Prete,
Vania, la di lui compagna Carla, l'altra Carla, o
come dicevan tutti per distinguere, Carlotta,
sua cugina Cristina, Giulia, la solita sfilza
di Andrea e Gianluchi, i gemelli Marco
& Manuel, con il gemello aggiunto Ugo e tanti
e tanti altri.
All'opposta fazione, si trovavano
gli amici della mia scuola di disegno, anch'essi
armati di chitarra acustica, ma in procinto
di sparare un diverso repertorio di canzoni,
da Guccini e De Gregori, da Contessa
a Bandiera Rossa. Rispondono al mio appello
mentale soltanto i nomi di Andrea, Corrado,
Claudio, Stefano, Massimo & Aurelio,
ma molti altri erano presenti quella
sera. Inoltre, se anche si fosse riuscito a creare un
assoluto silenzio nella sala, una seconda
differenza sarebbe risultata evidente e
macroscopica. Quei "fumettari", già
così mancini nell'animo, erano abbigliati in
maniera piuttosto appariscente, con camicioni
indiani dipinti a mano, jeans strappati,
orecchini e collanine. Il contrasto con
le cravatte ed i papillon, le gonnelline plissettate
e i vestiti stretch fine anni ‘80, risultava
palese e stonato, per ceri versi, curioso per
altri. Sembrava di essere di fronte ad
un gigantesco specchio deformante di un circo, o
se preferite ad una classica icona che
mostra gli opposti modi di percepire una
medesima realtà. Dunque, anche
quella cacofonia di immagini poteva essere
ricondotta ad una logica, pur se assurda,
in grado di amalgamarne i colori.
Iniziò presto una battaglia
canora di proporzioni vocali da fine del mondo,
piuttosto che dell'anno. Quei due gruppi
eterogenei, anziché provare a guardare al di là
delle confliggenti apparenze, per scoprire
la assoluta identicità di desideri e passioni
reciproche, iniziarono a fronteggiarsi,
prima, con sottili battute di spirito digrignate tra
i denti in maniera tale che almeno uno
dei membri dell'opposta congrega potesse
sentirle per riferire, ovviamente esagerando,
agli altri compari, poi, con canzoni del
proprio, rispettivo e rispettabile repertorio
urlate senza ritegno alcuno (soprattutto dai
più stonati), ciascuno nel tentativo
di soverchiare ed annientare l'altro. Ne risultò un
evidente aggravamento della tensione.
In quel momento esatto io ed Ellade
ci squagliammo, come i nostri Calippi sotto
la calura estiva al Camping Tritone,
raggiungendo la terrazza al piano superiore
dell'appartamento, in compagnia di Carlotta
e Cristina.
Lo scopo reale nostro vecchio
intendeva perseguire per mezzo della festa era
procurarsi una ulteriore occasione di
approccio con Carlotta, poiché il gioco di
intimità che tra loro si era creato,
una sorta di tira e molla sentimentale, in quei giorni
portava Ade a sentirsi attratto nell'orbita
del suo (di lei) pianeta. Si erano rincorsi fin
dal primo giorno in cui avevano pronunciato
reciprocamente il proprio nome, in segno
di presentazione. Se uno dei due fuggiva,
l'altro era pronto a rincorrere ansioso, ma
quando avvertiva imminente l'attimo della
cattura, desisteva, tramutandosi all'istante
da cacciatore in preda, a sua volta inseguita
da chi prima era tale. Mai giunsero ad
afferrarsi. Mai a confrontarsi, salvo
quella notte già raccontata, magica e maledetta,
venefica seppur dolcissima, bruciata
assieme soltanto trecentosessantacinque giorni
prima di questa che, ora, mi accingo
a narrare. Al mio sguardo di osservatore
privilegiato, sembravano due orologi
le cui lancette, pur segnando la medesima ora,
avessero i secondi irrimediabilmente
fuori sincrono, sì che l'unica alchimia in grado di
farli battere all'unisono consistesse
nel rallentarne o fermarne uno. Quella sera Ellade
tentò una rallentamento impossibile.
Volle, infatti, fermare il tempo, riavvolgerne il
nastro, cancellando esattamente un intero
anno, e tornare a vivere ciò che aveva già
vissuto. Ma la vita non torna, passa,
anzi spesso scappa. Tuttavia le esperienze
negative dei mesi addietro lo avevano
portato ad una conclusione: fino a quel punto
della sua vita si era voluto convincere
che, per stare assieme ad una ragazza, fosse
necessario e sufficiente provare affetto
per lei, e non che questo sentimento fosse
anche reciproco. Non si curava di indagare
la sincerità d'animo della "lei" di turno,
tutto intento a verificare la propria.
Credeva che bastasse essere una sorta di
distributore automatico di simpatia,
felicità, affetto ed amicizia: chi voleva mettere il
gettone, era sempre il benvenuto che,
inserendo una moneta, riceveva la "prestazione".
Non fu certamente frutto di egoismo
o sopravvalutazione dell'io, questo suo
modo di vivere i rapporti a due, ma anzi
di quella scarsa autostima che lo ha
caratterizzato per molti anni, e soprattutto
dell'enorme, insoddisfatto e vorace bisogno
di dare e ricevere amore (e non dare,
per ricevere), che Ade portava, porta e porterà
sempre dentro di sé. Era spinto
d'impeto a donarsi in maniera totalizzante in ogni
rapporto, sia d'amore che d'amicizia,
e di conseguenza a soffrire per ciascuna rottura
ben al di là del ragionevole,
ma soprattutto a fidarsi dell'altro senza remore, anche
quando l'avversa verità dei fatti
fosse cristallina ed evidente Se era solo, e lo era
sempre dentro o fuori le mura domestiche,
cercava qualcuno. (Così produsse i suoi più
grandi disastri, talora confondendo i
ruoli, leggi: Penelope e la stessa Carlotta, talaltra
accontentandosi di briciole per cui non
valeva la pena affannarsi, rileggi: Lina, Silvia,
Catia, ...ma questa è solo l'opinione
del qui presente & scrivente, testimone per la
difesa. Chissà cosa avrebbe da
ribattere, se ci fosse, un abile P.M.?).
Dunque, la conclusione cui era
giunto, aveva il sapore ricco delle grandi
decisioni. Non intendeva più -da
quella notte in poi- farsi trascinare come una sorta di
rimorchio sentimentale, la cui unica
preoccupazione fosse di svolgere bene il suo ruolo
(quello di rimorchio, per intenderci).
Voleva sentire di aver scelto e non più soltanto di
esserlo stato. Desiderava un rapporto
maturo, adulto; non più un
provare-provare-provare ("tanto la legge
dei grandi numeri...! "), ma un riuscire e
basta (ascoltando intensamente la voce
del proprio cuore e solo quella). Avvertiva la
necessità di sterzare bruscamente
e cambiare sentiero di vita per ritrovare un punto
stabile, non irraggiungibile sulla linea
affilata dell'orizzonte, ma fisso accanto a sé.
Lui, seppur nei modi contorti e per le
ragioni disarticolate che vi ho descritto, aveva
sempre fatto un po' sul serio con le
sue donne. Era tempo, finalmente, di fare sul serio
per un bel po', con una soltanto di esse.
Da tali premesse capirete come
sia era convinto che Carlotta fosse la creazione
avvenuta in perfetta sintonia con la
propria. Non era disposto più ad attendere un solo
istante ulteriore di dubbi, incertezze,
scuse o paure.
Aveva bisogno di riuscire, e si
accorse a sue spese che aveva sbagliato
momento e persona: quello era soltanto
il tempo di verificarsi.
Salimmo, dunque, sino alla terrazza
del secondo piano, di lì accedendo ad un
meraviglioso è più incontaminato
angolo di solitudine, che consisteva in una
piattaforma rozzamente pavimentata, priva
di ringhiere protettive, situata oltre i tetti di
Trastevere, nel punto più alto
dell'intero edificio di via della Scala. Essa era accessibile
esclusivamente dall'appartamento di Ellade
attraverso l'ardua arrampicata di una
tortuosa scala a chiocciola, stretta,
ripida, interminabile ed incredibilmente arrugginita,
fatta all'uopo costruire da Roberto alcuni
mesi prima, non appena aveva casualmente
scoperto su di una antica mappa catastale,
l'esistenza di questa vetta architettonica, che
egli avrebbe voluto fare essere il proprio
personal-solarium, ma che io ed il figlio,
sempre in cerca di ragioni per contraddirlo,
facemmo presto divenire esclusivo nido
per noi, aquile urbane & solitarie.
Ma, trascorso lo sconforto di quel
girovagare avvitandosi sempre attorno alla
medesima realtà, degno anche del
miglior Escher, la vista che si godeva da lì ed il
silenzio misto alla piena consapevolezza
di essere soltanto un'isola nel traffico ovattato
in lontananza, erano piena ricompensa
di tanta scomoda fatica. Mentre ci
inerpicavamo non potei fare a meno di
gettare uno sguardo più attento su chi mi
precedeva nella salita: Cristina, la
cugina di Calotta, alta diciassettenne, dagli occhi
azzurri, la chioma infuocata ed un corpo
molto ben proporzionato, la quale non aveva
mancato di riscuotere molto successo
tra le voglie ed i sogni dei nostri amici. Infatti,
lei, stanca degli guardi appiccicosi
che i ragazzi sottostanti avevano riservato alle sue
gambe, sia a quella porzione cospicua
ben evidente al di là della minigonna, sia a
quella più nascosta e ridotta
al di qua della medesima, aveva chiesto in prestito un
abito più coprente, ...protettivo.
Fu così, per caso (!!!), che Ellade le prestò il maglione
a collo alto, mio regalo di compleanno
al vecchio, considerando anche la notte
invernale, ben fredda e rigida quell'anno
(mi correggo: "quella fine d'anno"). Sebbene
lo stesso le arrivasse quasi a "mezza-coscia"
(nota località in provincia di Ginocchio),
nella arrampicata spiraliforme che stavamo
effettuando, l'intero "complesso"
gonna-maglione, si alzava ed abbassava
ritmicamente, in uno strusciarsi di gambe (e
nylon) tra loro, che risultava al mio
sguardo perniciosamente inclinato verso l'alto,
imbarazzante, eccitante, elettrizzante,
nello stesso tempo, ed una mezza dozzina di
altri analoghi aggettivi che terminano
in -ante.
Inizialmente ci stanziammo sul
territorio alla maniera dei pugili, ciascuno
assorto nel proprio angolo, restando
intenti ad osservare la porzione limitata di
orizzonte e di città dinanzi a
sé. Indi qualcosa si mosse. Ellade si avvicinò a Carlotta,
la quale si voltò, chiedendo perché
la avesse condotta lassù. Lui rispose che voleva
parlarle, poi abbassando la voce, continuò,
consentendomi, di lì in poi, di carpire da
quella discussione soltanto il convulso
reciproco gesticolare di mani che le fece da
cornice per tutto il tempo.
Trascorsi i primi minuti a tentare
di leggere il braille della situazione, ben presto
mi stufai e rivolsi la mia attenzione
alla povera Cristina, intirizzita dalle folate di
tramontana, nonché stizzita del
ruolo di volontaria accompagnatrice coatta che era
stata chiamata a svolgere. Lei stessa
mi spiegò che Carlotta aveva già preso la sua
decisione sul rapporto con Ellade, ed
il verdetto mi suonava cupo e funesto, come
l'annuncio che dà il medico, di
una grave malattia: amicizia. Solo amici: fraterni,
appiccicati, due vite in un solco unico,
ma pur sempre, solo, amici. Iniziammo così
una piacevole conversazione su quella
coppia disastrosa che erano il mio amico
fraterno e la sua strampalata cugina,
ciascuno difendendo le scelte fatte da questi o
giustificando i vari attriti che nel
tempo si erano stratificati sino a formare una
montagna ormai non più cari perforabile:
Ellade e Carlotta si stavano spiegando i mille
"come", noi speculavamo, invece, sull'unico
"perché" (uno e uno soltanto, ...ma per
ciascuno di noi!!!). Non dovette trascorrere
molto tempo, affinché il tema del discorso
scivolasse languidamente sul personale,
ed allora i "cosa fai nella vita", "chi conosci al
Circeo", "che musica (libri, film, etc)
ascolti (leggi, guardi, etc)",
eccetera-eccetera-eccetera, si diffusero
in stereofonia vocale nella notte illuminata a
brevi tratti dai raggi albini di una
luna per il resto affogata in spessi ed estesi
cirrocumuli nero-bluastri. A un tratto
estrassi dal cilindro dialettico una frase, "sai, io
disegno ...", per nulla in relazione
con il contesto complessivo del discorso, ma a me
tanto cara a causa delle reazioni che
sempre suscita nell'interlocutore, specie se di
sesso ...avverso. Queste, infatti, hanno
da sempre coperto una gamma ampia, ma
contenuta, e dunque in certo qual modo
prevedibile, consentendomi così di afferrare
prontamente le intenzioni e lo spirito
della persona che mi si trova di fronte. Lo
sguardo di Cristina non lasciava spazio
per alcun dubbio, essendo quello scettico di
chi non crede affatto, né è
disposto a sforzarsi di farlo semplicemente sulla parola, ma
anche quello interessato e stupito, bramoso
di ricevere una conferma. Per convincerla
sollevai un telone cerato, nascosto agli
sguardi poco attenti, traendone quattro lumi a
petrolio, prezioso e vissuto cimelio
di guerre partigiane del nonno Ernesto, e mi
accinsi a sistemarli sui comignoli che,
ai quattro vertici del nostro paradiso
rettangolare, si stagliavano silenziosi
e fumanti nella fredda notte, accendendoli poi in
rapida, quasi ritmica, successione.
La luce rischiarò la scena
in modo evidente, anche se né Ellade, né Carlotta,
parvero giovarsene ed accorgersene, così
rimanendo l'uno di fronte all'altro,
pericolosamente seduti sul ciglio del
baratro che guardava il pacifico Tevere, ma in
una realtà ancor più pericolosamente
affacciati sul vuoto assoluto in procinto di
inghiottire per sempre il loro amore,
o quello che era. Un vuoto che portava un nome
accattivante, quanto letale: amicizia.
La (pallida) luce fu, e mostrò
ai presenti, ciò che le quasi-tenebre avevano fin
ad allora occultato: una mia creazione.
Cristina osservò la scena in un crescendo
circolare di sensazioni: incredulità,
stupore, eccitazione, ed infine, nuovamente
incredulità mista a sospetto.
Da parte mia, infatti, non riuscivo in alcun modo a
convincerla che l'opera esposta alla
intensità del suo sguardo avesse me come padre ed
autore. Nè la firma, né
i giuramenti su ciò che avevo di più caro, e neppure la
minaccia di gettarmi nel vuoto se non
mi avesse creduto, sortirono effetto alcuno.
Invero il graffito che si poteva ammirare
dipinto sull'intero pavimento di quella
terrazza, come da un madonnaro d’alta
quota, era stata la mia più grande fatica
artistica (dopo la nascita), iniziata
nel marzo di quell'anno, e terminata solo alcuni
giorni prima del Natale. Si trattava,
infatti, della particolareggiata e minuziosa
riproduzione di Golconda, celebre quadro
di Magritte, al quale mi ero permesso di
sostituire i tradizionali uomini in bombetta,
con ogni personaggio dei fumetti a me
noto. L'effetto era di sicuro impatto,
poiché la pioggia di soggetti presi dal mondo del
fantastico proponeva characters assolutamente
disomogenei fra loro, tra cui Pippo,
Sandman, Starman, Swamp Thing, Zanardi,
Cattivik, Lupo Alberto, Superman,
Pedrito, Mafalda, Penthotal, Spider Man,
Akira, Batman, Robin, Catwoman, Alan
Ford, Corto Maltese, Pompeo, Tex, Lupin
III, Rank Xerox, Flash, ed almeno un'altra
dozzina che non ricordo sul momento.
Non dimentico, però, che la fatica più grande
era stata, non soltanto raffigurare l'esatto
sfondo di edifici presente nel quadro su scala
così ampia, ma anche rispettare
la geometrica e precisa equidistanza tra i singoli
personaggi, che l'originale autore caricò
sicuramente di significati simbolici a me
ancor oggi tuttavia ignoti. A dire il
vero, grande era stato anche lo sforzo per
procurarsi i colori necessari, uno sforzo
che si aggirò, secondo i valori ed i parametri
dell'epoca, intorno, circa ai ...due
o tre anni di prigione per furto con destrezza.
Nonostante ciò, l'incredula Cristina
rimaneva tale, non lasciando minimo spiraglio alle
venature di un pallido dubbio. Così,
per dissipare la nebbia della sfiducia, estrassi
dalla tasca del cappotto un meraviglioso
Pantone di colore nero, frutto di razzie
perpetrate il giorno stesso, e disegnai
nell'angolo superiore sinistro del graffito, là dove
in argento campeggiava la mia firma,
un cuore avvinto in stretti lacciuoli di filo
spinato (idea not original, I know!!!),
indi lo dipinsi di rosso fuoco con uno spray che
avevo recuperato da sotto il telone celato.
Aggiunti alcuni giochi di luce per rendere
perfettamente la tridimensionalità
dell'immagine e le giurai, infine, che, se avesse
insistito a non credere, il mio cuore
sarebbe divenuto come quello appena raffigurato.
A mio modo, avevo gettato l'esca, e rimanevo
in attesa delle intenzioni di
abboccamento bel mio bel "pesciolino
rosso".
"Non ci credo" rispose sorridendo.
"Cosa vuoi, la Venere del Botticelli
per direttissima", le replicai con tono
vagamente incazzato.
"... non credo che tu sia capace
di soffrire me!" Precisò tutto d'un fiato, nel
tentativo perfettamente riuscito di far
assomigliare la sfumatura delle guance, al colore
dei suoi capelli.
La guardai negli occhi, creando
tra noi una di quelle linee inesistenti in natura,
perché assolutamente rette, affinché
lo spazio che ci separava potesse essere colmato
nel tempo più breve possibile.
Le presi le mani e dissi spavaldo, ma tenero,
"scommettiamo?", mi preparai mentalmente
ed ancor più fisicamente a baciarla.
Quando le labbra erano così vicine
da potersi dire intime, quando il calore dei due visi
aveva quasi raggiunto la medesima intensità
per scambio reciproco di temperatura,
quando infine, anche l'ultimo insignificante
spicchio di vista abbandonava il mio
sguardo intento al socchiudersi, avvertii
la stretta decisa e tipica di Ellade, giusto pochi
centimetri sopra il gomito, col pollice
e il medio della mano destra. Non potevo
sbagliare. Era quella una richiesta di
aiuto urgente, inprocrastinabile. Sollevai il capo,
spalancando nuovamente gli occhi, accecato
in parte dal fascio di luce delle lampade,
in contrasto con il buio da essi per
un istante vissuto, ma soprattutto meravigliato dalla
presenza solitaria della nostro vecchio,
temendo che avessero spinto Carlotta nel vuoto
in un lampo di follia cinica o lucida
(dipende dai punti di vista). Tuttavia l'eco dei suoi
tacchi in discesa sulla scaletta di ferro,
mi rassicurò e preoccupò nello stesso tempo:
era bensì viva, lei, ma lo stesso
poteva dirsi ancora del mio amico? Guardai
nuovamente Cristina negli occhi, la quale
fortunatamente capì ed estraemdo dalla
borsetta il suo accendino, nel porgermelo,
disse: "Resta pure, ma ricorda che devi
rendermelo prima che me ne vada". Il
tono della sua voce si fece intensamente
baritono nel pronunziare quella frase,
in maniera tale che esso beccheggiò nella mia
testa per alcuni minuti ancora, indeciso
se afferrare fulmineo quella sicura promessa di
passione a breve termine o fornire soluzione
all’imprevisto guaio.
Attesi pazientemente che l'eco
dei passi sui gradini si fosse perduta del tutto
nella brezza prima di voltarmi nella
direzione del vecchio, che silenzioso sedeva sul
ciglio, fissando un punto immaginario
al centro della mia persona o dentro di essa,
diritto al cuore. Non parlava, ma dalle
labbra socchiuse il respiro frenetico creava un
leggero sibilo, una nenia impercettibile,
quasi che, non solo i suoi polmoni, ma l'intero
corpo, l'anima ed i sentimenti tutti,
si fossero sentiti improvvisamente in debito di
ossigeno, ed Ellade, nell'impossibilità
di reperirne a sufficienza attraverso quel piccolo
foro al di sotto delle narici, recitasse
una preghiera, una invocazione d'aiuto in
qualche perduta e sconosciuta lingua
del passato.
In realtà, come mi spiegò
molti giorni dopo, si trovava in uno stato di
"multifunzionalità vitale ingestibile".
Definiva così quei momenti in cui un soggetto
vorrebbe fare più cose nel medesimo
momento, gesto o frangente, ma non vi riesce,
sopraffatto dall'eccessivo convergere
di impulsi psicofisici. Ade era un mago nel
realizzare queste contemporaneità
impossibili, potendo agevolmante studiare ed
ascoltare musica, disegnare e seguire
la lezione, guidare, fare un ripasso scolastico e
mandare al diavolo i pedoni, giocare
a basket, a battaglia navale e a tresette... e via di
discorrendo. Tuttavia quella situazione
lo aveva talmente annichilito, facendo
confluire nel suo corpo, il dolore di
una perdita, il bisogno di spiegare a se stesso cosa
fosse accaduto, la necessità di
parlare con qualcuno (me), l'idea di canticchiare tra i
denti la canzone che aveva fatto da colonna
sonora a quell'amore asincrono, e il
desiderio di trasformare tanta cupa disperazione
in parole capaci di esorcizzarla, la
voglia, infine, di piangere, ma la paura
di farlo anche con un amico fraterno, oltre a
tutte le restanti urgenze fisiologiche,
che i corpo usualmente manifesta di fronte a
notizie così debilitanti, prime
fra tutte, sedersi e tornare a respirare.
Come un computer sovraccaricato
da un flusso enorme di comandi e dati,
affatto coerenti tra loro, era in stallo.
Tuttavia nei suoi occhi sembrava un fiume in
piena all'improvviso sciogliersi di ogni
ghiaccio. E finalmente, d'improvviso straripò:
il vuoto dello sguardo riprese coscienza,
s'alzò di scatto pronunciando tra sè e sè
parole con un impercettibile filo di
voce, ma evidentemente sempre le medesime se già
che alla terza o quarta ripetizione inziai
a comprenderne meglio alcune.
E pianse, Dio mio quanto pianse!
A un tratto pensai che se Ellade si fosse
disidratato davanti al mio sguardo, io
non avrei trovato la cosa curiosa o singolare o
imprevedibile e neppure eccezionale,
ma semplicemente ovvia e logica. Tentai così di
abbracciarlo per far penetrare nelle
ferite del suo dolore l'affetto e la comprensione
-oppiacei placebo, piuttosto che medicine
curative- ma lui mi allontanò con un gesto e
lo sguardo torvo di chi è stato
disturbato al culmine della propria personale creazione
suprema. Nelle sue ferite sembravo piuttosto
aveva gettato del sale. Corse, infatti sotto
il telone, pescò a caso una bomboletta
spray di vernice, poi non contento del colore vi
si immerse con mezzo busto per riemergerne
trionfante con il migliore nero lucido
indelebile che avessi rub... comprato.
Quindi si posizionò al centro della mia opera, la
mia bambina (!), e premette deciso l'infame
tasto, a schizzo vaporizzato.
Urlai con tutto il fiato che avevo
in corpo, incapace di fermare la pazzia del mio
fratello di vita, cosciente che ogni
mia resistenza sarebbe stata vinta non con parole,
bensì con brutalità feroci.
Urlai, ma...