eLLaDe
sturiellèt
& poèsie
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ANNO
ZERO
L'idea mi é venuta qui, su
questa sedia sgangherata, davanti ad un vecchissimo
personal computer. E' sera, e la finestra
aperta squarcia la pareti del salone,
concedendomi un'ampia vista della città.
Per un attimo sembra che il mondo voglia
capovolgersi: non é più
la città che incastra la mia casa tra vecchi palazzi, ma é
la mia
casa che li incornicia tra i quattro
angoli retti del montante della persiana. Respiro a
pieni polmoni l'odore che tracima all'interno
e d'improvviso penso a lui. Venticinque
anni assieme, un'amicizia durata mezzo
mezzo-secolo. Avevamo condiviso la strada
per così lungo tempo da non pensare
al momento del distacco, a cosa dirci o darci per
non dimenticare. Per dirla tutta, non
pensavamo proprio che sarebbe dovuto giungere
quel momento. E così ci lasciammo
in silenzio, ad un bivio, inaspettatamente. Un
incrocio prima eravamo in pieno accordo
su dove e come andare. Quello dopo no.
Amen. Ognuno per il suo sentiero. Ma
tanta vita non passa come un banale
raffreddore. Assomiglia più ad
un fiume: certamente, prima o poi, tutte i suoi flutti
sfociano in mare, ma talvolta, lungo
le sponde, si formano delle pozze in cui acque, da
tempo divise, ristagnano e si ritrovano.
E quella sera portava il profumo del suo
ricordo, dei nostri ricordi, fino a quel
punto, quello del distacco, quasi del tutto
coincidenti. Tanta vita tornava tumultuosa,
ed io, inaspettatamente, ho sentito il
bisogno di imprigionarla in parole e
virgole, punti e frasi ...e devo fare in fretta, prima
che il ricordo sfugga, per non perdere
chi ero, per non dimenticare lui e la sua stonata
famiglia.
...La famiglia. Già, la
famiglia. Era, questa, una delle certezze che lo avevano
cullato durante quel breve sprazzo di
vita, che corre, frenetica, dall'età del primo
vagito fino alla adolescenza, e si rincorre,
ansanti, da quest'ultima a quella del
matrimonio. Mai ebbe alcun dubbio; non
una macchia sozzò la coscienza limpida
della sua condizione: lui NON aveva MAI
sentito di appartenere ad una famiglia.
Punto. Su questo non si poteva in alcun
modo discutere. Era il primo scalino, la base,
l'abc...aprendo il manuale d'istruzioni
della sua vita, già nella prefazione, era scritto a
caratteri cubitali: "NESSUNA FAMIGLIA".
Figlio di genitori separati, prima,
divorziati, poi (sposati... mai), visse circa
vent'anni con la madre, e, successivamente
con il padre e la donna di lui. Ma non
erano vere famiglie, quelle. Non che
avvertisse questa sua “carenza” per ragioni di
natura strettamente numerica: in due
o in tre, rimanevano pur sempre un agglomerato
di persone, come le case di periferia
che sorgono l'una a ridosso dell'altra, ma non
formano un quartiere, e stanno lì,
attaccate tra loro solo per necessità strutturale, e se
potessero vorrebbero essere villini solitari
con ettari di giardino attorno... Non si
sentiva incompreso o abbandonato (non
solo, almeno, o, soprattutto, non sempre...).
Egli era semplicemente presente in una
casa, assieme ad altre persone, con tutti gli
inconvenienti e le esigenze che tale
convivenza porta con sé: non era figlio e "loro"
non erano genitori. Questo per lui. Per
"loro", invece, era figlio. Eccome se lo era!
Ma questa é la storia, da
scoprire un poco alla volta, ed io sono fin troppo
avanti, quasi alla fine. E che storia
mai comincia dalla fine? Forse la vita. Solo lei va
da un istante in cui non si é,
ad uno in cui si é stati: e nel mezzo, bisogna riuscire a
costruire e distruggere, amare, morire
e nascere, dire, fare, baciare (lettera e
testamento, perché no!), gioire,
soffrire, insomma VIVERE. Dunque, essendo, questo,
il racconto di una vita, e di una amicizia,
riesce difficile fare ordine e dare alle cose
inizio e fine, alfa ed omega. Ciononostante,
tenterò: ma vi prego sin d'ora di scusare il
mio rimuginar caoticamente tra presente
e passato alla ricerca di verità e ricordi.
Che la Musa mi assista.
Lui, era, anzi é, accidenti,
perché tuttora vive e combina guai indescrivibili.
(..."Era, faceva, diceva, andava": il
"tempo imperfetto", odioso felino nella giungla
delle frasi in agguato tra i ricordi
più deboli, pronto al balzo non appena tempo e
spazio si dilatino oltre il lecito, sintomo
di una morte cerebrale che accade molto prima
di quella sintattica. Vi siete mai domandati
perché lo mantengano in vita anche se é
"imperfetto". Lo eliminassero! E se proprio
riveste una insipida od anche minima
utilità, lo chiamassero in altro
modo, giusto per smussare quel noioso senso di
precarietà che gli si accompagna!...).
No, cazzo, lui "é", "fa", "dice" e "va", magari al
diavolo, ma "va".
"Lui" si chiama Ellade, nato da
Maria e Roberto: e ci si domanderebbe il perché
di un nome così strano, se solo
si potesse avere la speranza di una risposta. Purtroppo,
(o per fortuna, a seconda dei punti di
vista) resta a tuttoggi il suo segreto più nascosto,
tanto da non ritenermi mai meritevole
di condividere neppure il semplice profumo di
questa verità.
Nacque a Roma, una sera d'aprile,
incazzato, come ogni bambino che viene al
mondo, ma attento a cogliere tutti i
profumi e i sapori della vita, anche se in
quell'istante doveva apparire ben strana,
la vita, così tutta pregna di anestetico e
medicine!! Il chirurgo pronunziò
testualmente le seguenti parole: "...speriamo che ha
una vita lunga e felice...". A tutt'oggi
Ellade é fermamente convinto che imparò
proprio allora a diffidare di chi non
sa usare i congiuntivi.
Nacque di parto cesareo.
La madre gli rifiutò l’allattamento
al seno.
Il padre arrivò in ritardo,
come al solito, tanto che c'é da sospettare che l'unico
"anticipo" lo ebbe solo al momento di
concepirlo.
Perdipiù non era particolarmente
bello: come si dice: "chi ben comincia...".
Ma a lui non importò mai,
mai nella vita, perché ebbe sempre un'immagine a
consolarlo di sì sconfortante
inizio: sua zia Marina, detta Mina. Come gli raccontò in
seguito, lei si trovava nell'isola di
Ponza, ed ebbe la notizia della sua nascita da un
pescatore, e si precipitò col
primo traghetto, e lo abbracciò con tutto l'amore, e disse
parole dolci, e pianse, e.
Per tutta la vita, ancora oggi,
Ellade ha conservato queste scene nella sua anima
e quando vuole le rivede e non può
frenare le lacrime, immaginando quella persona
esile, sdraiata al sole di primavera,
il seno al vento, un pescatore che le dice "signò
nascette o'guajone", il suo sorriso ampio,
la corsa in traghetto ed in auto, l'abbraccio,
altre lacrime, le parole sussurrate nell'orecchio,
quel piccolo orecchio, chissà se può
sentire, chissà se può
capire: "troppo presto! perché tanta fretta? volevo esserci! non
potevi aspettarmi proprio?". Per tutta
la vita, ancora oggi, Ellade ha conservato queste
scene nella sua anima e a volte nello
spazio fra i suoi silenzi le richiama alla mente,
mettendo in atto il teatro dei ricordi
mai avuti, e vorrebbe poter dire a sua zia: "troppo
presto! perché tanta fretta? volevo
esserci! non potevi aspettarmi proprio?". Ma lei non
c'é. Non c'era alla sua nascita,
e lui non fu lì alla sua morte, e sulle lacrime galleggia
un pensiero, ironico e crudele: CHE VENDETTA
STRONZA!
Scriverà:
Sul viso i segni del tempo
non trascorso,
ma già fortemente vissuto.
Mi resta una foto,
anzi meno, un ritaglio di essa;
mi resta un ricordo
anch'esso frammento,
nient'altro che un pezzo di vetro
tra mille altri pezzi;
mi resta un gran vuoto
che posso riempire di oblio
e parole mai dette.
(ZIA, 1988, by Ellade B.)
Nella vita, però,
non bisogna mai perdere il coraggio della speranza, purché
essa venga sapientemente difesa da una
forte volontà e fiducia nei propri mezzi.
Sperare-pensare-fare: é la sola
formula che funzioni. Chi si adopera senza uno scopo,
spreca la vita in un labirinto destinato
a portarlo sempre e soltanto sui propri passi. Chi
spera in un domani diverso che piova
dall'alto, ricordi quanta saggezza racchiudono i
detti popolari: "la speranza é
sempre l'ultima a morire (muore prima chi spera!)".
Ellade sostiene che questa verità,
ovvia e scontata, egli la conoscesse fin dalla
propria alba nel mondo. Fu per questa
ragione, infatti, che non si scoraggiò al suo
primo giorno di vita extra uterina, e,
messosi di impegno, sperò, pensò e fece. Già la
settimana seguente il suo viso appariva
più rilassato, l'apparente calvizie aveva lasciato
intravedere un futuro da "biondino" e
due occhi azzurri spuntavano interessati dagli
zigomi sporgenti. Era diventato, nel
breve volgere di alcune notti, il centro assoluto
dell'attenzione, ad iniziare dai nonni,
giù giù fino all'ultima delle infermiere. Fosse
stato capace di parlare si sarebbe lodato
& sbrodato di tanta bravura!
Fu lì che lo incontrai "for
the very first time", sempre che tre "gurgle" e due
"nghé" possano definirsi conoscenza:
"piacere come va? io sono nato da un giorno ed
un'ora, ho fame, ma la mia mamma mi darà
presto il latte". Oh, io olevo soltanto
essere gentile, ma lui si girò
di spalle, ed il suo "prot", più di basso ventre che di petto,
suonò molto meno garbato delle
mie pseudo-parole ...quasi un anticipo sui
"vaffanculo!" a venire. Sempre stato
un competitivo, il vecchio Ellade. Di quelli che
non sanno perdere. Ma gli andavo a genio.
Anzi ci andavamo a genio, ma non
intendemmo ammetterlo in quel frangente.
Figurarsi se una sola ora in più di vita, ed
un paio di mammelle di differenza tra
le nostre esistenze avrebbero potuto mai
impedire il sorgere di quella amicizia!
Bel tentativo, ma inutile. Ci saremmo presto
rivisti, e con ben altri esiti!
Quando lo portarono fuori dal mondo
asettico della clinica era già un bambino
del tutto diverso: occhi pervinca, capelli,
o almeno un ciuffo consistente, biondi,
robusto e decisamente belloccio. Tanto
che iniziarono a scambiarlo per una bambina.
Vero é che la vita non dà
molte soddisfazioni, ma questo era ridicolo! Si sarebbe
accontentato, però, se avesse
saputo cosa lo attendeva, per così dire, da parte di madre.
C'é un ulteriore aneddoto
che vale la pena raccontare. Per un lungo periodo, tra i
quindici e i diciassette anni, Ellade
ha cercato con insistenza chi avesse concepito la
teoria secondo cui "il nome di una persona
tutto racchiude il suo destino". Desiderava
alcune spiegazioni, sosteneva lui, (io,
invece, credo fermamente volesse avere il
piacere di uccidere questo spacciatore
di falsità con le proprie mani, o quantomeno, di
“sputarlo in un occhio”, come avrebbe
fatto quel nobil’uomo del De Curtis). Dette
spiegazioni riguardavano la consistenza
effettiva del suo possibile futuro; allora non
sapeva nulla della Storia e dei filosofi,
veri maestri di politica, che la Grecia ha dato
alla umanità. Si chiedeva anche
insistentemente perché la madre, che secondo la
suddetta teoria avrebbe dovuto essere
una santa e dolce donna capace di soffrire per il
figlio, nella realtà fosse nevrotica
e arcigna, e soprattutto, facesse soffrire il figlio. Sua
madre: Maria.
Sento, ancora oggi, le urla isteriche
di Maria. Vedo le sue mani abbattersi sul
vecchio Ellade...non solo quelle. Anni
fa non potevo capire altro che la fisicità della
sofferenza: un cazzotto fa male dove
colpisce e basta. Oggi sento in me il dolore di
quelle parole gridate in faccia, degli
schiaffi e di quant'altre angherie gli abbia inflitto.
E, se lo avverto io, con la chiarezza
disarmante d'un evidenza, riesco soltanto ad
immaginare il tormento nell'animo di
Ellade. Piango per lui e per me, mai capace di
difenderlo.
I genitori si separarono dopo un
anno esatto dalla sua nascita. Una storia
cornuta e menefreghista, che avrebbe
dovuto restare interna alla coppia, i cui
protagonisti furono soltanto detective
privati, fotografie, registrazioni e video, come in
un brutto film di spionaggio. Neanche
un giudice fu capace di porre termine definitivo
a quell'amore patologicamente consunto
e logorato, sì che per anni piovvero parole,
violenze e ripicche sul mondo di Ellade.
La sentenza fu solo in grado di consegnarlo
nelle affettuose e quantomai (r)capaci
mani della madre, per i cui "servigi" il padre era
tenuto a versare quel che il nostro vecchio
definiva cinicamente "canone mensile": un
figlio in subaffitto, insomma. Quanto
alle ragioni o ai torti, ognuno dei genitori, in
seguito, seppe interpretare gli eventi
e quel pezzo di carta bollata a suo esclusivo
vantaggio. Ad onor del vero, Ellade,
sin dal suo primo pensiero cosciente,
sull'argomento aveva assunto un atteggiamento
di paziente attesa, che spesso scoloriva
in vero, sano, agnostico menefreghismo
(di quelli che salvano, se non un vita, almeno
l'infanzia). Sembrava pensare: "si scannino
pure ...alla fine, o si stuferanno, o - come
sperava - prevarrà la forza della
ragione, sulle ragioni della forza".
Era in errore.
Tuttavia non viveva la separazione
tra i genitori come un problema, né
tantomeno era propenso a considerarla
un marchio di infamia da dover gelosamente
celare al prossimo. Ma non bastò.
Laddove il destino aveva concesso naturali ed
affilate armi di difesa, si adoperò
la madre con altre ben più resistenti e subdole. Era
quello che Ellade definiva il "bombardamento".
In ogni guerra, coloro i quali abitino le
città, vivono una doppia vita:
tutto é apparentemente normale, ma nell'aria si avverte il
terrore e la tensione, pronte a scatenarsi
al primo allarme. Non appena la sirena sputa
il suo macabro avviso di morte, inizia
una realtà parallela, nascosti, in attesa del
destino, o in fuga, alla sua ricerca.
Così era sua madre: dolce ed affettuosa, melensa
come una palude di zucchero, e sempre
pronta a menare le mani, violenta più di un
tornado, e soprattutto fatalmente gelosa.
“Palude di zucchero”, certamente, ma
infestata da imprevedibili alligatori.
Sul viso gli schiaffi; sul corpo usava il battipanni
o il cucchiaio in legno della cucina...
qualche volta la frusta, altre la scopa. Non erano
quelli, tuttavia, dolori e lividi che
il nostro volesse nascondere. Li portava fiero,
monumento vivente alla stupidità
materna, totem di resistenza filiale. Stava in silenzio,
talvolta piangeva, o più spesso
urlava: ma non era il corpo a farlo, bensì lo spirito.
Quello spirito che é il peggiore
degli strozzini: oggi fa credito, domani anche, ma col
tempo i suoi interessi diverranno insostenibili.
Ed Ellade imparò a sue spese che col
destino e con l'anima i conti vanno sempre
chiusi subito, costi dolore, costi vergogna,
costi un amore o la vita stessa.
Un giorno si stancherà di
tutti quegli "a chi vuoi più bene, a MAMMA o a
papà" e i "dai un bacino a MAMMA
tua"; quel giorno il grande vaso della
sopportazione avrà ricevuto la
sua ultima, fatale goccia in eccesso: Ellade imparerà ad
odiare gli epiteti detti con voce strozzata
dall'ira -"delinquente! fallito! troglodita!
figlio degenere (...maledetto il giorno
che sei nato)!"- odierà la violenza e la meschina
falsità di chiunque non abbia
il coraggio del dialogo. Quel giorno lui farà il suo scatto
in testa al gruppo - al "pelotòn",
come dicono i pomposi Francesi - curvo sui pedali
della vita, le gambe che mulinano un
rapporto impossibile sulla salita maligna ed
infame, la schiena ad arco, la lingua
penzoloni, le lacrime sugli zigomi e vent'anni di
ricordi, la sua intera vita, chiusi in
uno zaino da montagna. Partirà come un colpo di
fucile, a 200 Km. dal traguardo, senza
mai voltarsi indietro per vedere chi lo segua e
chi no, in una fuga impossibile perché
troppo lontani dall'arrivo, desideroso di entrare
nella leggenda dell'unico "Tour" che
si debba assolutamente vincere, o morire nel
tentativo. Un giorno così ci sarà!
Lo giuro! Anzi c'é stato. Fra due ali di folla urlante e
bestemmiante, deciso verso la libertà,
lasciando alle spalle il "gruppo". Come ho detto,
una schioppettata: PUM! Certo lo spirito
reclamerà i suoi salati interessi, il retaggio
delle paure tornerà a corrodere
l'animo ed il carattere di Ellade, come un'impronta
indelebile, come un coltello perennemente
piantato nella carne, ma potrà finalmente
sperare di abbattere i suoi già
troppo presto delineati confini, per trasformarsi da
locomotiva sui binari in un bufalo, libero
di correre, di crescere, sbagliare strada e
ritrovarsi... libero anche di essere
ucciso.