Capitolo 3 - Verso casa

Mi manca l'esperienza. Non voglio dire l'esperienza con le ragazze, grazie al cielo, ma la sperimentazione di una incomunicabilità assoluta con un altro essere vivente.
Avrei dovuto fare un viaggio in Cina o in Egitto e perdermi, straniero in terra straniera.
L'unico precedente che si affaccia al mio cervello è una gita al Pian del Re: era un bel dì di maggio ed un cane lupo sperduto e in cerca di affetto, illusosi dopo che gli avevo grattato un po' la testa, si era sentito adottato e mi era venuto dietro fiducioso.
Avevo dovuto gridarlo e tirargli due sassi davanti al muso per convincerlo a lasciarmi perdere.
Ma come fare con la mia biondina, o quasi biondina?
Studio cautamente la situazione: se svolto a destra la ragazza svolta a destra. Se svolto a sinistra, a sinistra.
La guardo e lei sostiene serenamente i miei occhi. Il cane lupo, quando lo guardavo, sfuggiva il mio sguardo e guaiva piano.
Mondo boia! Non posso tirare sassi anche lei: che direbbe la gente di me? E cosa dirà se me la porto a casa?
Un'idea è di mettermi a correre fino a farle perdere le mie tracce, ma un malinteso senso di dignità me lo impedisce. E se poi fosse più veloce di me, se mi raggiungesse ovunque?
"Maledetti piccioni! Tutta colpa loro!" e della panettiera che sputa e che mi porta iella!

Ho fatto un giro lungo per prendere tempo.
Sono entrato in un piccolo market a prendere un barattolo di marmellata, un pacchetto di pane a cassetta e un gancio adesivo in plastica perché quello che reggeva gli asciugamani in cucina mi si è spaccato.
La ragazza mi ha osservato discretamente, senza essermi ne' di impaccio ne' di aiuto. Ma quando ho preso la marmellata dallo scaffale ha sorriso così dolcemente che una signora larghissima di fianchi e cortissima di gambe mi ha sospirato: "Che bello vedere una coppia di innamorati! Si vede che vi volete bene!"
Ho avuto un momento di sconforto e per un attimo ho pensato di confidarmi e aprirle il mio cuore, poi mi sono sentito così ridicolo, grottesco, idiota, che le parole non hanno trovato fiato per rendersi intelligibili: ho mugolato un "Grupt!" che poteva solo significare quello che significano tutti i "Grupt" di questo mondo anche, probabilmente, nella lingua della mia mangiatrice di cibo per colombi.
La signora mi ha sorriso ancora. Io ho preso ancora mezzo chilo di pasta e ho pagato alla cassa.
Dopo non ho saputo fare altro che avviarmi verso casa.

E così è: davanti al portone di casa mia, io entro e lei no.
Mi giro e ci guardiamo: "Ecco fatto! Resta fuori!".
Ma io non faccio un passo in avanti. Accidenti a me che ho i piedi di piombo e non riesco a fare un passo avanti!
E resto fermo, credeteci o no, e la guardo finché inevitabilmente non mi raggiunge lei, con una corsetta veloce che si può scomporre in una breve serie di saltelli leggeri.
Nell'espressione del suo viso, come in uno specchio, la mia stessa perplessità.

"Io abito qui. Al sesto piano." Osserva in alto e annuisce molto seriamente, come se capisse.
Attraverso l'androne e mi dirigo verso le scale. "Non c'è l'ascensore", l'avverto - per quello che può servire...
Sei piani sono dodici semirampe più quattro gradini che bisogna salire per arrivare alle soffitte e quindi al mio alloggetto. Ogni rampa ha quindici gradini (la prima tre in più) e quindi arrivare in cima è una bella fatica.
La ragazza mi segue a tre gradini di distanza e i nostri passi riecheggiano come un trotto irregolare tra le pareti sudate anch'esse per il caldo.
Secondo piano, quarto, quinto ... "Sesto!"
Devo scavare per recuperare dalla borsa da spiaggia le chiavi: "Sempre in fondo... Eccole finalmente!"
Guardo la ragazza ferma sulle scale, un po' affannata e probabilmente un po' spaventata. Io, fossi stato al suo posto, non mi sarei seguito: seguire un tipo losco come me in una soffitta!
In qualche alloggio, qualche piano più in basso, una donna canta - malissimo - ed a squarciagola.
Apro la mia porta. La serratura, malgrado i miei sforzi di farla sembrare una serratura a modo, cigola e geme e urla come il portone di un castello infestato da spettri e fantasmi.
Faccio un gesto vago e la ragazza entra per prima, improvvisamente pallida e quasi in punta di piedi.
Mentre richiudo la porta d'ingresso (il cui cigolio ha ora un suono vagamente soddisfatto) la ragazza avanza piano ed entra in cucina, cercando d'istinto come un moscone il locale più luminoso.
La porta a vetri della cucina è aperta sul terrazzo, un terrazzo catramoso, fuligginoso e mal orientato (rivolto verso gli Appennini invece che verso il mare) ma che ugualmente dà respiro al mio alloggio e ne fa quasi un piccolo attico.
"Quasi" perché l'odore che si respira è quello polveroso delle soffitte.
Questo terrazzo io lo sento come mio esclusivo possesso anche se vi si accede, oltre che dalla mia cucina, da un'altra soffitta, che però è abbandonata da sempre, e da un ingresso dalle scale che è sigillato da un enorme lucchetto, di quelli che si vedevano una volta - racconta mio padre - chiudere i portoni dei casolari di campagna.
Giuro che non l'ho messo io quel lucchetto ma mi fa lo stesso stramaledettamente comodo che ci sia.

Dal terrazzo la ragazza si affaccia cautamente e guarda la gente in strada, piccola piccola vista da questa altezza.
Dico qualche frase inutile, tanto per sciogliere la tensione.
Il sole perpendicolare picchia sodo parecchio sul terrazzo.
La ragazza mi sorride, non mi capisce ma mi ascolta e probabilmente si rincuora.
"Sono felice che tu sia qui! Però adesso che combiniamo?"
Vorrei proprio sapere se in quella testolina che macina in un altra lingua frulla qualcuno dei pensieri che gironzolano nella mia...
Ci guardiamo negli occhi e nei suoi occhi c'è timidezza e fiducia. Provo ad accorciare la distanza che ci separa da due passi a un passo e mezzo: lei non arretra, anche perché alle spalle ha il muricciolo ed uno strapiombo di sei piani, ma si inclina leggermente all'indietro con un movimento gentile che è facile interpretare come un: "Non provarci!".
Annuisco sconfitto e non riesco a trovare una frase migliore di: "Ci facciamo una pastasciutta?"
Lei sorride senza più paura e fa eco infantilmente: "Pataciuta!".


Salvario
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