La ragazza intanto, scendendo le scale, quasi non mi libera della sua presenza mettendo male un piede: si aggrappa in qualche modo alla ringhiera mentre una delle sue ciabattine, catapultata in aria, fa un volo pittoresco e precipita due pianerottoli pių in basso.
"Uccialacchia!"
"Porcaccia! - Traduco. - Stai attenta! Ti sei fatta male?"
Zampetta zoppa fino a raggiungere la ciabatta volante. Non mi sembra si sia fatta male: si strofina la caviglia ed č tutto.
"Tutto a posto? Guarda che, se ti copri di lividi, la gente penserā che sono stato io a picchiarti!"
Facciamo il lungo mare e, due o tre volte, Vancilea (precisazione sulla pronuncia che mi sono dimenticato di dare ai miei lettori, ovvero alla mia unica ed affezionata lettrice di San Vito prima che mettessi questo racconto su Internet dopo di che i lettori sono forse diventati tre: si legge e si dice Vancilča, con l'accento tonico sulla "e" e non sulla "i") punta decisa il mare: capisco che forse spera di andare a prendere il sole, ma io non ho voglia e, soprattutto, sono stufo di fare sempre come vuole lei.
Non ho neppure il costume e non mi va di stare coi boxer e di non potere fare il bagno.
Certo che - e qui guardo le onde con desiderio - mi piacerebbe abbandonarmi sulla spiaggia accanto a lei, giocare e scherzare con la sabbia, con il mare, con la sua pelle...
Per consolarmi e seguire il programma prendo un gelato: "Limone, amarena e gianduia!"
Per Vancilea provo a farmi indicare da lei i gusti almeno con un cenno: inutile, anzi pare imbarazzata ed intimidita e alla fine chiedo per lei lo stesso cono che ho ordinato per me.
"Mi vuoi mica fare la stessa scena che per il vino?".
Risposta negativa: lecca e succhia il suo gelato con piacere e mi ringrazia con un sorriso sincero. Poi la sua lingua accarezza la base del gelato catturando le gocce che si sciolgono.
Sorrido anch'io: "Cosa darei per essere quel gelato!". Se non capisce le parole, forse capisce per come la guardo e scoppia a ridere.
Slurpandoci il gelato rientriamo verso l'interno.
"Ti porto a vedere un amico." Le dico.
L'amico si chiama Stefano, č pittore e si fa chiamare Fano.
I suoi quadri a me non piacciano molto, ma lui me ne regala ogni tanto uno (quelli che non vende e non spera neanche di vendere) ed io mi sdebito pagandogli ogni tanto una pizza. Una pizza a lui ed una a Remė che č la sua ragazza, la sua modella e la sua factotum. Ed č Remė che mi sorride, nuda e acerba, da una tela un po' squallida nella mia camera da letto e che starebbe bene forse solo in una stanza d'albergo ad ore.
Stefano ha una bottega a piano terra, una specie di ampio garage dove vive, mangia, dorme (con Remė), cucina, dipinge ed espone.
Lo troviamo seduto sul gradino verso strada ed ha un'espressione particolarmente scontenta. Mi guarda appena quando lo saluto e guarda Vancilea un attimo di pių, ma senza entusiasmo: "E questa dove l'hai rimorchiata?".
"Si chiama Vancilea. Ha mangiato il pane che davo ai colombi."
"Non mi piacciono i colombi."
Gli artisti hanno le loro giornate negative: Stefano non sarā un grande artista, ma ha giornate di umore nero grandiose.
Vancilea č perplessa ma, per abituarsi a Stefano, ci vogliono mesi se non anni.
Remė esce da una serie di pannelli che dividono la parte negozio" da quella "privata". Ovviamente sui pannelli ci sono parecchie tele in cerca di acquirente; quadri quasi tutti, per il mio gusto, assolutamente privi di ispirazione artistica oltre che brutti. Ne salverei sei e di questi sei solo due, ad essere generosi, mi dicono
qualcosa - Nei sei quadri che salverei nessuno in cui compaia Remė, anche se l'originale č molto gradevole.
"Ciao, Andrea!" Sembra stanchissima, quasi sciupata. Indossa solo una gonna vivacissima e lunga fino alle caviglie e un reggiseno rosso molto leggero.
"Ciao, Remė. Non sembrate in grande giornata, eh?"
Non mi risponde neanche, ma poi si accorge di Vancilea: "E' con te?"
"Sė! Si chiama Vancilea."
Remė ha ancora un certo rispetto per le buone maniere e si presenta: "Vancilea? Ciao! Io sono Remė!"
Vancilea la guarda un po' spaventata e tocca dopo un'esitazione la mano che Remė le tende. A me piace tanto l'accento francese con cui Remė parla.
"Cosė sei con Andrea. Se vuoi sederti prendi una sedia. Lā ce n'č una!"
Vancilea segue il gesto ma non lo associa alla sedia, mi lancia uno sguardo dubbioso e resta in piedi.
Anche Remė mi guarda, un po' offesa.
"Non parla?!"
"Parla, ma probabilmente non ti capisce!"
Il mio avvertimento č per Remė, invece interviene con una scontrositā volutamente non controllata Stefano: "Le donne non ti capiscono mai! Per partito preso!".
Mi seggo sul gradino accanto a lui. Sta a capo chino e non mi ero accorto che ha la pipa tra le labbra: non la fuma perché č allergico al fumo, ma poiché una volta gliene hanno regalata una, ha preso l'abitudine di tenerla tra le labbra e di succhiarsi il tabacco spento. Se ne vedono di incredibili a questo mondo.
"Fano? Avete litigato?"
Alza le spalle: "Come sempre!"
Fa un suono strano con le labbra, poi accenna a Vancilea: "Ma chi č quella?"