Un regalo di Celentano per il 51° Festival di Sanremo
Il ragazzo del Clan
Dici Gianni Bella e mica ti vengono in mente i dischi di Celentano. Quelli li compra la gente che ha più di 40 anni e li infila nel carrello della spesa durante la visita al centro commerciale sentendosi fieri di poterlo pagare 31.900 invece di 37.900 e così ti vendono un milione di copie come ridere, anche se musicalmente sono il nulla più totale.
Leggi di Gianni Bella sulle note della sua casa discografica e tutti a pontificarti dei suoi album successivi alla fine del sodalizio con Bigazzi. Chi si ricorda una canzone di Gianni Bella di Bella-Mogol? Quanti siete? Tre, quattro? Non contando la famiglia Bella, ovviamente. Ce ne era una carina a dire la verità, si chiamava Il patto (1983). OK, ditemene un'altra. Zero assoluto, eh?
Ok, seconda prova: ora pensate a un successo di Gianni Bella degli anni '70. Ed è qui che bisogna tornare per capire la grandezza di un artista reso grande prima dai successi composti per la sorella Marcella (Montagne verdi, Sanremo 1972) poi da un intero repertorio che lo portò a troneggiare per ben due volte al vertice della Hit Parade, competendo e vincendo la sfida estiva del 1976 addirittura con mostri come Europa di Santana, Fernando degli Abba e soprattutto Ramaya di Afric Simone.
Di quella Non si può morire dentro ricordiamo le atmosfere plumbee e intimiste, ben diverse dal bucolicismo di maniera che imperava in quegli anni, ove tre canzoni su quattro raccontavano di giovani che fanno all'amore in campagna. Un addio alla stazione forte e intimo, un titolo che tutti ricordano e che si è fatto tormentone. Vorrebbe essere Lucio Battisti, ma ha i capelli più crespi e predilige troppo le tonalità minori. Nulla da fare, resta Gianni Bella.
L'anno dopo, stesse tinte pastello da foto di David Hamilton, e sfruttamento del tema del triangolo. Più ci penso il titolo, ma la figura della donna vincente "Io di te subisco la presenza ma di lei non posso fare senza" prelude a quella che sarà la cifra stilistica di tutto il repertorio suggestivo del Bella: una trama alla Bella senz'anima declinata in tutte le sue sfaccettature.
Per Bigazzi-Bella, l'amata è tendenzialmente cattiva, sempre pronta a concedersi al Bella e ad accarezzare la sua acconciatura da Napo Orso Capo con l'unico scopo di legarlo a lei e di gettarlo via. Il Bella, ormai trentenne, non si da' pace. "Stasera io dovrei prostituirmi", dice in NO(1978) "ballare come un orso e divertirmi". Davanti allo specchio si consuma il dramma interiore del Gianni: "peccato che il balcone non ha più fiori sennò nei miei capelli io li metterei". Altro dramma in Toc Toc (1978): "se lei ti chiama non dirle sì, tanto poi finite sempre per fare l'amore, e se questo tu vuoi falle un regalo ma non il cuore".
Debutta a Sanremo tardi, nel 1981, lui che avrebbe stravinto qualsiasi festival del decennio precedente si presenta con il perfetto remix di I was made for loving you dei Kiss e Don't let me be misunderstood dei Santa Esmeralda. Finisce oltre la decima posizione, e si rende conto che deve iniziare una nuova strada. Molla il Bigazzi e si mette con Mogol che, lasciato Battisti, ci riprova con tutti i Battistiani ancora in circolazione. Nulla da fare, viene fuori un lavoro dignitosissimo che si chiama Gb1, la cui canzone di punta è Il patto mica Io vorrei...non vorrei...ma se vuoi
L'accoppiata con Mogol dona migliori frutti al repertorio della sorella Marcella, che si ripropone in chiave erotica-stomp con Aria poi Nel mio cielo puro, ricordate "La mia gatta è ancora lì, non parla ma dice sì"? Ora traducetelo in inglese.
Tra il 1990 e il 1991 porta a Sanremo due canzoni da mezza età. Capisce in anticipo che chi ha 40 anni rappresenta pure un suo mercato. Il successo e pochino, le meditazioni MogolBelliane non attaccano. Gianni Bella si ritira e medita vendetta.
Lo riporta a Sanremo Celentano, che condiziona -si mormora- la prossima partecipazione televisiva alla presenza al festival del suo musicista Gianni. Gratitudine, per un cantante che -da solo- si era ridotto a scrivere canzoni come Quel punto. Nonostante la tenuta da discotecaro primi anni 90, gli occhiali da Bono Vox e il capello argentato, la canzone promette un'altra meditazione sul tempo che passa al contatto con la natura. Vedremo se ci sbagliamo.
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