RIME E RACCONTI
D'OCCASIONE
Poesie e prose di diverso peso e pregio
Scritte su commissione di qualcuno
"Maridu anzenu prango
Né perdo né balanzo
A cuccuru du kerzo
Né balanzo né perdo."
(* Attitu, quartina di lutto di anonima)
Cinque piccole sceneggiature sull'energia
Scritte per un'iniziativa di informazione scientifica della SNAM nelle scuole, 1994.
Tre racconti sulla pubblicità
Scritti per una campagna autopromozionale dell'agenzia pubblicitaria di un amico, Cagliari, 1994.
GIULIA ORECCHIA
Un racconto sulle orecchie e sui suoni, scritto per due amici attori che facevano letture in biblioteca, 1996.
CIAO, ANASTASIA!
Un racconto sul Tempo e la Morte, scritto per una festa delle Banche del Tempo a Bologna, 1998.
Otto racconti sull'educazione stradale
STORIE DEL VIAVAI, otto racconti scritti per un kit distribuito da FIAT Scuola a oltre diecimila scuole, 1999.
IL CORNO PORTASFORTUNA
Un racconto sulla superstizione, scritto per il mensile per bambini "Ciao Amici", numero di giugno 2001.
CONCHIGLIE STEREO
Un racconto su bambini e tecnologia, scritto per l'inserto "Specchio" del quotidiano LA STAMPA del 10 novembre 2001.
LA PINETA DEI SOMBRERI
Un racconto sull'omologazione, scritto per il libro di AA.VV. "Diversi e uguali", I colori del mondo,
Provincia di Siena, 2002.
MADRE NOSTRA MARIA MINERALE
Un racconto (non per bambini) sulla vita dei minatori sardi, scritto per il libro di AA.VV. "Sonos 'e memoria", a cura di G.Cabiddu, marzo 2003 (il libro verrà edito nel 2009).
ALLE BAMBINE PIACCIONE LE BAMBOLE
Un racconto sui desideri dei meninos de rua di San Paolo del Brasile, scritto per il libro di AA.VV. "Io vorrei...", Edizioni Condè Nast, Milano, 2004.
COME FINISCONO LE STORIE MINORI
Un racconto sui libri dei piccoli editori, scritto per l'Associazione Librai Italiani, uscito sul quotidiano "La Nuova Sardegna", aprile 2004.
I SALVATORI DELLA MEZZANOTTE
Un racconto sul presepio, inedito, settembre 2004 (scritto per il mensile "Ciao amici" e non pubblicato).
LO ZIZIGOTE NERO
Una variante biotech della fiaba "Il brutto anatroccolo", scritto per una pubblicazione del Festival "UNA CITTÀ PER GIOCO", a cura della Coop. Tangram, Teatro Città Murata e Comune di Vimercate, aprile 2005.
ISMENE, LA SORELLA
Un racconto-monologo (non per bambini) su Maria e Giuliana Lai, scritto come "Capitolo" aggiuntivo dello spettacolo "TELAI" di Laura Curino, per la rappresentazione speciale tenuta al Festival Letterario "L'Isola delle Storie", Gavoi, luglio 2005.
IL VIAGGIO DI MIR
Un nano-racconto sul pecorino sardo, scritto per il progetto-kit per le scuole sugli alimenti tradizionali "Che gusto c'è", Giunti Progetti Educativi, settembre 2005.
MASKINGAME
Un racconto su un essere immaginario della tradizione sarda, scritto per il libro di AA.VV. "Adottamostri", edito dal Centro Servizi Bibliotecari della Provincia di Cagliari, a cura di Teresa Porcella, maggio 2006.
TRICOSHINE
Un racconto per ragazzi e giovani sull'amicizia, scritto per il libro di AA.VV. "Doppio misto", edito dal Centro Servizi Bibliotecari della Provincia di Cagliari, a cura di Teresa Porcella, ottobre 2007.
LE TRE MAMME DEI MONTI
Tre racconti su tre siti minerari di Sardegna, scritti per la guida turistica per ragazzi "In un regno lontano lontano...", edito dall'Assessorato al Turismo della Regione Sardegna e dalla Cooperativa Tuttestorie, Cagliari, luglio 2008.
LA CATTURA DEI SERPENTI SCINTILLA
Un racconto sulla figura in gesso di Giulio Monteverde "Il Genio di Franklin" (Galleria d'Arte Moderna di Genova), scritto per il libro "Il Genio di Franklin", edito dal polo museale di Nervi nella collana "Sogno intorno all'opera", agosto 2008.
Furono i lettori bambini i primi a intuire la verità: "Sono sparite tutte le righe di quando parla il GGG" - "Nel Tornatràs che abbiamo comprato all'Iper non c'è più né Colomba, né Pulce, e neanche il nonno Victor Ugo" - "I miei libri dei Mumin sono quasi del tutto bianchi: forse è l'inverno artico, sono andati tutti in letargo" - "In quelli della serie Black Terror che compro io, invece, non manca neanche una riga" - "Mia mamma ha comprato un Pinocchio per il compleanno di Giuli: c'era il Gatto e la Volpe, il Giudice, i Carabinieri, ma dove parla o corre Pinocchio solo buchi bianchi"...
Insomma, la diagnosi fra i bambini era fatta: i personaggi toglievano le tende.
Migravano, se ne andavano di lì, e di loro sulle pagine non restava alcuna traccia.
Fu la solita Maria Mezzomondo che scoprì il perché. Col suo occhio sinistro che - se lei chiude il destro - vede la fiaba dentro la realtà, li vide benissimo, all'Iper, un giorno, uscire dalle pagine e volarsene via. E li sentì bestemmiare, o sospirare a seconda dell'indole, un discorso che riferì al suo amico Valentino più o meno così:
"Qui non ci vogliono bene, ce ne andiamo. Non c'è nessun venditore di libri che ci conosca, ci saluti, sappia di noi; che giri fra gli scaffali, giorno dopo giorno, riepilogandoci mentre spolvera; che ci rimetta in pila di malgarbo una mattina d'autunno, col naso che cola; che ci sfogli sorridendo trasognato un pomeriggio di maggio, nel vento fioraio. Ma soprattutto che parli di noi a quei tipi innamorati che entrano smarriti, e amano ma non sanno ancora chi: e allora quei librai, sornioni come vecchie maîtresse, li portano a braccetto da noi e dicono sorridendo: guardi qui..."
No, lì non c'era più niente di tutto questo.
Addetti di settore, con carrelli zannuti, li impilavano secondo il piano fornito dal reparto di progettazione merceologica, e poi chi s'è visto s'è visto. Venivano solo alla notte uomini e donne di paesi lontanissimi, coi visi scuri e assenti, a spolverare.
Questo non è un buon posto. Via di qui.
Ma via dove? Anche sui librai cominciarono a piovere i problemi. Un'altra peste degli inchiostri, simmetrica alla prima, colpì i loro libri: blocchi interi di testo s'ispessivano, parevano composti di righe sdoppiate, ribattute alla stampa due volte. I personaggi che fuggivano dalle Grandi Catene, evidentemente, cercavano di introdursi in quei libri, e sgomitavano facendosi largo accanto ai loro sosia titolari. Il meglio che potesse accadere a un lettore era sentire, mentre leggeva, un personaggio parlare e agire in una strana modalità corale, come se fosse due.
La situazione era arrivata più o meno a questo punto, quando un giorno...
(...)
Be'? Quando un giorno cosa?
Piango un marito altrui
Questa pagina è stata aggiornata l'ultima volta il 26 agosto 2008
ARRIVEDERCI
Purtroppo, forse, non lo saprete mai. Non è una provocazione, giuro, è solo un esempio.
Questo è un racconto che ho cominciato a scrivere per pubblicarlo su un giornale. Poi però diventava lungo e ho dovuto interromperlo. Lo finirò di certo, prima o poi, e lo pubblicherò. Ma difficilmente voi saprete come va a finire, perché le storie che scrivo io vanno a finire su libri che negli Ipermercati difficilmente si trovano. E forse, quando fra qualche anno lo pubblicherò, i libri si potranno trovare solo, o soprattutto, negli Ipermercati.
Non era chissà che, questo racconto, solo una storia minore, ma poteva valere la pena finire di leggerla. E così altre storie minori, che abitano libri piccoli di statura ma ben fatti, come sono tanti sardi: può valere la pena di trovarli ancora in giro.
Ma il mondo cambia. Con l'avvento delle multisale si può scegliere fra trenta schermi, e otto film, in tutta la città. Poteva valere la pena di vedere il nono, qualche sera, o il quindicesimo nella classifica del Box Office.
Accadrà lo stesso ai libri?
È comprensibile che per qualcuno la vita si semplifichi, se tutti leggiamo e vediamo le stesse cose.
Meno comprensibile è che noi stessi collaboriamo a semplificare la vita - e i guadagni e il consenso e il controllo - a costui o a costoro.
Non è vero che non possiamo farci niente: possiamo scegliere se, cosa e dove comprare.
Allora scegliamo dove comprare un libro.
P.S.: quella storia finirà bene, perché qualcuno deve pur assumersi il compito di dire che il futuro sarà salvo; e se non lo fanno gli scrittori per bambini...
All'indice
Home Page
I salvatori della mezzanotte
Inedito. Scritto in origine nel settembre 2004 per il mensile "CIAO AMICI" (Messaggero di Sant'antonio), e in seguito non pubblicato.
Era ormai notte alta, nella casa.
Jana si affacciò guardinga dalla cucina. La luce colorata e fantastica di quell'albero acceso trasformava la solita sala, a lei così nota, in uno strano mondo nuovo. In quel mondo c'era un piccolo regno, ancora più strano e più nuovo, che si estendeva su un tavolo basso ampliato da assi e cartoni, lì, sotto la finestra, al posto del ficus. Era dentro e sembrava fuori, con prati e monti e strade; era casa e sembrava mondo, con bestie e gente in viaggio. Per tutto il pomeriggio Carlotta l'aveva minacciata con gesti e con voce, che si tenesse alla larga da lì. Ma adesso dormivano tutti ed era il momento di dare una buona occhiata.
Annusò, attese, scrutò, annusò ancora. E infine vi saltò sopra, leggerissima. I polpastrelli premettero quella strana erba secca, cedevole ma salda. Sostò, guardando ogni cosa: i piccoli umani in cammino, ma fermi, la prateria secca, le minuscole case, i monti lontani e vicini. Poi tentò un passo cautissimo. Due, tre. Tutti gli umani erano volti nella stessa direzione, e lì anche lei guardò. C'era una specie di grotta, con dentro un uomo, una donna, un asino, un bue. Di fronte alla grotta altri umani in piedi e in ginocchio, che guardavano fissamente l'interno. Decise di studiare uno di questi, che parevano in qualche modo più accessibili.
Si avvicinò cauta, col suo migliore passo di caccia. Superò altri piccoli umani, un paio di cespugli polverosi, un ponte su un ruscello di immobile argento, un gregge di quattro pecore col pastore. Le figure davanti alla grotta erano sei: due donne con canestri di cibi, un vecchio con un bambino per mano, un giovane che suonava il flauto e un uomo cupo, chiuso in un mantello, accovacciato. Si diresse verso quest'ultima figura, che era la più isolata. La fissò, l'annusò: sapeva di terra, di straniero, di pericolo. La toccò con la zampa, la figura cadde su un fianco. A quel punto la cautela si sciolse nell'azione fulminea: Jana prese fra i denti la testa della statuina, in due balzi saltò giù dal Presepio e corse via con la sua preda in bocca.
Era ormai notte alta, in Palestina.
Il blu cupo dell'oltrecielo più profondo, tempestato di stelle diamantine, copriva la volta del mondo. I pastori e i contadini di Betlehem, come in tutti i villaggi di Canaan, avevano ammucchiato nei bivi, sui confini dei campi, presso i pozzi, le fascine per i fuochi dell'ultima notte di festa per il solstizio d'inverno. Ora uomini, donne e bambini, sugli asini decorati di palme, cantando e suonando, partivano dalle case con le torce rifulgenti nella notte.
Ma quell'anno pareva che fosse una festa speciale. C'era nell'aria qualcosa di nuovo e straordinario: i profeti e i maghi l'avevano detto da un pezzo, e lo diceva adesso quella stella, più eloquente di mille profezie, sfolgorante e bassa nel cielo a indicare un luogo: quella grotta poco fuori del paese, nota a tutti come ovile di fortuna. La folla sulla pista polverosa presto divenne un fiume: pastori e contadini, giovani e vecchi, artigiani e mendicanti, ambulanti e contabili, e frotte strepitanti di bambini, tutti in marcia verso quella grotta.
Davanti alla grotta Zahel Onagro sedeva muto, accanto a un vecchio rabbi col nipotino per mano, a due donne con cesti ricolmi di datteri e fichi, e a un giovane suonatore di kinnor. Zahel sospirò e si sfregò gli occhi. Quel lavoro si era rivelato diverso dal solito. Una giovane donna incinta da eliminare, per conto di Erode, prima che mettesse al mondo il suo marmocchio, che il Tetrarca per qualche motivo pareva temere: un gioco da ragazzi, sulla carta. Ma mille intralci s'erano frapposti, incidenti d'ogni tipo, strane peripezie, che parevano non avere niente di casuale; e che gli misero in testa l'idea che quella donna, e il suo prezioso fardello, fossero protetti da potenze ben maggiori di Erode. Ma lui era un sicario, fra i più noti e i meglio pagati della zona: non poteva lasciarsi fermare dalle superstizioni.
Così pensava, chiedendosi quando la gente avrebbe cominciato a stufarsi e togliersi dai piedi, per lasciargli finire il lavoro, quando a un tratto...
Dapprincipio non volle crederci e distolse lo sguardo. Un leopardo, o un ghepardo gigantesco, alto come sette cammelli uno sull'altro, camminava lento nel piano guardando lui. Chiuse gli occhi, pensando che la stanchezza e quelle superstizioni imbecilli da donnine alla fonte gli stessero giocando un brutto tiro. Li riaprì: il Demonio in forma di Gatto era lì accanto lui, e si chinava ad annusarlo. Si irrigidì, guardò avanti e non si mosse, stringendo il manico dell'inutile pugnale. Poi sentì un urto morbido e possente, la zampata di una zampa smisurata, cadde su un fianco, vide che il mostro si chinava, avvertì il fiato fetido delle sue fauci aperte, vide offuscarsi la luce all'improvviso, poi non vide più nulla.
Era ormai notte alta in Paradiso.
- Un gatto? Dici che è valido? - chiese San Pietro - Non è mai stato un gatto! Anzi, non è mai stato nessun animale!
- Errore! - trionfò sorridente l'Arcangelo - cinquecentosettanta anni fa è stato un cervo.
- Un cervo? Be'... il cervo è già un bel simbolo regale: ma un gatto!
- Ora non venir fuori con quelle storie che i gatti sono diabolici, eh? Scommetto che a te piacciono i cani.
- Esatto.
- Dài, Pietro, ragiona: a questo punto abbiamo solo lui. E poi non è un gatto qualunque: è il gatto del bambino Gabriele, che l'ha salvato due anni fa.
- Ah, ecco. Una specie di impresa di famiglia. Mah! Tu che ne dici?
- Valido. Non abbiamo altri salvatori. E ormai deve nascere.
- E va bene. Valido. Diamo il segnale?
- Ci penso io, come sempre.
L'Arcangelo partì per la Giudea. Suonò, volò, cantò, e il Bimbo nacque.
La mattina dopo, a casa di Lele, Carlotta trovò sotto il solito mobile la statuina che Jana aveva rubato per giocare, la restaurò un po' coi pennarelli, e la rimise sul Presepio.
Ma ormai era tardi per il lavoro del sicario. Anche quell'anno gli era andata male.
Chissà il prossimo anno chi lo fermerà.
All'indice
Home Page
Lo zizigote nero
Scritto nell'aprile 2005 per un'iniziativa editoriale del XIV Festival per Ragazzi "UNA CITTA' PER GIOCO", in occasione del bicentenario della nascita di Hans Christian Andersen, a cura della Cooperativa Tangram, Teatro Città Murata e Comune di Vimercate.
Proprio così: nero come un corvo.
- Corvo torvo! Corvo torvo! - lo prendevano in giro i fratellini candidi, quando cominciarono a sgambettare in quello strano mondo di vetro e metallo dove non veniva mai notte.
Però i giorni passavano lo stesso, pieni di giochi e scherzi, di bei sonni e buona pappa, che cadeva da sola in una tazza non appena avevano un po' di languorino.
Ogni tanto un Angelo Bianco si sporgeva dal cielo, calava due ali strane senza piume, afferrava un fratellino, lo sollevava e lo portava via. Nessuna paura, però: tutti sapevano che sarebbe tornato di lì a poco, e a chi gli chiedeva cosa gli avessero fatto gli Angeli Bianchi, avrebbe risposto sempre allo stesso modo:
- Mi hanno guardato, pesato, misurato, dato da mangiare piccole pappe di molti colori, tolto due piumette e punto con un pungiglione, che però non mi ha fatto niente.
Gli Angeli portavano tutti in cielo, una volta al giorno, tranne il papero nero: lui mai.
- Perché loro sono bianchi come noi, mentre tu sei nero buio, e corvo torvo! - gli dicevano i fratellini.
E così infatti andò. Quelli che ai paperetti sembravano Angeli Bianchi erano medici ricercatori, che studiavano la trasmissione di una brutta malattia legata al colore di peli e capelli e piume; e per questa ricerca dovevano usare esemplari omozigoti, tutti bianchi. I paperetti bianchi non sapevano di chiamarsi "omozigoti", e sapendolo magari quel nome gli sarebbe piaciuto. Avrebbero chiesto come si chiamava il fratello nero, e sapendo che si chiamava "eterozigote", gli avrebbero detto:
- Hai visto? Anche il tuo nome è diverso dal nostro!
- Certo! In inglese vorrà dire nero.
- Zizigote nero! Zizigote nero!
Ma non era così. Eterozigote voleva dire che, per motivi che in una fiaba sarebbe fuori posto spiegare, quell'anatroccolo tutto nero non serviva per i loro esperimenti. E quando l'inserviente lo chiese in dono per la sua bambina, quei medici, che non erano certo cattivi ma solo scienziati, glielo diedero volentieri.
L'inserviente lo portò alla figlioletta, che lo portò nella sua scuola, dove tutti lo coccolarono e vezzeggiarono, con tante voci che dicevano "che carino!", "che dolce!", "che forte!", e nessuna che diceva "corvo torvo". Nei giorni che seguirono, non potendolo tenere a casa perché sporcava, la bambina lo diede a una compagna che aveva una zia in campagna.
L'anatroccolo nero scoprì il mondo.
E così fu. L'anatroccolo nero visse a lungo in quell'aia in campagna, forse non cigno nel vento, ma felice e contento.
All'indice
Home Page
Ismene, la sorella
Un racconto-monologo (non per bambini) sulla scultrice Maria Lai e sulla sorella Giuliana, scritto come "Capitolo" aggiuntivo dello spettacolo "TELAI" di Laura Curino, per la sua rappresentazione speciale tenuta al Festival Letterario "L'Isola delle Storie", Gavoi, luglio 2005.
Una camera con le pareti bianche. Tutto comincia lì, e ci faceva così invidia a noi. Una camera dei giochi tutta per lei, tutta vuota e con le pareti bianche.
Perché Maria, la mia sorellina grande, era fragile, di poca salute, e quando gli zii senza figli l’hanno chiesta i miei gliel’hanno affidata, perché la curassero bene. L’hanno curata, eccome: è cresciuta da sola con quei due zii silenziosi, nella casa sulla collina che guarda il nuraghe, in faccia al mare.
È diventata una bambina perfetta, educata, pensosa, sempre un po’ triste. Noi fratelli eravamo gelosi che fosse così perfetta, la preferita di babbo e mamma che non finivano mai di fare lodi: Marola qui, Marola lì… E poi ci faceva invidia quella camera tutta per lei, vuota, con le pareti bianche.
Lì cominciò a disegnare… Sì, tracciava sui muri coi carboni del camino le forme, le creature, le piante, le cose del mondo. Piano piano le pareti si riempivano, e allora lo zio ridava una mano di bianco, e tutto poteva ricominciare. Una specie di Zio Dio, mi dico adesso. Allora mi faceva solo invidia, ma adesso penso che Dio sia così: non uno che crea, uno che cancella, che svuota, che sbarazza come dopo una bella cena, fa spazio. Perché la vita possa venire e riempire di forme, vere o disegnate che siano. Anche lei, Marola, è brava a fare bianco nelle sue opere, dove poi, come una farfalla su una tovaglia, arriva l’arte. Arriva sempre, come fa? Non manca mai.
Io no, io le riempio le mie opere cucite, intrecciate fitte fitte di sete velluti damaschi e trame d’oro: di bianco non ne lascio neanche un po’, non son capace. In questo forse sta la differenza: io faccio cose che servono, tappeti, borse, astucci, bamboline. Faccio figli e nipoti, tanti. Gliel’ho anche detto, un giorno: non fare figli, li faccio io per te. Perché lei è Maria, è… diversa da noi.
Quando è morta la sorellina piccola, noi piangevamo senza capire più niente: lei dipingeva fiordalisi lilla sul cuscinetto di seta della bara. E quando nostro padre ha chiesto allo scultore Ciusa un ritratto in marmo bianco della bambina, Marola, che le assomigliava, ha posato per lui. È stata in quello studio un paio di giorni, e guardava, toccava la creta. Quando il ritratto fu finito, ha chiesto di continuare ad andarci. E via: si era aperta la strada.
Non quella degli zingari saltimbanchi, quando si era nascosta nel carrozzone e aveva provato e scappare nei circhi del mondo, e quelli invece l’hanno riportata a casa: no, la strada dell’Arte, quella che aprono i Grandi Maestri. Gli uomini aratri, come diceva il primo dei tre, il Professore:
"Il poeta è un aratro che scava i solchi perché i semi germoglino; la terra ha bisogno di essere violentata, sconvolta per diventare fertile".
Il Professore Cambosu, alle medie in paese, è il primo a capire che non può essere una quasi-minorata una scolara che disegna così. È terra giovane e fertile da arare. E che strada le apriamo? La fiaba di Maria Pietra, più brava a fare creature con le parole proibite, a fare e disfare bambini di pane impastati col pianto, che figli di carne. Sei donna? Partorirai nel dolore. Sei donna artista? Partorirai figure.
Il secondo Maestro niente, neanche quelle! Sei donna artista? No ti xe bona de far niente!
Arturo Martini, grande scultore all’Accademia di Venezia. "La linea orizzontale è la terra – diceva nelle lezioni – è l’elemento femminile, la materia. La linea verticale, che cade perpendicolarmente (era proprio una fissazione!), è l’elemento maschile, lo spirito, l’unico che produce arte".
E Maria era l’unica sua allieva femmina: un problema curioso per lui. E lui per lei un bell’aratro vigoroso, che ha aperto una strada lunghissima: tutta una vita intera, per smentirlo.
E poi il terzo Maestro, il più dolce. Giuseppe Dessì, dirimpettaio nella casa di Roma, che la guarda lavorare alla finestra, ormai donna e artista, e le scrive addosso la fiaba. È un Dio Distratto quello che fa le donne artiste. Anche lui un po’ Zio Dio; o perlomeno non è un aratro che va giù perpendicolare… È un dio annoiato che non vuol più essere Dio e fa l’apicultore, ma nel cacciar via un’ape gli scappa una scintilla di potenza divina, e trasforma uno sciame in fate industriose: le Janas. Che poi insegneranno alle donne sarde l’arte della bellezza nei tappeti, nei ricami, nel pane, mentre gli uomini di qui, dopo i nuraghi, non hanno fatto più niente di bello.
Lei invece sì che ha fatto cose belle, in quella sua strada, che gliel’abbiano aperta gli uomini maestri con l’aratro, o gli uomini gentili e distratti, o le Janas. O magari le sue stesse mani, che in fondo è ciò che viene da pensare, vedendola lavorare.
E così gli anni son passati. Anni, opere, gloria, amici artisti, mostre in città dall’altra parte della terra; e io qua figli e nipoti, pasque e natali, che sono opere anche quelle. Gli anni sono passati, perché sanno farlo: ottantasei per lei, ottantatré per me. E alla fine è tornata qui, a stare con noi.
Qui, nella casa sulla collina che guarda il nuraghe, la stessa di quella antica camera bianca, noi stiamo bene. Io, Marola, Luigi, e tanti altri cari volti che vengono a vanno. Ieri siamo rientrati con Gianni che era notte. Ci hanno accolto Luigi e Lola col fuoco nel camino e una bistecca da cuocere in graticola. Eravamo tutti felici e hanno ascoltato i miei racconti fino a tardi. Nei prossimi giorni Lola dovrà ricevere altri amici. Questa specie di processione, che sembra un presepio: studenti per la tesi, artisti, critici, curiosi, giornalisti… Lola accoglie tutti con quel suo sorriso, ma io lo so che si stufa e si annoia. Allora arrivo io, li chiamo nella mia stanza del lavoro, gli faccio il caffè, gli mostro le mie opere: tappeti, borse, cesti, portafogli, cuciti di tele preziose e trame d’oro, tessuti sui telaietti delle Janas. E loro comprano, se vogliono.
Tu sei Ismene, la sorella – mi ha detto un giorno un visitatore colto. Io non lo so chi è Ismene: io sono Giuliana Lai, sorella di Maria, tanto quanto Maria Lai è sorella mia. Questa è una sorellanza. Io le ho tenuta pronta questa casa, per quando lei era pronta, le ho imbiancato le pareti, l’ho fatto io stavolta, nell’attesa. E lei è tornata, per godere quest’opera mia, la casa bianca piena di cari volti. E su quelle pareti lei ha messo l’opera sua, le figure del mondo. E non è vero che donne che fanno forme non fanno figli e donne che fanno figli non fanno forme. Sono cose che dicono i maschi, col loro aratro. Noi che abbiamo il telaio, che non taglia ma lega, diciamo il contrario: donne sorelle intrecciano i fili dei destini una con l’altra, si mischiano le vite, in un tappeto solo.
Noi siamo state brave, brave artiste. Qui siamo stati bravi, tutti quanti.
All'indice
Home Page
Il viaggio di Mir
Un nano-racconto sul pecorino sardo, scritto per il progetto-kit per le scuole sugli alimenti tradizionali "Che gusto c'è", Giunti PRogetti Educativi, settembre 2005.
Mir aveva dodici anni e doveva partire. La madre gli mise nella bisaccia il pane di carta e il pecorino antico. Scopo del viaggio, si diceva, era trovare sette pecore rubate; ma tutti sapevano che quelle pecore le avevano fatte nascondere gli Anziani nei crepacci della montagna, chissà dove. Scopo del viaggio era diventare uomo. Mir partì. Giunto al fiume, capì che se faceva un altro passo non sarebbe stato mai così lontano da casa. Fece quel passo nell'acqua e guadò il fiume. Dall'altra parte, la terra gli parve diversa da quella che conosceva. Camminò verso la montagna.
Quando fu l'imbrunire, cercò un rifugio per la notte, e mangiò. Il pecorino era ben stagionato, bruno e roccioso. Sapeva che non c'era altro cibo che desse tanta forza prendendo così poco spazio e conservandosi per tanto tempo; era il pane di via dei pastori, ma solo allora capì il vero perché. Non era solo al corpo che dava energia: il sapore che sentì, così forte e familiare in quelle terre sconosciute, svegliò antenati che dormivano nel sangue, lo fece sentire a casa all'improvviso, lo fece sentire in tanti. Con quel sapore in bocca, quegli avi invisibili intorno, e quella forza in pancia, Mir posò il capo sulla bisaccia e dormì, pronto per il cammino di domani.
All'indice
Home Page
Maskingame
Scritto nell'aprile 2006 per il libro di AA.VV. "Adottamostri", edito dal Centro di Documentazione Biblioteche per Ragazzi della Provincia di Cagliari, a cura di Teresa Porcella, Cagliari, maggio 2006.
Michelino girava e rigirava fra le mani il nuovo transformer regalato per il compleanno, mentre ascoltava i discorsi della mamma e del papà giù in cucina.
La situazione cominciava a essere grave. Anche quel giorno papà era tornato a mezza mattina, e aveva perso un altro giorno di lavoro. Non voleva parlar chiaro, bofonchiava mezze frasi intorno a certi brutti incontri che faceva, a cose che vedeva in campagna spaventose e impossibili, da non poterne parlare con nessuno. Ma stavolta la mamma ha insistito e alla fine, occhi stretti e spalle curve come chi aspetta colpi, lui ha parlato.
Nel costeggiare il bosco di Pinnia, quasi sempre un bambino, qualche volta un maialino o un puledro, gli si faceva incontro. La prima volta lui s'era fermato, aveva chiesto da dove venisse, come mai fosse lì. Quello gli si sfregava sulle gambe come chiedendo aiuto, ma quando lui si era chinato per prenderlo, aveva cominciato a trasformarsi: cresceva, si espandeva, si gonfiava prima il collo poi le guance, gli occhi sporgevano come due rospi pazzi, le orecchie sbandieravano come finestre, le braccia si allungavano, si piegavano in punti sbagliati, le dita si sfilavano come stecche d'ombrelli, roteavano intorno, la bocca si apriva grande, buia, esagerata, e ne esplodeva una risata orribile, fatta solo di fiato senza voce, e poi una lingua di fiamma che gli leccava il viso senza bruciarlo e infine avvolgeva nel fuoco l'intera radura.
Allora lui si voltava e tornava alla macchina, sforzandosi di non correre.
La mamma aveva ascoltato questo racconto in perfetto silenzio.
E in silenzio aveva ascoltato Michelino, dietro la porta socchiusa di camera sua.
"Non preoccuparti, vedrai, passerà" aveva detto infine la mamma, con un sospiro. "Sarai stanco, prendi tre giorni di riposo"
Tre giorni dopo il papà era tornato al lavoro, ma niente da fare: eccolo di nuovo a casa già alle nove, bianco e freddo e madido come ricotta.
La mamma ne ha parlato con la nonna, che ne ha parlato con la vecchia zia Consola, che ha detto: "Un fuoco che non brucia? È Maskinganna, dimonio maladitto! Io lo sapevo che tornava fuori. Per cinquant'anni anni se n'è stato nascosto nel cuore nero di quel bosco, che il fuoco lo bruci!"
Maskinganna, diceva Zia Consola: l'antico diavolo illusionista maligno e burlone.
Allucinazioni da stress, diceva il dottore. Vino cattivo, diceva il vicinato. E Michelino?
Michelino ne parlò coi suoi amici: Giaime, Peppetto, Luisi, Damiano e Bobòi.
Ripeté la descrizione che suo padre aveva fatto di questo bambino: si gonfia il collo, poi le guance, poi sporgono gli occhi e gli orecchi, le braccia si allungano e si piegano in punti sbagliati, le dita si sfilano come stecche d'ombrelli e ruotano intorno...
Si guardarono tutti: è un transformer! Sì, un Tankor! No, un Grimlock! Un Battle Squad, un Black Beast, un Megatron, un Devastator!
Presero le scatole e cominciarono a giocare.
Ma quel pomeriggio giocarono in un modo che non s'era visto mai prima, e non avrebbero visto mai più. Stratagemmi, posizioni, sequenze, scelte di armi, gridi, versi, tutto riusciva bene, potente e perfetto. Magico, avrebbero detto.
Alla fine della sera, quando vennero le mamme a prenderli, si salutarono con sguardi nuovi e segreti: a domani.
L'indomani nella classe quarta C mancavano in sei: Michelino, Giaime, Peppetto, Luisi, Damiano e Bobòi.
Mentre la maestra segnava le assenze, scuotendo la testa, Giovanni Monni, padre di Michelino, camminava nel sole del mattino, con gli occhi a terra e il cuore sottoterra, costeggiando il boschetto di Pinnìa. Sapeva bene che non era verità, che era soltanto un'allucinazione, che era vergogna che un uomo grande come lui cadesse in queste mattane, e che ora sarebbe passato proprio in quel posto, avrebbe alzato gli occhi, e stavolta nessun bambino maledetto...
Mentre lui alzava gi occhi, sei mountain bike frenavano schizzando pietrine nella piazzola accanto alla sua auto, e sei bambini correvano giù nella scarpata con gli zainetti tintinnanti di giocattoli.
Nessun bambino? E invece eccolo lì. Giovanni Monni si fermò a distanza, crollò le spalle, lo guardò rassegnato e atterrito al tempo stesso. Quello sorrise di un ghigno malvagio e contento, che pareva dire: sorpresa! Vieni, amico, facciamo il solito gioco?
L'uomo chinò il capo e chiuse gli occhi, appannati di umiliazione.
Fu allora che sentì lo scampanio degli zainetti e i passi di corsa. Riaprì gli occhi e per un istante non capì: sei bambini, suo figlio e i suoi amici, irrompevano fra lui e il mostro, si disponevano a semicerchio, posavano gli zaini, li aprivano, ne estraevano ognuno il suo trasformer, lo puntavano contro il piccolo demonio gridando:
"Energon!", "Dinobot!", "Clench!", "Megaplex!", "Blaster!", "Blurr!"
Il bambino demonio li guardò, dai suoi occhi il ghigno scomparve, apparve sorpresa, dubbio, paura, dispetto, furore. Si trasformò in cinghiale gigantesco. Le auto, i camion, i jet nelle mani di Michele e dei suoi amici si trasformarono a loro volta: ali e parafanghi, portiere e fusoliere, tettucci e timoni si aprivano e diventavano gambe possenti, toraci corazzati, piccole teste luccicanti, braccia armate. Il cinghiale divenne un cavallo, poi un bue nero, poi un'immensa ragazza di fuoco. Il padre di Michele finalmente si scosse, si guardò intorno disperato, strinse i pugni in preda a una folle incertezza, poi corse accanto al figlio, frugò frenetico nel suo zainetto, tirò fuori un transformer, lo protese contro il mostro e gridò: "Defensor!"
Michelino si voltò verso di lui. Si sorrisero.
La ragazza di fuoco scomparve. I bambini e l'uomo restarono in posizione, annusando un odore di fango, di ferro, di sogni. Poi respirarono a fondo, misero via i loro amuleti, si avviarono verso l'auto e le bici.
"Chi era, papà?" chiese Michele.
"Un diavolo antico, molto pericoloso: Maskinganna"
Michele e gli amici si guardarono e ripeterono contenti: Maskingame.
Ma lo abbiamo battuto, se dio vuole. Non si farà vivo per altri cinquant'anni.
"Grazie, bambini".
All'indice
Home Page
Tricoshine
Scritto nel giugno 2007 per il libro di AA.VV., destinato ad adolescenti e giovani adulti, "Doppio misto", edito dal Centro di Documentazione Biblioteche per Ragazzi della Provincia di Cagliari, a cura di Teresa Porcella, Cagliari, ottobre 2007.
Da:
Intelligence and Trend Consulting Company
A:
Consiglio d'Amministrazione del
Consorzio Global Fashion & Cosmetics
URGENTE E CONFIDENZIALE
Roma, London, Paris, Madrid, Berlin, etc. 21 settembre 2010
Egregi Signori,
esporremo il problema con la chiarezza che esigono le circostanze. I rapporti ricevuti nelle ultime quarantott'ore dai nostri Trend Hunters, purtroppo, non lasciano spazio a dubbi: il fenomeno del "Tricoshine" (marchio registrato) si sta estinguendo prima che sia stato possibile accertare su che processi biochimici poggiasse, e come poterli riprodurre nella cosmesi industriale. Preferiamo essere drastici, benché ciò nuoccia al nostro incarico di intelligence: i capelli dei ragazzi si stanno spegnendo.
Riassumiamo brevemente il caso per i membri del Consiglio che non ne fossero compiutamente a conoscenza.
Circa nove mesi fa, in diverse città d'Europa, fra individui maschi e femmine dagli 11 ai 18 anni cominciò a verificarsi un fenomeno finora sconosciuto: i capelli acquistavano una luminescenza cromatica via via crescente per un arco di quattro-sei ore, per poi tornare al normale stato "spento". Il fenomeno si presentava solo dopo il calar del sole, solo quando i ragazzi si incontravano in numero maggiore di tre per vagare assieme nelle città, e a quanto pare solo se mostravano un rapporto di reciproca amicizia. I loro capelli, liberi o acconciati, lunghi o corti, chiari o scuri, prendevano a emanare una bioluminescenza simile a quella delle lucciole o degli organismi marini, ma assai più intensa e soprattutto di colori e sfumature variabili. Colori e sfumature che parevano differenziarsi per appartenenze scolastiche, sportive, musicali, politiche, territoriali, e altre a noi meno chiare. I ragazzi dei licei, per esempio, avevano i capelli accesi nelle sfumature dell'arancio e dell'oro, quelli degli istituti professionali variavano sui toni di viola e indaco, i cultori della musica oldest brillavano in tutte le tonalità del verde, quelli di sinistra nelle sfumature fra il vermiglio e lo scarlatto, quelli di destra fra il celeste e il blu, e così via. I ragazzi parevano non fare alcun caso al fenomeno, non innescarlo né interromperlo volontariamente, quasi non esserne nemmeno consapevoli. Semplicemente, quando più di tre individui fra gli 11 e i 18 anni, maschi e femmine e amici fra loro si incontravano, i loro capelli cominciavano gradualmente a splendere nella notte in armoniose variazioni dello stesso colore.
Abbiamo inviato sul caso i nostri migliori Trend Hunters, gli stessi che hanno tracciato fra i gruppi giovanili e consegnato alle industrie della moda le tendenze leader degli ultimi anni: i tatuaggi transpersonali, lo zoopiercing con insetti, i pantaloni trasparenti e i gioielli vegetali infestanti. Sfortunatamente, stavolta il processo di infiltrazione è stato ben più complesso. I nostri agenti non venivano accolti nei gruppi amicali perché i loro capelli semplicemente non si accendevano. Ci son voluti sei mesi per approntare squadre di Trend Hunters semi-inconsapevoli, ipnotizzati o sotto psicodroghe, che potessero entrare a far parte "veramente" di uno sciame amicale, e brillare nella notte con esso.
Cominciavano ad affluire i primi dati, e soprattutto i primi campioni di capelli in stato di luminescenza. I nostri laboratori cominciavano a rilevare la presenza di proteine ed enzimi bioluminescenti tipici delle lucciole e dei molluschi abissali; i nostri biosociologi stavano evidenziando processi di eccitazione empatica simili a quello degli sciami di api, che facevano pensare a una nascente capacità da parte di individui umani di modificare temporaneamente i loro corpi per renderli capaci di emettere nuovi e inauditi "segnali somatici" collegati all'amicizia.
Ma a quel punto il fenomeno, così com'è sorto, ha cominciato a calare rapidamente, ed è purtroppo ormai quasi estinto.
È quindi con grande rammarico che dichiariamo al Consorzio che a tutt'oggi non esistono le basi di conoscenza biochimica necessarie per progettare una linea globale di cosmetici, shampoo, lozioni e induttori genici del marchio sperimentale TricoshineÒ.
Rosso si stiracchiò pigro, staccandosi dal muro della pizzeria.
"Peccato. Era un sogno andare in giro con quei capelli luminosi nella notte. Tutti i toni dell'oro, bronzo e topazio della nostra Grande Famiglia!"
"Vero, era una meraviglia. Però ci stavano marcando. Mai visti tanti Vampiri in giro come in quei mesi"
"Già, i loro Cacciatori di Tendenze. Io non capisco come facciano: sono ragazzi come noi"
"Non come noi. Nessuno è come noi. Nemmeno noi"
"Non cominciare con le tue bollicine, adesso. Voglio solo vedere cosa faranno col nostro prossimo stile"
"Sì, e chi si stancherà prima"
"Andiamo, Rabbit. Kia e Marti ci aspettano in Piazza"
Il ragazzo e la ragazza si incamminarono.
Le loro suole lasciavano impronte bagnate, benché - notò la ragazza che li aveva osservati di nascosto bevendo una birra - non avessero calpestato alcun liquido: un trasudato dei loro piedi? La ragazza uscì a sua volta, li seguì.
Dopo trenta passi da quelle impronte cominciava a nascere una muffa azzurra, profumata, fumante. Altre impronte simili si univano e si incrociavano alle loro per le vie del centro.
Le ragazza attese che i due fossero lontani, si inginocchiò, passò un indice sull'unto di un'impronta e lo portò al naso, aspirando con stordita voluttà.
Ecco il prossimo stile. Era magnifico.
Poi urlò.
All'indice
Home Page
Le tre Mamme dei Monti
Tre racconti su tre siti minerari di Sardegna, scritti per la guida turistica per ragazzi "In un regno lontano lontano...", edito dall'Assessorato al Turismo della Regione Sardegna e dalla Cooperativa Tuttestorie, a cura di Claudia Urgu, Cagliari, luglio 2008.
1 . La Mamma Nera di Monte Arci
Si narra che molti millenni fa, all’inizio dei tempi, nell’isola di Sardegna i minerali spuntassero sulla faccia della terra come fiori o sorgenti, così che non c’era bisogno di scavare miniere.
Questo fulgido raccolto di tesori, si dice, cominciò su una Montagna Sacra alta e boscosa, che nella sua infanzia era stata vulcano: il Monte Arci. Questa storia racconta come ciò accadde.
In certe grotte abitate da uomini sulle pendici del Monte Arci vivevano due bambini, un maschio di nome Oxi e una femmina di nome Dian. Un brutto giorno d’un colpo solo i due avevano perduto padre e madre, e come imponeva l’orda, che aveva più figli da sfamare che cibo per sfamarli, furono abbandonati nella foresta. Gli uomini erano certi che sarebbero morti di fame e stenti in pochi giorni, e quindi molto si stupirono, e anche si spaventarono, quando li videro sgattaiolare fra le felci durante una battuta di caccia ben due mesi dopo. Quella notte nel cerchio del fuoco discussero a lungo, e conclusero che i due piccoli dovevano aver trovato una nuova mamma: forse la stessa Mamài Neranotte. E infatti così era accaduto.
Mamài Neranotte, a detta degli uomini, che molto temevano il buio, era un mostro sanguinario che viveva nelle selve della notte, cibandosi di buio e di rocce, di bestie e di uomini, o almeno di quelli che osavano allontanarsi dai fuochi nottetempo. In realtà Mamai era un essere buono e paziente, calmo e potente, per metà donna e per metà buio, con viso e spalle e mani nere e grandi, morbide nelle carezze, e schiena e piedi sconfinati, che si perdevano nel buio dietro di lei. Mamai Neranotte adottò i due bambini, li curò e li nutrì, insegnò loro a muoversi al buio per cacciare e sfamarsi, e a nascondersi all’alba in grotte profonde per salvarsi. Così i due bambini vissero per molti mesi.
Ma la paura rendeva inquieti i maschi dell’orda, e dopo un lungo consulto decisero di fare una caccia notturna, uomini e donne insieme, armati di lance e mazze, per uccidere quei due orfani stregati e la Mamai buia che li cresceva, e così liberarsi per sempre dalla paura. Facendosi coraggio con urla e canti partirono la notte stessa, con cento torce illuminarono la selva, e tanto la batterono e frugarono che infine trovarono le tracce dei bambini, e con esse la grotta in cui dormivano.
Ma la grande Mamai Neranotte giunse prima di loro, svegliò i due orfani, con parole misteriose annunciò che era giunto il suo tempo, che doveva morire per liberare gli uomini dalle paure e renderli più confidenti nel loro mondo, sotto il sole come sotto le stelle. Ma avrebbe fatto in modo di lasciare ai suoi diletti un tesoro prezioso: buio di notte che diventa roccia.
Dette queste parole li condusse fuori della grotta, dove gli uomini esaltati e impauriti li attendevano per ucciderli. E lì Mamai Neranotte apparve immensa, nera, paurosa al cospetto degli uomini, e lì urlò, danzò, cantò, levò le braccia e con un immenso ultimo grido cadde al suolo, spargendosi e spalmandosi e sparendo, come se fosse entrata nella terra, inzuppandola di buio.
Il più feroce degli uomini, non appena si riprese dallo spavento, urlò indicando i due orfani, che erano rimasti allibiti al pari di loro: "Pagherete per gli incantesimi di vostra madre!"
Nel gridare queste parole scagliò con forza la sua mazza contro Oxi, che si scostò con un guizzo. La pesante arma urtò la roccia dietro di lui. Era una roccia strana, nera e lucida, che nessuno aveva mai visto prima di allora, e sotto l’urto della mazza si spaccò, spargendo intorno schegge nere come il buio e lucide come l’acqua di un lago notturno. Il bambino, d’istinto, afferrò una di queste schegge e come l’uomo gli si avvicinò levando l’ascia la passò veloce sulla sua gamba nuda. Sbalordito, l’uomo vide aprirsi un taglio lungo e netto, da cui già stillava il sangue. Come aveva mai fatto, quel bambino? Non aveva sentito buco di freccia che punge o strazio di mazza che pesta le carni, ma solo un soffio che taglia…
Gli uomini distrassero la loro furia, si chinarono e raccolsero quelle schegge, maneggiandole con stupore. Non avevano mai visto niente di così affilato: neanche battendo e scheggiando per giorni una pietra si sarebbe mai potuto ottenere un raschiatoio così. Ma non era un raschiatoio, quello, era una cosa nuova, era… una lama.
Le madri dell’orda, da un pezzo ormai stanche di quella cieca e spossante furia, approfittarono della perplessità degli uomini per prendere i due bambini sotto le loro pellicce, intendendo con questo che volevano salvarli e nutrirli. L’orda tornò alle grotte, portando con sé una decina di quelle incredibili schegge di roccia nera, senza stancarsi di osservarle e commentare.
Nei mesi successivi scoprirono che quella pietra vetrosa e notturna affiorava a tratti per tutto il Monte Arci; impararono a spaccarla, scheggiarla, foggiarla, ne fecero arnesi nuovissimi e imbattibili, raschiatoi, grattatoi, lame e punte, monili, addirittura specchi. La fama di quella pietra giunse ad altre orde dell’isola, che vennero a barattare, e ad altri popoli d’oltremare, che approdarono con le navi a commerciare. L’orda divenne ricca e fiorente, si dedicò all’arte della pietra nera, che in onore dei due orfani, Oxi e Dian, chiamò Oxidiàna.
I due bambini, per conto loro, sapevano chi ringraziare per quel dono. Quella roccia prodigiosa era buio indurito, cielo notturno impietrito, era la carne stessa di Mamai Neranotte che si era fusa e mescolata nella roccia per il bene loro, che furono salvi, e della loro gente, che non ebbe più paura della notte. E sotto il sole, nelle officine industriose e risonanti di colpi di pietra e schizzare di schegge, quella gente per millenni prosperò.
2 . La Mamma Bianca di Monte Gonare
Ma ancora molto tempo doveva passare prima che gli uomini, oltre a raccogliere l’Ossidiana che affiorava in superficie, imparassero a scavare la terra per cercare nelle sue profondità gli altri tesori. Ed ecco quando e come iniziarono a farlo.
Narra un’antica leggenda che sulle pendici di un’altra Montagna Sacra di Sardegna, il monte Gonare, tre millenni dopo i fatti di Mamai Neranotte, vivesse una donna bellissima, alta e forte e di pelle candida come la luna, che per questo era chiamata Lunalatte. Come le altre donne, Lunalatte portava ogni giorno l’acqua dalla sorgente al villaggio, in grandi e pesanti brocche che lei e le compagne caricavano su un fianco, reggendole con la mano. Un bel giorno Lunalatte provò a caricare la sua brocca sulla testa, ponendo di mezzo una pelle attorcigliata a ciambella, e così scoprì di poter reggere con minor fatica pesi molto maggiori. E non solo: le movenze per equilibrare la brocca sul capo le davano un’andatura elegante e maestosa, che la rese ancora più bella e attirò ancora di più gli sguardi degli uomini.
Soprattutto si invaghì di lei il giovane figlio del capo del villaggio, che si accingeva a sposare la figlia del capo del villaggio vicino. Molto si spiacquero e si irritarono i due capi, quando seppero che la bellezza di Lunalatte rischiava di mandare a monte quelle nozze; e la loro irritazione divenne furia quando le donne, invidiose e bugiarde, riferirono che Lunalatte si era vantata di poter reggere sul capo ogni cosa, compreso il capo del villaggio. Fu sfidata a portare al villaggio un’enorme pietra. Passo passo, con viso altero e andatura ferma, lo fece. Fu sfidata a portare sul capo tre donne l’una abbracciata all’altra: con grande fatica ma senza dar segni di pena, lo fece. Come terza prova fu sfidata a portare sul capo fino al villaggio, in una notte di plenilunio, la luna.
E Lunalatte lo fece.
Camminò e camminò, con la luna in equilibrio sulla testa, senza fermarsi mai. Ma quando fu nella piazza e si fermò, il peso enorme che premeva la sua testa prese a ficcare pian piano nella terra i suoi piedi, e poi le gambe, e poi i fianchi, e le braccia e le spalle. Il giovane figlio del capo con l’angoscia nel cuore innamorato, e le donne del villaggio col trionfo nel cuore invidioso, videro Lunalatte sprofondare inesorabilmente come un chiodo, come una lancia, come una radice, nella dura terra.
Quando fu del tutto scomparsa, la luna spiccò il volo e tornò nel suo cielo, e in quella terra nessuna donna partorì più figlio o figlia per sette lunghissimi anni. L’ottavo anno i saggi del villaggio, avviliti e pentiti, comprendendo che quel brutto gesto era stata la causa della lunga carestia di bambini, ordinarono che si scavasse nel punto in cui s’era inabissata Lunalatte, per riportarla alla luce, renderle onore, implorarne il perdono.
Scavarono e scavarono gli uomini, per sette lunghi giorni, ma solo dura e sterile roccia incontravano le loro zappe di ossidiana. Finché a un tratto l’ottavo giorno, a grande profondità, quelle zappe cominciarono a tagliare una pietra bianca, pastosa, grassa, che pareva fatta di roccia di luna macinata e impastata con latte. Tutti ne furono certi: era il grande corpo bianco di Lunalatte che sottoterra era cresciuto, ingigantito, ramificato, gettando vene nelle cinque direzioni, spandendo nelle viscere del monte quel minerale nuovo e dolce e stupendo.
Gli uomini scavarono ancora, allargarono il fosso, lo trasformarono in gallerie e cunicoli per portare alla luce grandi blocchi di quella pietra bianca, che poteva esser tagliata e levigata con facilità in vasellami eleganti e resistenti alla fiamma più di ogni altra pietra. Ma il taglio che divenne più noto fu quello di una statuina, che riproduceva la donna Lunalatte non così com’era stata, alta e slanciata, ma come la tribù sognava che fossero le sue proprie donne, grassa e pregna, florida e incinta, ricca di seni e di vita, di figli, di luna e di latte.
Fu resa dea e chiamata Mamma di tutti, Mamma del Monte, Mèter Orèie, Mamai.
La maledizione pian piano si placò; con una statuina di Mamai Lunalatte nella nicchia di ogni capanna, le donne del villaggio ricominciarono a fare figli e figlie. Per rendere omaggio all’antica compagna e placarne lo spirito, le donne presero a portare le brocche d’acqua sopra il capo. Per molti e molti millenni lo fecero, e qualcuna ancora lo fa. La pietra bianca e tenera, figlia della sua bella e bianca carne, fu ancora scavata dalle miniere del Monte Gonare per molti millenni, col nome greco di Steatite, che vuol dire "pietra grassa".
Molti millenni dopo, un santuario alla Signora di Gonare fu eretto sulla sommità del monte. Onora una Donna Divina assunta in cielo, e forse ricorda una sua lontana nonna assunta in terra.
3 . La Mamma Colorata di Monte Albo
Altri millenni passarono. Gli uomini continuavano a scheggiare ossidiana nera e tagliare steatite bianca, ma ignoravano che cento altri metalli di cento altri colori, buoni a usi che fanno crescere le genti, attendevano nella pancia della terra. Questa storia racconta come accadde che lo scoprissero.
Il Monte Albo era un bastione roccioso lungo trenta chilometri, che si ergeva sulle terre lì intorno come una lunga onda bianca di spuma pietrificata poco prima di abbattersi. Ma non si abbatteva e al contrario proteggeva la grande pianura dai venti freddi, facendone una terra ricca di messi, di fiori e di frutti. Gli spiriti mostruosi e oscuri come Mamai Neranotte erano scomparsi da tempo immemorabile, e ora dee e deìne luminose governavano in pace le terre sarde. Una di esse, chiamata Tanìt dai sardi, Cèrere dai romani, e con altri nomi più segreti dalle donne, regnava sui raccolti, donava ai villaggi il grano, si compiaceva dei fiori di cento colori e dei frutti sugosi.
Si compiaceva anche di una figlia, una deìna bellissima adolescente, chiamata Broculìna dai sardi e Prosèrpina dai romani, nomi che nelle due lingue significano la stessa cosa: "colei che fa spuntare dalla terra". Infatti, quando solo Broculìna lo voleva, dietro i suoi passi spuntavano a vista d’occhio fiordalisi, peonie, gigli azzurri, e maturavano all’istante fichi, ciliegie, pere, prugne e ogni frutto.
Un giorno la deìna giocava con le compagne presso un piccolo lago alle pendici del Monte Albo, quando dalle acque d’un tratto, con un pauroso muggito e grandi schiume, emerse un dio straniero, nero ed enorme. Era il dio Ade dei reami sotterranei, chiamato Plouton, il Ricco, che ogni tanto risaliva dai suoi abissi erompendo dai laghi e dalle fonti in cerca di amori.
Per Broculìna, che lo guardava con occhi sbarrati, non ci fu speranza. La breve fuga fu vana: bianca e flessuosa com’era pareva minuscola, mentre si dibatteva sotto il braccio nero, grosso come una quercia, del dio latino che la portava via. In pochi istanti il dio scomparve nel laghetto e l’acqua lentamente si quietò.
Piansero le compagne della deìna, pianse Tanìt con loro, la dea madre, e strillò e inveì al cospetto del Padre di tutti gli dei. Ma non ci fu niente da fare: Plouton era un dio molto potente e neanche il Padre degli dei poteva togliergli ciò che ormai si era preso. Broculìna avrebbe vissuto per sempre laggiù, sotto cieli di pietra, senza mai più vedere il sole e sentire il vento.
Passarono alcuni mesi. Venne il tempo delle fioriture, e nulla fiorì.
I campi e i declivi dei colli si coprirono di strani sterpi, oscuri cespugli mai visti, merlettati di mille rametti molli e fini, ma nudi e sterili, senza una foglia, senza un fiore e senza un frutto.
I contadini, pur non credendo ai loro occhi, li riconobbero e infine dovettero ammettere: quegli strani cespugli mai visti erano radici. Radici all’aria, che crescevano all’insù, spingendosi verso il cielo anziché all’ingiù dentro la terra.
Le compagne della deìna confermarono ciò che tutti oramai avevano compreso: le piante stavano crescendo all’incontrario. Broculìna, Prosèrpina, "colei che fa spuntare dalla terra", era sottoterra: e piante e fiori spuntavano dal cielo per protendersi verso di lei. Uomini e donne tremavano di fronte a quella terribile cosa, contraria alle leggi del mondo, rabbrividivano al pensiero di steli delicati e di petali dolci che si facevano strada al buio nella terra pietrosa. Come era possibile?
La carestia infuriò per mesi e mesi, il bestiame moriva, i bambini si ammalavano, interi villaggi rischiavano di scomparire. Il Padre di tutti gli dei si allarmò, porse orecchio infine alle suppliche di Tanìt e impose al nero Ade, dio sotto le montagne, di lasciar libera la deìna che aveva rapito.
Ade Plouton dovette obbedire, ma nel farlo fece mangiare alla sua giovane amante i semi rossi del melograno, che in quei tempi remoti erano il segno del legame coniugale: Broculìna poteva partire, ma ormai era sua moglie e prima o poi doveva tornare da lui. Così si accordarono, Tanìt e Ade, che la deìna vivesse con la madre per tre mesi, i mesi delle fioriture, sotto i cieli, e con lo sposo dentro la buia terra per il resto dell’anno. Così accadde, per millenni e millenni, e così accade ancora: quando torna ogni anno Primavera, Broculìna Prosèrpina torna nel mondo di sopra, e ogni pianta può spuntare come natura comanda, dalla terra verso il cielo.
Ma alcuni giovani del villaggio di Lula, alle pendici del Monte Albo, svegli di mente e curiosi del mondo, ragionarono con le compagne della deìna e si domandarono: cos’è fiorito, però, sottoterra? Avevano visto coi loro occhi il prodigio di radici che ondeggiavano gambe all’aria, ma sottoterra? Che steli, che alberi, che frutti saranno spuntati? Presero zappe e picconi e scavarono il suolo.
Trovarono ciò che cercavano. I frutti degli alberi cresciuti al contrario, pietrificati, erano diventati sottoterra i ricchi frutti minerali della roccia. I fichi neri e teneri e pesanti furono il piombo, che gli uomini sanno squagliare con poco fuoco. Le ciliegie rosse e dolci furono il rame, tenero e bello per i gioielli e per le leghe. Le prugne azzurre furono lo zinco, che con il rame si fonde e fa amicizia nella più antica delle leghe inventate dall’uomo, il giallo ottone. E le bianche pere lucenti furono argento, tenero, chiaro e lucido metallo delle monete, dei monili, degli specchi.
Vicino al villaggio di Lula si scavò la prima vera miniera di Sardegna. I romani pochi decenni dopo se ne impadronirono, la ampliarono, la arricchirono di macchinari, vi portarono schiavi e prigionieri condannati "ad metalla", cioè a scavare e cavare quei frutti duri e colorati da sotto la terra.
Fra questi schiavi vi fu un gruppo di ebrei, deportati dalla terra di Giuda. Questi parlarono ai sardi e ai romani del loro Dio, che era un Dio strano e diverso. Era un Dio severo e solenne, che non perdeva il suo tempo a rincorrere le ragazze per i monti, e che in breve volgere di secoli sconfisse e cancellò quegli dei antichi, buffi e terribili, fatui e crudeli, che avevano regnato sul mondo.
Ma i loro doni rimasero agli uomini, sopra e sotto la terra.
All'indice
Home Page
Il Genio di Franklin
ovvero
La cattura dei Serpenti Scintilla
Un racconto sulla figura in gesso di Giulio Monteverde "Il Genio di Franklin" (Galleria d'Arte Moderna di Genova), scritto per il libro "Il Genio di Franklin", edito dal polo museale di Nervi nella collana "Sogno intorno all'opera", agosto 2008.
"Trappole! L’avevo detto io!"
Shawaye raggiava letizia da tutti i pori. Era sceso su quel comignolo in cui poco prima, durante il temporale, aveva visto imbucarsi e sparire un Serpente Scintilla di media grandezza. Ci si era posato sopra frullando le ali, s’era seduto a cavalcioni di una lancia di ferro che si levava dal fumaiolo verso il cielo, e ora esultava trionfante come se quel Serpente l’avesse catturato lui con le sue mani. Con una di quelle mani strinse forte una fune metallica che partiva dalla lancia e calava lungo il muro, e con l’altra fece un gesto irridente e imperioso alla bestia sparita là dentro.
"Adesso stai lì!"
Trappole: era quella la soluzione.
Un umano ci era arrivato, finalmente: doveva volare subito a dirlo a suo nonno.
Shawaye era un Pastore di Nuvole, alle sue prime armi ma bravo. Il nonno Shuyanti gli aveva insegnato bene: portava in giro nei cieli del mondo con pari destrezza le greggi leggere di Nuvole Pecorelle, le mandrie di bizzosi e pesanti Cirri Bisonti e i branchi lenti e rischiosi dei Nembi Mammuth. Il vecchio Shuyanti non si fidava ancora a lasciarlo da solo coi Cumulosauri Sovrani, veri giganti del cielo possenti e indomabili. Malgrado l’aiuto fidato di aquile e falchi, cani pastore dei pascoli celesti, coi Sovrani c’era poco da scherzare: solo il polso e la voce potente di un Pastore esperto poteva impedire a quei bestioni di gettare nella sciagura interi reami.
Per decine e decine di anni, planando al largo di terribili tempeste, Shawaye aveva osservato il suo amato nonno alle prese coi Cumulosauri infuriati. Il vecchio Shuyanti volava veloce e fluido fra zampe e cosce e colli giganti fatti di cupo vapore, cantando con voce d’argento così squillante e imperiosa da mettere i brividi perfino a lui, cui quella voce aveva cantato ninnananne. Le aquile e i falchi facevano del loro meglio, roteando e stridendo orribilmente intorno ai bestioni che si accingevano a scagliarsi uno sull’altro. Ma spesso non c’era niente da fare: i madornali esseri del cielo si scontravano, corna contro corna, fianchi contro fauci, zampe contro zanne, e da quegli abbracci furiosi scrosciavano giù sulla terra i Serpenti Scintilla.
Non che ci fosse alcun rischio per i Pastori, esseri fatti di vento che assumono forme diverse a seconda della storia che li narra. Il rischio era tutto per gli uomini, fatti di carne: i Serpenti Scintilla, che loro chiamavano Fulmini, si scagliavano sulla terra con furia e potenza immane, bruciando e schiantando case, alberi e cose, e spesso, troppo spesso, corpi e vite.
Shawaye fu il primo fra tutti i Pastori di Nuvole che si impietosì.
"Non possiamo farci niente?" – chiedeva al nonno.
"Non spetta a noi, spetta a loro" – replicava serio Shuyanti.
"Ma perché spetta a loro, nonno?"
"Perché loro patiscono il danno, e loro se ne devono difendere. E poi perché sono gli Uomini, le creature che cambiano il mondo, mentre noi siamo i Pastori, che conducono le nuvole nel cielo. Ad ognuno il suo compito"
"Va bene, però… poverini!"
Ma pensa e ripensa, a Shawaye venne un’idea. E guarda e riguarda dall’alto gli uomini in terra, vide infine uno scienziato di nome Beniamino che guardava in su ancor più di quanto lui guardasse in giù: quel Beniamino stava studiando i fulmini. Così una notte, mentre l’uomo dormiva, il Pastorello fatto di vento venne a soffiare e aleggiare alle sue orecchie, cantando questo canto.
"Tutte le cose hanno un’anima, dice mio nonno Shuyanti.
Tutto è animato.
Tutto è animale.
Basterà trattare quei fulmini come animali.
Come i brutti serpenti che sono.
Voi uomini ci sapete fare con gli animali. Vi ho visti.
I vasi per i polpi, le nasse per i pesci, le reti per gli uccelli, le gabbie per i topi…"
"Trappole!…" – mormorò Beniamino, agitandosi nel sonno.
"Trappole per Fulmini, esatto. Voi richiamate gli animali con le esche, qualcosa che attira, che piace. Cosa piace ai Serpenti Scintilla?"
"Le punte!" – gridò Benjamin Franklin rizzandosi di scatto sul letto.
Mentre si alzava per chiudere la finestra, da cui entrava un fastidioso refolo di brezza, gli bastò riflettere un poco e tutto fu chiaro: i fulmini sono attratti dalle punte, da ciò che è ritto in piedi sulla terra, alberi, pali, uomini…
"Se io metto una bella punta di ferro su un campanile, e un cavo di rame che la collega a terra, il fulmine ne verrà attratto, ci si avventerà, correrà come un pazzo lungo il cavo e si ficcherà disperdendosi in terra senza fare più male…"
"Trappole! – cantava allegro Shawaye volando veloce verso il suo cielo – Tutto è animato, tutto è animale. Le nuvole sono il bestiame del cielo, i venti sono i loro pastori, i fulmini sono serpenti, gli uomini son cacciatori e io sono… Shawaye, il Genio di Franklin!"
All'indice
Home Page
* ATTITU. La quartina che si legge in testa alla pagina è opera di una sconosciuta attitadora sarda, una popolana poetessa improvvisatrice esperta nel canto degli attitus, lamenti funebri per conto terzi. Sentendosi sul collo la commissione delle rime di compianto come un attentato alla spavalderia del canto ("Canta, che ti pago"), nel canto rivendica l'autonomia del canto:
né perdo né guadagno
voglio lo staio pieno
("a cuccuru", a cima, non "a raso")
né guadagno e né perdo.