Bruno Tognolini
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RIME E RACCONTI
D'OCCASIONE

Poesie e prose di diverso peso e pregio
Scritte su commissione di qualcuno




"Maridu anzenu prango
Né perdo né balanzo
A cuccuru du kerzo
Né balanzo né perdo."


(* Attitu, quartina di lutto di anonima)



Cápita talvolta a chi scrive di sentirsi richiedere prestazioni d'opera per questo o quello scopo. Io sono orgoglioso in genere di queste occasioni, perché in esse vive un antico mestiere. Del mestiere dello "scriba", del prosatore o poeta d'occasione, ho imparato questo: se io scrivo esattamente ciò che il committente vuole, il risultato sarà pulito, appropriato, e inutile a entrambi. Se io scrivo solo ciò che a me pare degno in quel momento, il committente - se sa fare il suo mestiere - lo apprezzerà, e me lo spedirà indietro. Se io scrivo entrambe le cose in tale modo però che siano una, quel testo per incredibile alchimia parrà Utile e Bello non solo ai due, ma anche a tutti gli altri. E respirando andrà ballando per il mondo.



RIME E FILASTROCCHE




RACCONTI







Giulia Orecchia

Questa storia mi è stata chiesta nel 1996 da due amici attori, Maurizio Cardillo ed Elena Musti, per certe loro letture d'attore che conducono, mirabilmente, nelle biblioteche per ragazzi. Maurizio mi parlava di una sua ricerca sui suoni, i loro nomi, le loro valenze narrative: e mi chiedeva un racconto utile a coinvolgere i bambini ascoltatori su questo argomento. Ed eccolo.


Questa è la storia di una bambina che aveva due grandi orecchie.
Vento che soffi, zitto: lasciami dire bene ciò che accadde.
Questa bambina, che si chiamava Giulia, aveva due orecchie grandi per davvero: a sventola, a portiere di macchina aperte, a Dumbo elefante volante, a tutto quello che la gente dispettosa dice alla gente orecchiuta in questi casi.
Ma a lei alla fine, di tutti i soprannomi, restò soltanto uno: Giulia Orecchia.

Giulia Orecchia, quando era piccolina, non si rendeva neanche conto della cosa. Giocava con le orecchione gigantesche come i bambini giocano con tutto: piegandole avanti e indietro, strizzandole a straccetto, riempiendole di nastri con fiocchetti.
Ma il gioco che le piaceva di più, a dire il vero, era usarle per ciò per cui son fatte: per giocare a sentire.
Chi ha due grandi mani acciuffa bene il mondo, chi ha due grandi gambe fa passi di cicogna, chi ha due grandi occhi ci vede in pieno buio: chi ha due grandi orecchie magari si vergogna perché si sente buffo oppure brutto, però ci sente bene e sente tutto.
Giulia Orecchia sentiva i temporali da lontano, avvicinarsi avvicinarsi piano piano, quando intorno il grande giorno era ancora così radioso di bel sole che nessuno avrebbe detto: pioverà. Lei invece girava un po' la testa, con le conchiglie radar puntate all'orizzonte, stringeva gli occhi per sentire meglio, e diceva alla mamma: - Sussurra.
Dopo dieci minuti: - Bisbiglia.
Dopo dieci minuti: - Borbotta.
Dopo dieci minuti: - Romba.
E dopo altri dieci gridava felice: - Spara! Scoppia! Scroscia! Scroscia!
E in quel momento era scoppiato il temporale.
Poi sentiva i motori delle auto, ma così bene, così chiari, così forti che sapeva riconoscere le macchine le une dalle altre, e dire: questa è la macchina di mamma, questa è un'Alfa Romeo, questa è una giapponese, questo è l'autobus ventisette, questa è la polizia.
E se vi sembra impossibile, perché a voi i motori delle auto paiono tutti uguali, allora pensate questo: che alle macchine, se avessero le orecchie, le nostre voci parrebbero tutte uguali, proprio come le loro paiono a noi. E invece le nostre voci son diverse, e se volete far l'esperimento, fate così: uno si mette con la faccia al muro, i suoi amici si avvicinano alle spalle, e uno alla volta apre la bocca e dice "aaaaa". Senza dire parole, perché le macchine non ne dicono, solo la voce che fa "aaaa", come un motore. E vedrete che direte: questo è Carlo, questa è Chiara, questo è Francesco, ad uno ad uno li riconoscerete.
Così faceva Giulia, con le voci delle auto nella strada.
E poi Giulia sentiva così bene, che sentiva cantare il suono del silenzio, anche se quel silenzio era lontano. Lei abitava in città, e in città, come sapete, il silenzio non c'è proprio mai. Anche ora, se stiamo in silenzio e ascoltiamo, ciò che sentiamo cos'è? Io sento: motori di macchine lontane, il ronzio del mio computer qui davanti, qualcuno che si muove di là, nell'altra stanza, il canto del vento (vento stai zitto, lasciami raccontare!). E voi, se state proprio tutti zitti, cosa sentite ora? Sentite silenzio?
Bene, ora pensate questo: immaginatevi in mezzo alla città, al decimo piano di qualche palazzo alto, in un balcone: e lontanissime vedete le montagne. Di sicuro su quelle montagne c'è un profondo silenzio, altro che qui. Beh, Giulia Orecchia quel silenzio lo sente da qui! Oltre le strade e i rumori delle auto! Come noi le montagne lontane le vediamo da qui, Giulia il loro silenzio lo sente da qui. Lei sente bene come noi vediamo!

Insomma, è inutile fare ancora tanti esempi: Giulia Orecchia ci sentiva proprio bene.
E un giorno, quando aveva sette anni, fece un sogno: sognò un vecchino cieco, che aveva tanto e tanto camminato da conoscere ormai ogni cosa del gran mondo. Ma siccome era cieco, e non aveva mai visto niente, il mondo lo conosceva coi rumori. E questo vecchino rideva, e diceva così:
- Giulia Orecchia, Giulia Orecchia
Senti senti la voce vecchia
Cerca cerca il Tamburo Nascosto
Che suona suona in ogni posto!
E ridendo, com'era venuto nel sogno, dal sogno se ne andò.
Giulia rimase colpita, e anche commossa perché quel vecchino assomigliava parecchio al suo caro Nonno, a cui lei era molto affezionata, e che invece era morto un anno prima.
Fatto sta che quel sogno non lo dimenticò, e anzi da allora cominciò a stendere le sue grandi orecchie più che mai, in ogni valle, in ogni strada, in ogni posto, in cerca del misterioso Tamburo Nascosto. Lo cercò, lo cercò, lo cercò...

Lo cercò nelle terre del primissimo mattino.
Qui abitavano rumori freschi e fini, che giravano con una giacchetta tra il rosa e il celeste, ed erano quasi sempre di ottimo umore: più che altro Uccellini, Serrande e Canzoni, Radioline, Venticelli e Portoni, Fischietti e Sbadigli.
A loro Giulia chiese:
- Avete mai sentito, da queste parti, il Tamburo Nascosto?
- Mai prima di adesso! - risposero i tipetti ridenti, e scapparono via.
"Mai prima di adesso"? Ma cosa vorrà mai dire? Giulia Orecchia ascoltò ancora un poco di quel bel posto allegro, e se ne andò.

Poi cercò nelle terre del bosco, dove abitavano rumori pelosi o squamosi o piumosi, che si chiamavano Muggiti, Grugniti, Bramiti, Belati, Latrati, oppure Schiocchi, Sibili, Trilli, Fischi e Zirli. Senza contare settanta diversi Ronzii. A tutti questi rumori con nomi buffi, e con facce più buffe ancora, Giulia fece la stessa domanda:
- Avete mai sentito, da queste parti, il Tamburo Nascosto?
- Sempre, in ogni istante, dappertutto! - le risposero loro, e correndo volando strisciando scapparono via.
"Sempre, in ogni istante, dappertutto"? Ma cosa vorrà mai dire? Giulia si grattò un po' una grande Orecchia, si ascoltò un altro po' intorno, e se ne andò.

Poi cercò nelle terre della notte cittadina.
Qui, a dire il vero, ebbe un po' di paura: c'erano in giro dei suoni con certe facce! Dalle macchine che viaggiavano di notte, coi finestrini aperti, venivano fuori delle specie di scimmioni tutti in fila, senza occhi, tutti uguali, con le facce cattive e cretine. Che per esempio facevano: "Tùnci tùnci tùnci...", e avanti così. Ma per fortuna poi veniva il verde, e quei mostri scappavano via, a far danni da qualche parte della notte.
Allora però si sentiva colare da mille finestre una specie di minestra di rumori, fatta di pezzi di teste e sorrisi e vestiti e pistole e porte e sirene e risate e orchestre: ma tutti passati come al macinino, sbriciolati fini fini e mescolati.
A farla breve, in questo regno di suoni dell'orrore a Giulia passò la voglia di chiedere niente, e le venne addirittura un po' di nausea. Per cui se ne andò.

Cercò allora nel Posto del Sonno, e qui trovò.
Il Posto del Sonno era un bel posto buio, che lei conosceva, ma non sapeva bene dove fosse: quando voleva bastava addormentarsi, e si trovava lì, senza sapere come mai ci era arrivata.
Non era il Posto dei Sogni: era il Posto del Sonno. Forse le piaceva tanto perché faceva rima col Nonno, e al suo Nonno quel posto assomigliava: zitto, lento, strano, ridente, sapiente. E per parlare col suo Nonno lei ci andava, dopo che lui era morto, ad ogni notte, e lo trovava sempre lì, come un abbraccio.
Ed eccolo anche stavolta: si gira, si rigira - che Sonno! Ciao Nonno! - si volta, si rivolta... ascolta...
E sarà stata la testa sul cuscino, un modo insolito di pigiare quelle orecchie, o il sangue che girava in modo strano, o chissà cosa: fatto sta che cominciò a sentire un rumore nuovo, un suono dolce che si sentiva dappertutto, come di buffo tamburo, battuto con un bastone morbido, e che non si fermava mai mai. Allora si mise una mano sul petto, e anche la mano sentì cantare quel Tamburo.
E allora Giulia capì, e dormì, e sognò.
Il Nonno, in uno di quei lunghi pomeriggi cittadini, in luglio, prima di andare in ferie al mare, le diceva una bella poesia, che faceva più o meno così:

Ta-bum ta-bum, ta-bum
Ma dove sei nascosto
Tamburo che io sento
Suonare in nessun posto
Non mi vedi, padrone
Perché sono il bastone
Il tamburo sei tu
Ta-bum ta-bum, ta-bum

Se fai la prova e batte anche a un piede solo
Ad occhi chiusi poi batte lo stesso
Batte lo stesso perfino a testa in giù
Ma se corri e rincorri come adesso
Batte ancora di più

Ta-bum ta-bum, ta-bum
A un anno è piccolino
è come un moscerino
Ma quattro anni dopo
è svelto come un topo
A dieci anni è matto
E furbo come un gatto
A venti anni ha fame
E sonno come un cane
A trenta ha il mondo in groppa
Cavallo che galoppa
Cinquanta è un lento bue
Va per le strade sue
A settanta è pesante
Come un vecchio elefante
E dopo?
Chi viene dopo l'elefante?
Dopo di lui c'è solo la balena
Che fa zampilli nella luna piena

Ciao Giulia Orecchia. Ciao Nonno Balena.
E adesso puoi soffiare, vento, perché ho finito.



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Ciao Anastasia!

Questo racconto mi è stato chiesto nel 1998 per una grande festa delle Banche del Tempo di Bologna.


L'Anastasia i tortellini sapeva farli proprio ma proprio bene, con ottant'anni di esperienza in fin dei conti, visto che aveva incominciato a attorcigliarli quando ne aveva sei. Ora ne aveva ottantasei, camminava bene in giro per la casa, la figlia Anita veniva ogni due giorni con la spesa, aveva un cagnetto, qualche buona vicina, tutto a posto.
"Quasi" tutto a posto.
Una cosa non andava mai a posto: il tempo. Tutto quel tempo, quanto tempo!
I giorni tutti uguali tutti in fila, come bravi soldatini: lunedì, martedì, mercoledì, perepè, uno-duè, pàsso!...
Le belle ore perline di collana: mattina, mezzogiorno, pomeriggio, notte, mattina, mezzogiorno, pomeriggio, notte...
Le settimane signorine, i mesi giovanotti, le stagioni belle donne, gli anni signori anziani, tutti lì a passarle davanti al naso, ma dove andranno accidenti a loro, non ce n'è uno che ritorni indietro.
Insomma, di tempo Anastasia ne aveva fin troppo, non sapeva più dove metterlo. Un giorno sentì dire questa storia della Banca del Tempo, dove uno deposita le ore che ha libere, dice che cosa sa fare, e quando qualcuno lo chiama va e lo fa. In cambio, può prelevare ore di altra gente che sa fare altre cose: insomma uno scambio di ore e di abilità.
Ad Anastasia avevano sempre detto che la cosa che le riusciva meglio al mondo erano i tortellini: si mise il fazzoletto, andò alla Banca del Tempo, e depositò duecento ore-tortellino.
E queste duecento, negli anni, crescevano ancora perché, chissà perché, nessuno ne prendeva fuori tante. Non la chiamavano spesso a far tortellini. O che avessero paura di ingrassare, o che avessero ormai il gusto di amburgher in bocca e volessero sentire sempre quello, o che chissà che... Fatto sta che le ore-tortellino di Anastasia, in tre anni, divennero cinquecento. E lei aveva sempre tanto tempo, da passare: le ore collanine, settimane signorine, i giorni soldatini tutti in fila...
Uno di questi giorni, bli-bli-bli: suonò il campanello.
- Chi è? - chiese al citofono Anastasia.
- Sono la Morte, Anastasia, venga giù.
- Come la Morte? Possibile? È già ora?
- Sì. Come si sente?
- Bene, e lei?
- Insomma, non c'è male. Venga giù.
- Venga su lei, devo dirle una cosa. Non è che non voglio scendere, sa, ma c'è un problema...
Anastasia spiegò alla Morte il suo problema: aveva in Banca cinquecento ore! Lei quel tempo l'aveva promesso! Non era colpa sua se nessuno lo prendeva. Come poteva ora andarsene così, non era corretto! Prima doveva estinguere quel conto.
- E come si può fare? - chiese la Morte.
- Bisogna che qualcuno prenda fuori dalla Banca le mie ore.
Ma siccome nessuno le prendeva, e non potevano aspettare gli anni, quelle ore la Morte decise di prenderle lei.
E fu così che l'Anastasia Guidi preparò i suoi famosi tortellini per la forchetta della Morte Secca.
Dieci ore, venti ore, dieci chili, venti chili, dieci cene, venti cene, trenta giorni...
Il tempo passava, il conto calava, la Morte mangiava, e Anastasia tirava la pasta .
Ma una cosa bizzarra a quel punto cominciò a capitare: la Morte Secca cominciò a ingrassare.
Dopo cinquanta giorni non era più uno scheletro crocchiante.
Dopo cento aveva gambe fini fini come certe modelle.
Dopo duecento, era un bella signora, alta, bel portamento, capelli rossi, che gli uomini per strada cominciavano a farle la corte. Lei era lusingata, non c'è dubbio, ma fare la corte alla Morte? Andare a ballare con lei? Un bel pasticcio.
Insomma la cosa non poteva andare avanti.
- Quante ore sono rimaste, Anastasia? - chiese un giorno la Morte sazia, allontanando il piatto.
- Cento.
La Morte, dato che ora poteva farlo, impallidì.
- Cento! Oh povera me!
- Beh? Cos'è? Non ti piacciono più i miei tortellini? - chiese Anastasia, che ormai le dava del tu.
- Sorbole Anastasia! E non lo vedi se mi piacciono? Guarda qua che bei coscerloni!
No, il problema non era quello. Le due ne parlarono assai seriamente, Anastasia capì, sospirò, ed accettò il seguente compromesso: avrebbe lavorato duramente, dieci ore al giorno, e ogni giorno avrebbe venduto montagne di tortellini al ristorante di Via Pighi. E dopo dieci giorni...
Dopo dieci giorni, puntuale, e già un po' più magra a patita, la Morte si presentò.
Saluti, baci, feste, e cosa hai fatto, e dove sei stata, e chi hai preso, insomma: due grandi amiche che dopo un bel pezzo si trovano insieme. E insieme, a braccetto, dopo un po', se ne vanno per via.
Ma passando da Via Pighi la Morte si ferma di fronte al ristorante, annusa, fiuta, sospira, e dice: entriamo.
Che impressione mangiare i tortellini di Anastasia sedute al ristorante, col Sangiovese, i grissini torinesi, e il cameriere Piero che fa l'asino con quella bella donna rossa:
- Non far l'asino, Piero, lascia stare!
- Già, se ci tieni alla pelle!
E giù risate, come vecchie amiche.
Poi eccole che escono, e si avviano per via Pighi, a braccetto, passo passo, un po' di onde per l'età e il Sangiovese. Sono ormai all'altezza di Vicolo Stretto quando sentiamo le ultime frasi:
- Ma cosa ci hai fatto poi, coi soldi dei tortellini che ti ha dato il ristorante?
- Beh, ho regalato un computer alla Banca del Tempo: così si sa meglio chi offre e chi chiede, e le ore non si accumulano tanto.
- Hai fatto bene.
Da lì in poi non sentiamo più niente.
Dopo un poco, imboccano Vicolo Buio. E non le vediamo più.
Ciao Anastasia!
 

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Il corno portasforuna

Questo racconto breve mi è stato chiesto nel 2001 da Maria Vago per il mensile per bambini "CIAO AMICI" (Messaggero di Sant'antonio). Doveva inserirsi, con altri di altri scrittori, in un numero speciale sulle superstizioni: la scelta dei temi era oramai ristretta, e m' è toccato "il cornetto". Ecco una piccola fiabetta apocrifa e divertita sull'origine di quel culto.


Una volta tutte le bestie, compreso l'uomo, così come avevano due gambe, due occhi e due orecchie, avevano due corna sulla testa. Gli uomini al solito ne andavano fieri, ingioiellandole di fiori e conchiglie. Le usavano per spostare pesi, stringersi fra innamorati, scornarsi coi nemici; facevano capriole sulle corna e tornei con un cerchio di legno, che si infilava e rilanciava con un guizzo.
Un bel giorno, però, insuperbirono. E come ogni tante ere usano fare, lanciarono la sfida al loro dio, che era una grande luna cornuta: "Ora saliamo e ti tiriamo giù di lì".
Cercarono alleati tra le bestie, facendo il giro dei boschi a reclutarle. Quasi tutte si montarono la testa e si unirono a loro. Solo gli erbivori placidi - buoi e bisonti e zebù, cervi e gazzelle e capre e tutti gli altri - girarono la testa ruminando: "Vi romperete le corna".
Gli umani non se ne dettero ragione, e costruirono una torre vertiginosa fatta di schiene pelose e teste animose, incastrate corna su corna fino al cielo.
Ma il dio luna, che ne sapeva una più di loro, vedendoli arrivare si gonfiò, divenne tonda come mai era stata. Per lo spavento la torre vacillò, e infine crollò. E i conquistatori ne furono scornati.
Nella caduta si ruppero tutti le corna così malamente che queste non crebbero più. I cumuli di corna stettero lì per millenni, e il vento li sommerse di terra, e divennero monti. Per la vergogna i più superbi tra i vinti, gli uomini e i leoni, si fecero crescere gran chiome per nascondere quelle teste disonorate.
E piano piano, eternità dopo eternità, gli umani scordarono tutto.
Ma da allora cominciarono a mangiarsi, fatte a bistecche, le bestie traditrici che non li avevano aiutati nell'impresa (solo ora i buoi si stanno vendicando). E da allora portano corni appesi addosso, con la scusa della fortuna: mentre forse, chissà, gli ricordano quei tempi fortunati, quando bastava dare una scrollata di testa per tirar giù le frutta dai rami.
Ora invece si sposta solo il ciuffo. Peccato, però.

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Conchiglie stereo

L'inserto "Specchio" de "LA STAMPA" del 10/11/01 è stato dedicato ai bambini, con una collana di racconti originali scritti da autori come Bianca Pitzorno (che ha anche coordinato il numero), Roberto Piumini, Silvana Gandolfi, Donatella Ziliotto, e altri. Ogni racconto verteva su un tema, distribuito da Bianca Pitzorno: a me è toccato, come altre volte, il tema della tecnologia. Ecco il mio svolgimento.


Valentino aprì con cautela lo zip del marsupio inzuppato di mare, mentre Maria coi due occhi ben aperti e Pamela a cavallo del suo Draco non distoglievano gli occhi da quei gesti. Il mare strisciava onducce con aria innocente, come per far dimenticare la tempesta furiosa della notte prima.
- Deficiente! - disse Pamela, sputando su un'onda.
- Pamela, piantala. Sai che è meglio non offenderlo.
- Gro. - disse Draco.

tre bambini erano nell'isola deserta ormai da un mese, e se la cavavano bene. Il più grande si chiamava Valentino, dieci anni, gran costruttore di aggeggi, primo secondo e terzo della classe: era lui l'ingegnere scienziato della compagnia, addetto alle spiegazioni delle cose così come sono, e alle loro trasformazioni tecnologiche. Dopo veniva Maria Mezzomondo, otto anni, detta così perché aveva la doppia vista: con l'occhio destro vedeva la realtà e col sinistro, chiudendosi il destro, il mondo di fiaba; e infatti era addetta alla fantasia, a immaginarsi le cose diverse da com'erano, e così trovare sempre altre soluzioni. E infine c'era Pamela, detta Pam, sei anni, che vedeva e sapeva il giusto, ma non aveva paura di niente: in un mese aveva addomesticato un varano di tre metri, che cavalcava come fosse la sua bici, chiamandolo Draco; Pamela era addetta al coraggio, proprio lei, la più piccola, ultimo bastioncino per chi si perdeva d'animo nella sciagure.
Ora Pamela e Maria fissavano le mani tremanti di Valentino, che vuotava quel povero marsupio buttato lì dal mare infuriato, relitto di qualche naufragio come il loro. Sì, forse... non volevano sperare, ma... sembrava proprio il borsino di un vecchio: un programma di viaggi per pensionati, una calcolatrice in Euro, un tubetto di grosse pastiglie, un pacchetto di caramelle tutte sciolte, una scatola per la dentiera, un astuccio per...
- ECCOLI! Ci sono! Ci sono!
Gli occhiali da presbite vennero fuori dall'astuccio, perfetti e scintillanti come un gioiello del potere. I tre danzarono per sei minuti sul bagnasciuga, sotto lo sguardo da vecchio preside di Draco. D'ora in poi, con quel sole spietato dei mari del sud, non avrebbero avuto problemi per il fuoco: un po' di foglie ben secche, i raggi più caldi del giorno concentrati da quelle lenti spesse, ed era fatta: luce anche di notte, bel calduccio durante i temporali, pesci e molluschi arrosto profumati e sugosi e non viscidi crudi e schifosi...
- E non solo! - continuò Valentino - Se mi riesce di fondere certi gnocchi di resina che ho visto sui tronchi, riusciamo a incollare un sacco di aggeggi, e forse a calafatare anche la zattera.
- Calafache?
- Calafa... uff: chiudere le fessure con una pasta che si secca, e che non fa entrare l'acqua.
- Bra. - disse Draco.
E i tre bambini se ne andarono al rifugio, reggendo quei nuovi tesori come santini in processione. Nel passare davanti alla Porta della Fine del Gioco stettero muti come sempre e gobbi, ma poi ripresero ad andare baldanzosi, cantando "Siamo gatti, beati noi!".
Si lasciavano dietro sulla sabbia due sentierini d'orme di piedi, con in mezzo la scia a esse della coda di Draco.

L'indomani, a mezza mattina, ciascuno era intento ai suoi compiti. Valentino aveva diviso il pastone fuso delle caramelle in tanti pallini, che aveva messo a seccare al sole: sarebbero state dosi dolcificanti per il latte di cocco un po' acido, ma anche pillole energetiche di zuccheri pronto-uso per i momenti di fatica intensa. Ora faceva esperimenti con le grosse pastiglie del tubetto, che si erano rivelate prodotti per dentiera: voleva riuscire a farne, diluendole, un disinfettante per le loro frequenti ferite. Più tardi, tagliando a striscioline la lamiera dell'astuccio degli occhiali, e tendendole in archetti di legno, contava di fabbricare lame a seghetto per cibi e vesti e foglie ed ogni uso. E l'indomani avrebbe tentato di espandere la calcolatrice d'Euro col chip del suo orologio digitale, per vedere se il sistema evolveva in qualche specie di computer.
Maria Mezzomondo, dal canto suo, sedeva sul solito scoglio guardando il mare, con la mano sull'occhio destro e alle orecchie le sue conchiglie stereo. Aveva legato con filamenti d'alga due grosse conchiglie alle punte del suo cerchietto fermacapelli, che chissà come s'era salvato dal naufragio: e ora ascoltava, con quella cuffia stereo tecno-magic, le strane musiche sottomarine e i canti di balene lontanissimi che riusciva a sentire solo lei. Intanto, con l'occhio della fiaba, scrutava l'orizzonte: che non passassero velieri per salvarli, o prenderli schiavi; o balene per portarli sopra le vaste groppe fino a qualche continente abitato; o isole vagabonde, o piroghe di Maori, o navette stellari; e insomma che non spuntassero, per quella loro storia, altri destini strabilianti, cui lei era addetta.
Pamela infine cacciava per il pranzo, sgridando a gran voce il suo varano perché non voleva imparare a correre come le lepri; e poi saltando giù, piantandolo lì, e inseguendole di persona velocissima, con la fionda che roteava sulla testa. Anche quel giorno, c'era da contarci, ci sarebbe stato un bell'arrosto tropicale per il pranzo, cui lei era addetta.
Invece quel giorno l'avventura finì lì: la Porta della Fine del Gioco si aprì, la mamma mise dentro la testa e disse che il pranzo era in tavola. Niente arrosti di lepri o pesci, niente mango e papaya, niente latte acido di cocco addolcito con le nuove perline Sugar di Valentino: ma gli spaghetti e le cotolette e le patate fritte vere della mamma ebbero lo stesso un'ottima accoglienza.

Dopopranzo c'era un programma di scienza alla TV: diceva che la tecnologia era importantissima per l'uomo, ma senza il coraggio di andare a ficcarsi nell'ignoto, senza la fantasia di vedere le cose diverse da come sono, di immaginarne gli effetti lontani, buoni e cattivi, la tecnologia non serviva a molto. Anzi: c'era un gran rischio che andasse a finir male.
Ecco perché - si spiegarono più tardi i tre, confabulando - quando a quel gioco giocava da sola Maria Mezzomondo, che era troppo fantasiosa, finiva in un posto magico dove poteva accadere di tutto senza sforzo, solo chiudendo gli occhi, e si annoiava perché non c'era tanto gusto. E quando giocava da sola Pamela Pam, che era troppo coraggiosa, finiva in un mondo desertificato, un dopo-ozono, o dopo-serra, o dopo-bomba, dove la tecnologia senza immaginazione aveva fatto saltare tutto in aria. E quando giocava da solo Valentino, che era troppo ingegnoso, finiva in un'officina, punto e basta.
Insomma, la cosa migliore era giocare in tre, pensarono i tre, guardando la Porta dell'Inizio del Prossimo Gioco: dopo i compiti, ci saranno altre avventure.

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Madre nostra Maria Minerale

Un racconto (non per bambini) sulla vita dei minatori sardi, scritto per il libro di AA.VV. "Sonos 'e memoria", a cura di G.Cabiddu, marzo 2003 (il libro verrà edito nel 2009).


"Madre Nostra che sei nella terra, Dura Madre che sei nella pietra, dimmi tu in che buio è chiuso il mio adorato.
Minatore che scassi le vene del monte, manovale che sgombri la roccia sfasciata, arganista che sollevi i vagoncini, tiratemelo fuori da laggiù.
Che un giorno al lavatoio le mie mani, queste pietre che toccano pietre, sentano con una fitta spaccacuore la rotella del suo ginocchio, la ramaglia della sua mano, la conchiglia della sua adorata fronte…"


Più o meno così pregava muta Maria Pani, operaia cernitrice di miniera. La sorte l’aveva portata a cadere in amore di un suo compaesano cugino, operaio armatore, sposato, che aveva risposto ai suoi sguardi. Le compagne in laveria, Adelina, Bonaria, Fortunata, quegli sguardi li avevano colti, nei momenti d’incrocio in piazzale dopo l’appello, quando la squadre andavano alle gabbie; e tacevano torve, perché in miniera la polvere di pietra deve fare dimenticare d’esser donne, e per una che se lo ricordi è gelosia. E poi lui era parente, e poi sposato: solo Mundica Muru, riso di melagrana, la riscaldava con risate grandi, da femmina canaglia mezzo matta.
Tre anni erano passati, durante i quali quell’amore avrà trovato, forse sì e forse no, i suoi momenti e i suoi angoli nascosti per farsi, sotto le croste di pietra, un poco carne.
Ma poi l’armatore Concas Vittorio era morto schiacciato sotto un cedimento, e Maria Pani s’era buttata a lavorare.

– Guarda, Zicchirijola: anche con questo tempo. Non gli ho visto fare mai niente di simile in mille anni che vivo qui.
Affacciandosi al bordo della domus, Zicchirijola sorrise e scosse il capo.
Le due janas continuarono a fissare il gruppo nero dei minatori guspinesi, che andavano gobbi sotto la frusta della pioggia, prima dell’alba, nel buio della valle. Le donne si stringevano agli scialli, si aiutavano a vicenda nel guadare pozzanghere larghe ormai come un rio, mormoravano a labbra ferme rosari e rime di scongiuro contro i lampi. Gli uomini reggevano lampade a carburo inutili, spente dall’acqua, e inutili ombrelli a giostra rivoltati dal vento. I piedi scivolavano nel fango, le mani s’indurivano, dolenti di geloni. Nessuno imprecava, nessuno parlava, nessuno sostava: andavano, come una mandria smemorata che ignora ogni ostacolo e va.
– Quei nani stanno scavando troppo in fondo – continuò cupa la Prinzipalissa. – Non c’è quello che cercano, laggiù. E se continuano a scavare, invece, troveranno ciò che è meglio non trovare.
– Cammina, Maria, sempre indietro stai! – gridò più in basso il capo fonditore Antioco Peis, che faceva da guida al gruppo. – Un giorno non mi girerò più a vedere se vieni.
Zio Peis si voltò imprecando e riprese la marcia gobba nella pioggia.
Maria lanciò un ultimo sguardo in alto, verso le orbite buie delle domus, poi si volse e accelerò, congiungendosi al gruppo.
Da quando l’operaio armatore Concas era rimasto morto, Maria Pani era diventata un peso per tutti, tranne che per la Direzione. Sempre torva, sempre muta, sempre al lavoro. Aveva chiesto lei stessa di spostarsi alla griglia, per guadagnare di più. Aveva fatto tre anni d’inferno: i vagoncini arrivavano uno via l’altro, rovesciavano il minerale nella griglia e lei con la marra, a forza di braccia e in fretta, doveva farlo scivolare nel fornello, perché già un altro vagoncino sferragliava. Faceva il lavoro di due uomini, per otto ore, la direzione gliene pagava dieci. Alla fine della giornata aveva gli occhi rossi per la polvere, la gola arsa, il corpo teso come una corda. E alla fine dei tre anni di griglia aveva braccia gonfie di muscoli come quelle di un uomo.
Ma la trasformazione più grandiosa era nelle sue mani.
Nei sei anni passati al lavatoio, arrivando dopo la marcia nella notte, le mani dure e rosse per il gelo non eran pronte a toccare minerale: ma dovevano prenderlo, invece, sceglierlo, voltarlo, lavarlo, blocchi scabri che spaccavano la pelle come terra in stagione d’arsura. Anche lei, come tutte, si fasciava le mani di stracci, ma la polvere secca filtrava dovunque, si annidava nelle pieghe, cementava le ferite, induriva e conciava negli anni la pelle sana.
Che carezze avrà sentito, povero amato suo, poveri agnelli, nei frettolosi atterriti incontri fra i cespugli: mani di pietra che raspano guance, cercando un libano nemmeno mai sognato.
Alla sera, a casa, le donne si spalmavano le mani con grasso di pecora.

– Hai visto, Signora, ha guardato di nuovo! – cinguettò Zicchirijola, volgendo il viso acceso alla Prinzipalissa.
– Non c’è niente di cui rallegrarsi – la fata anziana tagliò corto, – né per lei né per te.
Le janas di tutta la zona li tenevano d’occhio da anni, quei minatori che bucavano il monte. Non era più com’era sempre stato, un selvaggio grattare la crosta con pietra su pietra, con ferri di mazza e di picco, per buchi effimeri poi presto abbandonati. Ora altri uomini venuti di lontano avevano portato attrezzi grandi, fatti di molto ferro, creature fragorose sconosciute, che scavavano in fondo.
Livello Scala, livello Colombi, livello Madama, da trecentonovanta metri sopra il mare: ogni tanto dal buco di spada verticale lanciavano tunnel che trafiggevano il monte in piano, li armavano con arcate di legno, e frugavano lì.
Livello Ignazia, livello Enedina, livello Estella, ottanta metri sopra il mare: scassavano la carne del monte con scoppi profondi di mina, tuoni neri soffocati nella roccia, che facevano tintinnare i telaietti d’oro e i pentolini dei tesori nelle domus più basse.
Livello Mezzana, livello Donegani, e infine livello Sartori: il sedicesimo, il fondo del pozzo, a centotrenta metri sotto il mare e cinquecento metri dentro il monte.
– Ci sei scesa al fondo, stanotte? Quanto hanno fatto?
– Hanno fatto otto braccia.
– Ancora settecento al Cuore Nero.
– Signora, ci arriveranno?
– Non ci arriveranno. La vena che seguono è ricca: sono loro che sono poveri. E avidi. La ricchezza che tirano fuori non gli basta a soddisfarle tutt’e due, quelle due corna di povertà e avidità. E presto poveri e avidi s’incorneranno.
– Che lo scorno se li porti via.
– Se li porterà.
– E Maria Manidipietra? Cosa facciamo? Sta guardando le domus da tre mesi.
– Lasciala stare, Zicchirijola, ne abbiamo già preso sette in questa era.
– È quello che dico: sono cent’anni che non ne prendiamo una. E questa è bella.

Maria Pani era stata graziosa, a sedici anni, appena arrivata in miniera. La fronte calma lambita dalle onde delle sopracciglia, gli occhi di mora orlati di piume di corvo, la bocca piena come una parduletta, appena imbronciata, la gola tenera appena un po’ grassa; il viso, incorniciato dal molle fazzoletto, stava chino sul seno colmo, chiuso nel maglioncino, e sulle mani posate sulle pietre.
I sorveglianti si tenevano a freno, perché temevano la spia delle compagne e i castighi dei caposervizi continentali, molto duri coi casi di molestia d’amore fra sardi. Ma i loro sguardi, che lei ignorava caparbia, fumavano forza di caldo come l’arrosto che sfrigge sulla brace.
Dopo sei anni da cernitrice al lavatoio le sue mani erano già conciate, e il viso era teso e stanco, ma ancora bello.
Nel settimo anno ebbe un infortunio: era al crivello, e mentre stringeva il setaccio fra le mani una puleggia si sganciò, frustandole con forza la faccia e sbattendola a terra. Quando rinvenne vide due compagne chine che la sventolavano assurdamente con una cartolina, e sentì in bocca, col sapore del suo sangue, due denti suoi che stava masticando, e che piangendo sputò.
La portarono a piedi a Spianamento, all’ospedale di Gennas, per cucirle la bocca spaccata. Il medico della miniera le diede cinque giorni di malattia. Dopo due mesi le arrivò un risarcimento in quattro rate da cinquanta lire l’una. Non aveva mai visto tanti soldi, e non ne avrebbe visto mai più.
Le sue labbra rimasero scassate da una grossa cicatrice, il sorriso aveva un pozzo di due denti.
Ora come lo baci, il bell’amore? Con la brutta miniera della bocca?
E come lo accarezzi, Maria Pani? Con le mani di pietra che sanno di grasso di pecora?

"Io sono innamorato di tutte le signore che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine – le dita senza guanto – scelgon la pasta. Quanto ritornano bambine!"

Guido Concas leggeva con occhi vacui quelle righe, che non gli dicevano niente.
L’odore di umido e muffa della Biblioteca Universitaria di Cagliari si acuiva dopo il tramonto, per gli spifferi del maestrale che premeva sui vetri fermati con nastro di carta.
Entro la sera doveva finire questo Gozzano, che portava il suo stesso nome di battesimo.
"Nato a Torino nel 1883, si era iscritto alla facoltà di legge, ma non giunse mai a laurearsi e preferì interessarsi di letteratura". A lui mancavano dodici esami a laurearsi, proprio in letteratura, di cui si interessava anche abbastanza. E "non giungere a laurearsi" era un concetto che, prima ancora che intendere, non riusciva quasi a leggere con gli occhi. E non per rivalsa, per riscatto dalle umili origini o motivi del genere: perché era ostinato. Pensava ben poco, infatti, negli anarchici sollazzi da studente paesano in città, al padre e alla madre, lei invecchiata e lui morto in miniera, come molti dei loro fratelli, compaesani e vicini. Ma oggi, leggendo quei versi, gli era tornata in mente quella zia con le mani di pietra, cugina del padre, sparita un giorno nel cammino da Guspini a Gennas, e mai più ritornata. Quand’era bambino gli avevano detto che l’avevano presa le janas.
"L’una, pur mentre inghiotte, già pensa al dopo, al poi; e domina i vassoi con le pupille ghiotte.
Un’altra – il dolce crebbe – muove le disperate bianchissime al giulebbe dita confetturate!"

Bianchissime al giulebbe dita confetturate.
Ma come cazzo scrive.
Però è bello. Ha un bel suono.
Anche i poeti improvvisatori delle sue parti ne facevano, di queste piroette con le parole, che davano bel suono. Assomigliavano a certe giravolte barrose che gli uomini fanno nella danza, per suscitare le risa delle donne. È sempre per fare piacere alle donne, per piacere alle donne, che gli uomini s’inventano quei giri. Come il piccione che cammina tutt’intorno. Questo Gozzano non fa eccezione: se ne sta lì nelle pasticcerie, a Torino, fra gianduja e bignè, a sbirciare le bocche delle donne che mangiano paste; poi torna a casa e si mette davanti al foglio, come nudo davanti a uno specchio, a far fare piroette alle parole.
Povera Zia Maria, che carezze raspose si ricorda, sulla sua guancia rossa di bambino. Lo carezzava molto, con uno sguardo strano: a lui gli sembrava che lo stava toccando un piede di bue.
Bianchissime al giulebbe dita confetturate. E piede di bue.
"Un’altra, con bell’arte, sugge la punta estrema: invano! ché la crema esce dall’altra parte!"

No, basta! Le piroette saranno pure belle, ma quella poesia da guardone gli sta facendo girare le palle. Poi lo sa come finisce, che molla tutto e va al bar. No, meglio mollare il brano, sceglierne un altro. E prima o poi, un anno o l’altro, brano a brano, lo capirà cosa c’entra tutto questo con lui, col suo nome, col suo posto; troverà l’orizzonte che unisce il vero col bello, quella terra di minatori con questo cielo di poeti. E su quell’orizzonte ballerà.
Per ora sceglie qualcosa del Gozzano in prosa, meno noto: magari proprio La Danza degli Gnomi.
– Che bimba brutta e deforme! – disse uno gnomo.
Un secondo disse: – Ch’ella diventi della metà più ancora cattiva e villana.
– E che sia gobba!
– E che sia zoppa!
– E che uno scorpione le esca dall’orecchio sinistro ad ogni parola della sua bocca.
– E che si copra di bava ogni cosa ch’ella toccherà.
– Così sia! Così sia! Così sia!... - gridarono tutti con voce irosa e crepitante.


Maria Pani venne presa dalle janas cinque anni dopo.
In quei cinque anni era passata dalla griglia all’insaccamento, sempre su sua richiesta: era stufa di starsene all’aperto, esposta alle intemperie. Ma anche al coperto si accorse presto che meglio non era: riempire sacchi da ottanta chili di minerale e caricarli sul camion in due era cosa da schiantare chiunque. E se i chili non erano ottanta, alla pesa il sorvegliante sgridava. Ma Maria Manidipietra non schiattò: divenne ancora più forte, più tarchiata e più brutta, con mani come le pale della ruspa.
Aveva smesso di cercare il suo adorato, o qualche suo brano, fra i minerali rotti che passavano sui nastri. Aveva smesso anche di essere gelosa che il suo amore finisse fra le mani, pietrose come le sue, di cernitrici giovani, bagasse.
Ora si limitava a guardare i carichi che andavano e venivano dal pozzo, e salutarli.
– Vittorio, pietra sei. In quella pietra c’è la vena del mio amore, che nessun frantoio mai macinerà.

Le ricerche della salma del Concas erano state interrotte. Il cedimento era stato vasto, in un segmento che non era ricco, la Direzione l’aveva abbandonato. La voce del piazzale diceva che avevano offerto una cifra alla moglie, per starsene zitta. Anche il prete in paese, pareva, le aveva fatto il suo ragionamento: in fondo anche quella è una tomba, dove chi muore giace, e i soldi le servono per i bambini, per chi vive, era proprio il marito dal cielo che glielo diceva. Poteva far studiare il suo maggiore, Guido, a Cagliari, all’Università.
Cresci, Guideddu, cresci, va’ a studiare. Imparati a memoria tutti i libri di Omero, e ripetili tre volte ogni mattina. Pensa a tuo babbo, e pensa a sua cugina.

Cinque anni di marce col branco, fra paese e miniera, al tiepido delle albe di luglio e nelle notti ostinate di febbraio.
Zicchirijola s’era fatta insistente: ogni mattina la guardava passare, la vedeva guardare in su verso di loro, e assillava la Prinzipalissa.
– È meglio dell’ultima che abbiamo preso. È sola, non ha nessuno che la pianga. È forte, ci aiuterà a tener fermo il monte. È disperata, starà vicina al suo amore. È bella, non lo vede vosté come è bella? E poi sono sei anni che lo chiede.
Era vero. Da sei anni Maria Pani guardava le domus, andando e venendo da paese a miniera.
All’inizio in cuor suo le invocava, le janas, perché la prendessero nelle regge sotterranee, a tessere coi telaietti d’oro i corsetti e gli scialli fiorati, a farsi di nuovo bella, a scovare dentro il monte il suo adorato e mostrarsi splendente a lui.
Poi aveva smesso di dirlo, di pensarlo perfino in cuor suo, ma non di guardare. Era uno sguardo ormai senza parole, senza richieste più: per loro, per le domus, per i monti, per la macchia, per tutto il mondo intero, uno sguardo d’amore e rimpianto.
– Non lo vede vosté quanto ha pianto?
La Prinzipalissa, dài e dài, si convinse.
– Te la governi tu per venti lune, nemmeno mi deve venire davanti! La fai servire, la fai pulire, la mandi a togliere il sughero alle querce, a mungere le greggi, a tingere la lana…
Maria Manidipietra fu accolta fra le janas a carezze.
Quando vide la faccia smagliante di Zicchirijola sorriderle con insistenza, da quel buco nero che aveva guardato e guardato e guardato, per anni e per anni, e sempre trovato vuoto, la pietra che aveva oramai anche al posto del cuore si sciolse come minerale al lavatoio.
Restò indietro nella marcia dell’alba, come tante altre volte, e quella volta davvero zio Peis non si voltò a vedere se veniva.
E lei non venne, non la videro mai più.

Maria Pani pervase la montagna.
S’era compiuta in lei la mutazione. Intrise di sé ogni grano di roccia, ogni ruga, ogni faglia, per un raggio di miglia all’intorno. Fu scisto, basalto, granito, steatite nel Monte Arci, calcàre del Monte Albo, ossidiana nel Monte Gonare. Fu effige di donna impietrita, negli affioramenti: Madre Mediterranea steatopigica, Maria Pietra dell’antica fiaba sarda, statua di lutto nei camposanti, madonna ingioiellata che tentenna nelle processioni.
E fu jana che ride spavalda con le sue compagne, con la gonna sgargiante a piegoline che lampeggia un istante agli occhi del mondo, e poi scompare.

Passarono gli anni.
Un giorno di settembre Guido Concas, giovane professore d’italiano al Liceo di Carbonia, accompagnava un amico a caccia nel salto fra Guspini e la miniera abbandonata.
Si fermava, guardava intorno ammiccando nel sole, parlava all’amico.
– Ma la vedi questa luce? Come è grande, solenne, come cade con abbondanza maestosa, signora del posto! Questa è luce che arriva dappertutto, con tutte le inclinazioni, moltiplicata da specchi di stagni, da pianure accecanti, resa vibrante dal brulichio del mare. E guarda quanta pietra, quanta terra. Ovili sopra, miniere sotto. Pochi altri uomini come i pastori vivono le giornate sotto il cielo. Cosa dev’essere stato, per quei tanti diventati minatori, trovarsi da un giorno all’altro sotto un cielo di pietra! Quella terra su cui passavano leggeri, rintronati di luce, fino a pochi giorni prima, con le greggi. Forse quegli uomini pregavano la terra che stesse leggera lei, ora, su loro. ‘Cielo di pietra, non cadermi in testa’… E siccome non bastava la preghiera, mio babbo lo faceva di mestiere, di farla stare su con le armature. Ma non sono bastate neanche quelle, e gli è caduta in testa pure a lui.
– E pure a te ti cade in testa qualche cosa, se non ti stai zitto, adesso. O Guido, io non lo so se i tuoi studenti ti stanno a sentire, meschini di loro. Ma alle pernici non gliele frega niente.
– Nemmeno ai miei studenti gliene frega. Ma io sono più testardo di loro.
– Lo sappiamo E farai il professore per sempre?
– Forse sì, perché no? Forse no.
– Non stavi facendo qualcosa per quel progetto europeo di Ingurtosu? Per il Parco Geominerario? Farai, come si dice… il project manager, e mollerai la scuola.
– Oppure ci resterò e farò il bidello.
– Va bene, ma per ora fai silenzio. E guardami l’altra cagnetta, che non la vedo più.
Guido Concas tacque, guardò intorno nella campagna abbagliante, profumata, assordante di cicale. Strinse gli occhi verso le domus delle janas.
Dalle domus Zicchirijola lo guardò: era un bell’uomo giovane, caparbio. Guardò con un sorriso la cagnetta, che tratteneva per il collare, poi guardò provocante la compagna, accennò all’uomo e si leccò le labbra. Manudeperda le diede una manata che la fece ruzzolare in fondo all’antro. Si accapigliarono ridendo e strillando in un frullo di scintille minerali. La cagnetta ne approfittò per schizzar via.
Guido Concas la vide rovinare a tutta velocità giù per la macchia. Si voltò e si avviò verso il compagno, meditando una poesia, o una preghiera.

Maria Pani, Maria Perda, Maria Pezza. Maria Manidipietra, assunta in terra.
Facci tu una carezza, Maria Blenda.
Santa Maria Minerale, Dura Madre, facci carezze con le tue mani belle, con le tue mani molli e profumate. Carezze a tutti gli uomini ostinati, che ne hanno bisogno.
Ora che nella terra non c’è niente. Ora che la miniera è in fondo a noi.


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La pineta dei sombreri

Racconto scritto per il libro collettivo A.A.VV., Diversi e uguali, I colori del mondo, Siena, 2002, 23 storie e 24 illustrazioni di autori italiani, in occasione della Mostra "Volare alla conquista del Libro" promossa dalla Provincia di Siena nel novembre 2002.


Maria Mezzomondo era una fata clandestina, ragazzina di dodici anni come tutte le altre, che però nascondeva un potere, uno solo ma grande, concentrato in un occhio, il sinistro. Con quell'occhio, che era l'occhio delle fiabe, chiudendosi l'altro, poteva "vedere oltre" la realtà. Vedeva la gente dietro i muri delle case, o nei buchi delle rocce le lucertole, o nel cielo draghi e fate roteare. Vedeva anche oltre la buccia delle immagini, dentro i quadri o i disegni o le foto; e in un certo senso poteva anche andarci, in quei mondi. Chiudeva l'occhio destro, guardava fissa col sinistro e zwoooshhh... un bel taglio nella buccia dell'immagine, e lei sgusciava dentro.
Gli amici più sciocchi dicevano che lei s'inventava tutto. Benissimo, e allora?
"Come altro ci vuoi andare nei mondi inventati, se non inventando di più?"
Insomma, una bella mattina d'estate se ne andava per via, quando vide un nuovo manifesto di pubblicità, attaccato fresco fresco quella notte, che reclamizzava il famoso gelato chiamato Sombrero. Nell'immagine ottocento giovanotti tutti uguali, con la testa rasata e ridenti, con una bella maglia arancio zucca, si affollavano in un posto assolato guardando tutti verso qua, e mangiando Sombreri. Non era come un esercito schierato, erano più tranquilli, disinvolti: qualcuno guardava diritto, qualcuno chinava il capo sul gelato, qualche altro guardava in alto con aria furbetta, qualche altro sorrideva ad occhi chiusi... Insomma proprio una bella folla serena e contenta.
Ma perché tutti uguali? - pensò Maria.
Anzi, guardando bene, non erano tutti uguali: erano proprio... tutti la stessa persona, moltiplicata per ottocento volte (con uno sguardo rapido e magico li aveva contati: 853).
La tentazione era troppo forte: mano destra sull'occhio destro, occhio sinistro spalancato, bello sbrego nella buccia dell'immagine, e zwoooshhh... dentro.
"Ciao, Mi chiamo Maria Mezzomondo, e tu?"
"Io Pino". "E tu?", "Pino". "E tu?", "Pino".
"E tu?"... "Pino".
"Ho capito" disse Maria, "è una pineta".
"AH! AH! AH!" fecero ottocento Pini tutti insieme, e a Maria volò via il cerchietto dei capelli.
"Ma perché siete tutti uguali?"
"PERCHÉ A TUTTI CI PIACE IL SOMBRERO!"
Maria non capiva: bisognava per forza essere tutti uguali, perché a tutti piacesse quel gelato?
"NO, PUOI MANGIARE ALTRI GELATI. MA SE VUOI ESSERE COME QUELLI DEL SOMBRERO, VIENI ANCHE TU CON NOI!"
Maria rise, e disse che a lei piacevano le cotolette. Alla parola "cotoletta" vide cinque o sei facce impallidire e guardarsi smarrite.
"Ha detto cotoletta!" - "Ha detto cotoletta!" - "Ha detto cotoletta!"...
Il brusio si propagava in quella valle ridente dei Pini, che non sorridevano più.
Maria ci pensò su, e disse: "polenta". E aggiunse subito: "tortino di melanzane", "polpettone di Zia Sofia", "ragù".
Un vento furioso a quelle parole scuoteva ed arruffava la Pineta. I poveri giovanotti rasati e felici parevano non capire più niente: in lacrime, non sapendo che fare, agitavano i loro Sombreri, per cui presto quel vento furioso fu un vento gelato all'odore di tropical mix.
A Maria fecero molta compassione, e anche un po' di freddo, per cui smise di dire quelle parole, che chissà perché li turbavano tanto.
Sedette, e cominciò a parlare con loro con voce serena, chiedendo notizie dei giochi che avevano fatto da bambini, del posto preferito di vacanza, degli animali che avessero allevato, delle mamme, dei fratelli, delle zie.
Risultò che sapevano poco, della vita: il pubblicitario che li aveva creati gli aveva insegnato che loro erano quelli del Sombrero, che erano contenti di esserlo, che il Sombrero era buono, e né loro né i consumatori umani dovevano chiedersi altro.
"Perché, c'è dell'altro?", chiese un Pino che Maria aveva notato da subito, perché aveva un sorriso un po' meno convinto e un neo sopra il naso (un errore del tipografo, che fu poi licenziato).
"Certo! Ci sono tantissime cose, al mondo. Per esempio c'è il polpettone di Zia Sofia".
Dieci Pini si sedettero intorno a lei, smisero di piangere, si soffiarono i nasi nelle maglie color zucca, e si misero in ascolto.
Gli altri duecento riferivano agli altri seicento intorno.
E così fecero. Per tutto il giorno.
Maria Mezzomondo raccontò del ragù, del campionato mondiale di calcio, dell'Africa sterminata, della sua maestra di quinta elementare, del Tonio Cartonio italiano e delle Banshee d'Irlanda, dei lontanissimi ghiacciai del Polo Nord (trecento Pini sorrisero rinfrancati, e levarono alti i gelati).
Quando alla World Ice-Cream Italia fu comunicato che qualcosa non andava nella loro ultima campagna manifesti, e mandarono gli agenti a vedere, era già troppo tardi.
Molti Pini si erano tolti la maglia color zucca e, fregandola per terra, annodandola, stracciandola un po', si erano fatti strani abiti diversi; alcuni sedevano per terra da soli, esercitandosi a pensare; altri sedevano in due provando a parlare, altri in cerchio, dando perfino le spalle al passante che guarda; alcuni cantavano canzoni di gelati, altri dormivano, altri si vantavano di aver assaggiato il ragù.
E fin dove potevano farlo, poverini, si erano anche cambiati i nomi: Pino, Pinuccio, Pinetto, Pinocchio e Pinìn.
Maria scappò dal manifesto verso il sera, con quello chiamato Pinocchio, che aveva il neo sul naso e correva come un diavolo del ghiaccio; e gli agenti della World Ice-Cream Italia non li presero mai.
I due fuggiaschi, addirittura, si permisero il lusso di fermarsi in una gelateria sulla strada.
E Maria comprò un Sombrero: ed era buono.
"Ma perché, per un gelato, tutti uguali?" chiese un po' triste a Pinocchio. "Perché pensano così di noi? Cosa credono che abbiamo nella testa?"
"Zero gradi mentali" rispose un tizio con gli occhiali scuri da un altro manifesto del Sombrero.
"A lui penseremo domani!" disse Maria, vedendo arrivare gli agenti col suo magico occhio.
"Ora corri Pinocchio!".

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Alle bambine piacciono le bambole

Racconto scritto per il libro collettivo A.A.VV., Io vorrei..., Edizioni Condè Nast, Milano, 2004. Il libro è nato dall'iniziativa di Paola Parazzoli ed Emanuela Bussolati: ai "meninos de rua" del Centro di Gioventù della favela di Santa Teresinha, a San Paolo in Brasile, è stato chiesto di scrivere su un foglio alcuni loro desideri. A tredici autori italiani è stato chiesto di scegliere alcuni di questi desideri e farne un racconto, e a tredici illustratori di illustrare questi racconti. Tutti i ricavati della vendita del libro, naturalmente, andranno ai bambini della favela.



"Mio sogno è di avere pace e un giocatolo che è una bambola".
Così scrive Joyce, nel doposcuola della favela. Poi va a capo.
"A tutte le bambine piace avere una bambola".
Legge zitta: ci saranno errori? Deve stare attenta perché è il suo Sogno, e lo leggeranno gli italiani.

Lontanissimo da lì, in una grande pianura italiana, in un magazzino, una bambola chiamata NOME pensa: "A tutte le bambole piace avere una bambina".
E proprio in quel momento, come se il Grande Bambolo che sta nel cielo l'avesse sentita, TA-CLANK!... si apre la porta di ferro, entra il magazziniere grasso e leggendo su un foglio si avvia proprio al reparto dei Fallati/A... e proprio al suo scaffale... e proprio al suo ripiano... e proprio al suo scatolone... Cosa fa?
I Fallati/A sono giocattoli che hanno difetti di fabbrica non gravi, che non fanno male a nessuno ma disturbano l'occhio. La bambola NOME, per esempio, aveva una macchia color vino sulla guancia sinistra, colorante sciolto male nelle resine. Il grassone pareva soddisfatto:
- Se ne facessero più spesso, di spedizioni umanitarie, - gridò a qualcuno nell'altra navata - si respirerebbe un po' di più in questi scaffali!
L'intera partita dei Fallati/A fu prelevata col carrello, portata in cortile sui pallet, sbatacchiata per giorni sui camion, caricata su un aereo e partì.

- Una voglia di fragola! - Disse Joyce, non appena potè riprendersi il tanto da respirare, con la bambola NOME appena uscita dal pacco fra le mani tremanti. Anche Noemia, una sua compagna del doposcuola, aveva una macchia così sopra una coscia: diceva che era un bacio di Santa Barbara. Nella scatola trovò una targhetta da cui si sfilava un foglietto con su scritto "NOME", per cambiarlo col nome prescelto. Joyce sorrise: un altro segno di Santa Barbara Bendita. Prese una penna e corresse: NOME divenne NOEMIA. La sua bambola era arrivata.
Si chiama Joyce: la sua bambina era arrivata.
Il suo sogno s'era avverato. Mai più quelle notti di fame, fughe, botte, umiliazioni. Il Magazzino Fallati era un inferno: appena scendeva il buio i giocattoli prendevano vita, come tutti i giocattoli del mondo quando nessuno li guarda, solo che lì da loro, nella favela dei Fallati, quella vita era un incubo. Erano troppi, affollati in quei freddi scaffali, abbandonati a loro stessi, senza nessuno che li facesse giocare, li curasse, o magari li strapazzasse ma avesse bisogno di loro.
Erano troppi, ammassati, affamati, violenti e fallati.
E quando la notte si aprivano le scatole, cominciava la follia: i Crazy Bikers sfrecciavano con le loro moto, mettendo sotto chiunque non si scansasse; gli Scream Monsters graffiavano il buio coi loro urli difettosi, aggriccianti come unghie sul vetro; le Barbie fallate si portavano i clienti negli scatoloni, senza ritegno per gli altri abitanti; i Trendy Boys spacciavano droghe micidiali, ricavate da batterie scariche, sotto gli occhi di tutti; gli Action Men, con la scusa di riportare l'ordine, facevano peggio degli altri sparando a casaccio.
Noemia era riuscita a sopravvivere tenendosi nascosta in un vecchio scatolone rovinato, che tutti credevano vuoto, e uscendo solo poco prima dell'alba, in cerca di cibo. C'era una mezzoretta di quiete, quando i Fallati stanchi cominciavano a rallentare la pazzia, e le bambole e i personaggi piccoli uscivano dai nascondigli per cercare qualcosa da mangiare. Si aggiravano sotto gli Scaffali Alti, dove vivevano i Giocattoli Checked, quelli che avevano superato il Test. Ma non c'era pace neanche allora, perché anche fra piccoli la lotta per la sopravvivenza era dura, e spesso Noemia doveva difendere un misero tappo di biberon da bande di Cicciomio pazzi e crudeli.
Ma ora questo inferno era finito. Notte dopo notte, a dispetto di tutto, aveva ripetuto a se stessa un pensiero ostinato: "Mio sogno è di avere pace e una mamma che è una bambina".
"A tutte le bambole piace avere una bambina" - aggiungeva sempre, come una scaramanzia per portare fortuna. Ecco, gliel'aveva portata.
Ora lei era Noemia, la bambola di Joyce, la sua bambina: che la svegliava ogni mattina con paroline lente e strascicate, la tirava su da un bel letto, fatto con la sua scatola più un fazzoletto, vecchio ma lavato bene; le lavava la faccia, le lustrava la voglia di fragola, le diceva che le stava bene, e le dava la colazione. Faceva finta, naturalmente, ma per i giocattoli è ciò che ci vuole: li nutre e li ingrassa.
A differenza di Joyce, che aveva bisogno di cibo vero, e infatti era magra.
- Cosa vorresti fare, oggi, Noemia? - le chiedeva quando era ora di giocare - Dimmi i sogni che hai, e li facciamo. Vuoi che ti porti a conoscere tua nonna, a Guarujá? Noemia Grande, al doposcuola, dice sempre che vuol conoscere sua nonna. Dev'essere bello avere una nonna da conoscere. Una volta che l'ho chiesto alla mamma, forse perché aveva bevuto, ha detto che lei doveva essere nata da una pozzanghera.
Io non la voglio una nonna pozzanghera.
Ma a te te ne do una vera, bella, vestita di bianco come una bahiana, nella spiaggia di Guarujá.
E magari ci trovi anche i tuoi cugini. Si chiamano Joao, Caetano e Gilberto, son ragazzini bianchi, o quasi bianchi, e cantano come angeli del cielo.
Vuoi che ti insegno un po' di spagnolo e un po' di inglese? Così lavori nei locali per turisti.
Vuoi che ti faccio un televisore di cartone? Vuoi conoscere Reinaldo Gannigni? Io non lo se si dice così e non so neanche chi sia, ma Noemia Grande al doposcuola parla sempre di lui.
E ora che sei con me, Noemia Pequena, tutti i tuoi sogni si avvereranno.
Io sono la tua mamma bambina, sono Joyce.

Le storie sono bamboline matrioske, come mamme e bambine una nell'altra.
Joyce, forse, è stata adottata da una mamma italiana, che se l'è vista arrivare con una bambola logora in mano, ha pianto e l'ha infilata nella vasca.
A molti chilometri da lì il magazziniere grasso si gratta la testa: lo scaffale del Fallati/A si sta riempiendo di nuovo.
La mamma che ha adottato Joyce si chiama Emma, ha tutto ciò che le serve ma a volte piange come se non avesse niente.
Joyce guarda il cielo curiosa, stringendo la bambola al petto. Lei ha salvato Noemia, Emma ha salvato lei: Emma chi l'aiuterà? C'è una Nonna Grandissima in cielo, che la salverà?

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Come finiscono le storie minori

Racconto scritto per l'Associazione Librai Italiani, e uscito sul quotidiano "La Nuova Sardegna", aprile 2004


Giorgetto Rossi, detto Malaussene, guardò il Direttore dell'Ipermercato con aria smarrita: "Mi spiace, dottore, stavolta non posso far niente. C'è una fila di trenta metri all'Ufficio Reclami, e tutti con un libro in mano. Stavolta, temo... dovrà prendere provvedimenti sostanziali".
I primi guai erano arrivati tre giorni prima, dal settore dei libri per ragazzi.
Falle, vacui, lacune, buchi bianchi si aprivano fra le righe qua e là. Il cliente chiedeva indietro i soldi; il caposettore, come da prassi, gli proponeva un altro esemplare dello stesso libro; il cliente lo apriva, sfogliava e glielo schiaffava sotto il naso con un ghigno: gli stessi buchi negli stessi punti.
Direttori, responsabili e addetti esaminavano i libri fallati grattandosi il collo. Era difficile pensare a errori di inchiostrazione: i blocchi di testo mancanti parevano espiantati con nettezza, come dal bisturi di un collezionista di ritagli.
Distributori ed editori, su cui era subito rimbalzato il guaio, non si potevano capacitare. I tipografi fissavano quei vuoti scuotendo il capo. Mai visto niente di simile: le righe mancanti non erano state cancellate con solventi, abrase con gomme, fulminate col laser: era semplicemente come se non fossero mai state stampate.

Furono i lettori bambini i primi a intuire la verità: "Sono sparite tutte le righe di quando parla il GGG" - "Nel Tornatràs che abbiamo comprato all'Iper non c'è più né Colomba, né Pulce, e neanche il nonno Victor Ugo" - "I miei libri dei Mumin sono quasi del tutto bianchi: forse è l'inverno artico, sono andati tutti in letargo" - "In quelli della serie Black Terror che compro io, invece, non manca neanche una riga" - "Mia mamma ha comprato un Pinocchio per il compleanno di Giuli: c'era il Gatto e la Volpe, il Giudice, i Carabinieri, ma dove parla o corre Pinocchio solo buchi bianchi"...
Insomma, la diagnosi fra i bambini era fatta: i personaggi toglievano le tende.
Migravano, se ne andavano di lì, e di loro sulle pagine non restava alcuna traccia.
Fu la solita Maria Mezzomondo che scoprì il perché. Col suo occhio sinistro che - se lei chiude il destro - vede la fiaba dentro la realtà, li vide benissimo, all'Iper, un giorno, uscire dalle pagine e volarsene via. E li sentì bestemmiare, o sospirare a seconda dell'indole, un discorso che riferì al suo amico Valentino più o meno così:
"Qui non ci vogliono bene, ce ne andiamo. Non c'è nessun venditore di libri che ci conosca, ci saluti, sappia di noi; che giri fra gli scaffali, giorno dopo giorno, riepilogandoci mentre spolvera; che ci rimetta in pila di malgarbo una mattina d'autunno, col naso che cola; che ci sfogli sorridendo trasognato un pomeriggio di maggio, nel vento fioraio. Ma soprattutto che parli di noi a quei tipi innamorati che entrano smarriti, e amano ma non sanno ancora chi: e allora quei librai, sornioni come vecchie maîtresse, li portano a braccetto da noi e dicono sorridendo: guardi qui..."
No, lì non c'era più niente di tutto questo.
Addetti di settore, con carrelli zannuti, li impilavano secondo il piano fornito dal reparto di progettazione merceologica, e poi chi s'è visto s'è visto. Venivano solo alla notte uomini e donne di paesi lontanissimi, coi visi scuri e assenti, a spolverare.
Questo non è un buon posto. Via di qui.
Ma via dove? Anche sui librai cominciarono a piovere i problemi. Un'altra peste degli inchiostri, simmetrica alla prima, colpì i loro libri: blocchi interi di testo s'ispessivano, parevano composti di righe sdoppiate, ribattute alla stampa due volte. I personaggi che fuggivano dalle Grandi Catene, evidentemente, cercavano di introdursi in quei libri, e sgomitavano facendosi largo accanto ai loro sosia titolari. Il meglio che potesse accadere a un lettore era sentire, mentre leggeva, un personaggio parlare e agire in una strana modalità corale, come se fosse due.
La situazione era arrivata più o meno a questo punto, quando un giorno...
(...)

Be'? Quando un giorno cosa?
Purtroppo, forse, non lo saprete mai. Non è una provocazione, giuro, è solo un esempio.
Questo è un racconto che ho cominciato a scrivere per pubblicarlo su un giornale. Poi però diventava lungo e ho dovuto interromperlo. Lo finirò di certo, prima o poi, e lo pubblicherò. Ma difficilmente voi saprete come va a finire, perché le storie che scrivo io vanno a finire su libri che negli Ipermercati difficilmente si trovano. E forse, quando fra qualche anno lo pubblicherò, i libri si potranno trovare solo, o soprattutto, negli Ipermercati.
Non era chissà che, questo racconto, solo una storia minore, ma poteva valere la pena finire di leggerla. E così altre storie minori, che abitano libri piccoli di statura ma ben fatti, come sono tanti sardi: può valere la pena di trovarli ancora in giro.
Ma il mondo cambia. Con l'avvento delle multisale si può scegliere fra trenta schermi, e otto film, in tutta la città. Poteva valere la pena di vedere il nono, qualche sera, o il quindicesimo nella classifica del Box Office.
Accadrà lo stesso ai libri?
È comprensibile che per qualcuno la vita si semplifichi, se tutti leggiamo e vediamo le stesse cose.
Meno comprensibile è che noi stessi collaboriamo a semplificare la vita - e i guadagni e il consenso e il controllo - a costui o a costoro.
Non è vero che non possiamo farci niente: possiamo scegliere se, cosa e dove comprare.
Allora scegliamo dove comprare un libro.

P.S.: quella storia finirà bene, perché qualcuno deve pur assumersi il compito di dire che il futuro sarà salvo; e se non lo fanno gli scrittori per bambini...


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I salvatori della mezzanotte

Inedito. Scritto in origine nel settembre 2004 per il mensile "CIAO AMICI" (Messaggero di Sant'antonio), e in seguito non pubblicato.


Era ormai notte alta, nella casa.
Jana si affacciò guardinga dalla cucina. La luce colorata e fantastica di quell'albero acceso trasformava la solita sala, a lei così nota, in uno strano mondo nuovo. In quel mondo c'era un piccolo regno, ancora più strano e più nuovo, che si estendeva su un tavolo basso ampliato da assi e cartoni, lì, sotto la finestra, al posto del ficus. Era dentro e sembrava fuori, con prati e monti e strade; era casa e sembrava mondo, con bestie e gente in viaggio. Per tutto il pomeriggio Carlotta l'aveva minacciata con gesti e con voce, che si tenesse alla larga da lì. Ma adesso dormivano tutti ed era il momento di dare una buona occhiata.
Annusò, attese, scrutò, annusò ancora. E infine vi saltò sopra, leggerissima. I polpastrelli premettero quella strana erba secca, cedevole ma salda. Sostò, guardando ogni cosa: i piccoli umani in cammino, ma fermi, la prateria secca, le minuscole case, i monti lontani e vicini. Poi tentò un passo cautissimo. Due, tre. Tutti gli umani erano volti nella stessa direzione, e lì anche lei guardò. C'era una specie di grotta, con dentro un uomo, una donna, un asino, un bue. Di fronte alla grotta altri umani in piedi e in ginocchio, che guardavano fissamente l'interno. Decise di studiare uno di questi, che parevano in qualche modo più accessibili.
Si avvicinò cauta, col suo migliore passo di caccia. Superò altri piccoli umani, un paio di cespugli polverosi, un ponte su un ruscello di immobile argento, un gregge di quattro pecore col pastore. Le figure davanti alla grotta erano sei: due donne con canestri di cibi, un vecchio con un bambino per mano, un giovane che suonava il flauto e un uomo cupo, chiuso in un mantello, accovacciato. Si diresse verso quest'ultima figura, che era la più isolata. La fissò, l'annusò: sapeva di terra, di straniero, di pericolo. La toccò con la zampa, la figura cadde su un fianco. A quel punto la cautela si sciolse nell'azione fulminea: Jana prese fra i denti la testa della statuina, in due balzi saltò giù dal Presepio e corse via con la sua preda in bocca.

Era ormai notte alta, in Palestina.
Il blu cupo dell'oltrecielo più profondo, tempestato di stelle diamantine, copriva la volta del mondo. I pastori e i contadini di Betlehem, come in tutti i villaggi di Canaan, avevano ammucchiato nei bivi, sui confini dei campi, presso i pozzi, le fascine per i fuochi dell'ultima notte di festa per il solstizio d'inverno. Ora uomini, donne e bambini, sugli asini decorati di palme, cantando e suonando, partivano dalle case con le torce rifulgenti nella notte.
Ma quell'anno pareva che fosse una festa speciale. C'era nell'aria qualcosa di nuovo e straordinario: i profeti e i maghi l'avevano detto da un pezzo, e lo diceva adesso quella stella, più eloquente di mille profezie, sfolgorante e bassa nel cielo a indicare un luogo: quella grotta poco fuori del paese, nota a tutti come ovile di fortuna. La folla sulla pista polverosa presto divenne un fiume: pastori e contadini, giovani e vecchi, artigiani e mendicanti, ambulanti e contabili, e frotte strepitanti di bambini, tutti in marcia verso quella grotta.
Davanti alla grotta Zahel Onagro sedeva muto, accanto a un vecchio rabbi col nipotino per mano, a due donne con cesti ricolmi di datteri e fichi, e a un giovane suonatore di kinnor. Zahel sospirò e si sfregò gli occhi. Quel lavoro si era rivelato diverso dal solito. Una giovane donna incinta da eliminare, per conto di Erode, prima che mettesse al mondo il suo marmocchio, che il Tetrarca per qualche motivo pareva temere: un gioco da ragazzi, sulla carta. Ma mille intralci s'erano frapposti, incidenti d'ogni tipo, strane peripezie, che parevano non avere niente di casuale; e che gli misero in testa l'idea che quella donna, e il suo prezioso fardello, fossero protetti da potenze ben maggiori di Erode. Ma lui era un sicario, fra i più noti e i meglio pagati della zona: non poteva lasciarsi fermare dalle superstizioni.
Così pensava, chiedendosi quando la gente avrebbe cominciato a stufarsi e togliersi dai piedi, per lasciargli finire il lavoro, quando a un tratto...
Dapprincipio non volle crederci e distolse lo sguardo. Un leopardo, o un ghepardo gigantesco, alto come sette cammelli uno sull'altro, camminava lento nel piano guardando lui. Chiuse gli occhi, pensando che la stanchezza e quelle superstizioni imbecilli da donnine alla fonte gli stessero giocando un brutto tiro. Li riaprì: il Demonio in forma di Gatto era lì accanto lui, e si chinava ad annusarlo. Si irrigidì, guardò avanti e non si mosse, stringendo il manico dell'inutile pugnale. Poi sentì un urto morbido e possente, la zampata di una zampa smisurata, cadde su un fianco, vide che il mostro si chinava, avvertì il fiato fetido delle sue fauci aperte, vide offuscarsi la luce all'improvviso, poi non vide più nulla.

Era ormai notte alta in Paradiso.
- Un gatto? Dici che è valido? - chiese San Pietro - Non è mai stato un gatto! Anzi, non è mai stato nessun animale!
- Errore! - trionfò sorridente l'Arcangelo - cinquecentosettanta anni fa è stato un cervo.
- Un cervo? Be'... il cervo è già un bel simbolo regale: ma un gatto!
- Ora non venir fuori con quelle storie che i gatti sono diabolici, eh? Scommetto che a te piacciono i cani.
- Esatto.
- Dài, Pietro, ragiona: a questo punto abbiamo solo lui. E poi non è un gatto qualunque: è il gatto del bambino Gabriele, che l'ha salvato due anni fa.
- Ah, ecco. Una specie di impresa di famiglia. Mah! Tu che ne dici?
- Valido. Non abbiamo altri salvatori. E ormai deve nascere.
- E va bene. Valido. Diamo il segnale?
- Ci penso io, come sempre.
L'Arcangelo partì per la Giudea. Suonò, volò, cantò, e il Bimbo nacque.
La mattina dopo, a casa di Lele, Carlotta trovò sotto il solito mobile la statuina che Jana aveva rubato per giocare, la restaurò un po' coi pennarelli, e la rimise sul Presepio.
Ma ormai era tardi per il lavoro del sicario. Anche quell'anno gli era andata male.
Chissà il prossimo anno chi lo fermerà.

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Lo zizigote nero

Scritto nell'aprile 2005 per un'iniziativa editoriale del XIV Festival per Ragazzi "UNA CITTA' PER GIOCO", in occasione del bicentenario della nascita di Hans Christian Andersen, a cura della Cooperativa Tangram, Teatro Città Murata e Comune di Vimercate.


Sotto la luce di un sole lampione,
in un paese di vetro e metallo,
sopra il suo nido di gomma e cotone
come una statua sul suo piedistallo,
la mamma papera, con convinzione,
cova serena nel tepore giallo.
Ed ecco uscire, finita la cova,
sette anatroccoli da sette uova.

Uno era bianco come la neve,
uno era candido come lenzuola,
uno era latte che bianco si beve,
uno era bianca colomba che vola,
uno era schiuma bianchissima e lieve,
uno era candida nuvola sola.
L'ultimo invece, vero mistero,
era di un nero più nero del nero.

Proprio così: nero come un corvo.
- Corvo torvo! Corvo torvo! - lo prendevano in giro i fratellini candidi, quando cominciarono a sgambettare in quello strano mondo di vetro e metallo dove non veniva mai notte.
Però i giorni passavano lo stesso, pieni di giochi e scherzi, di bei sonni e buona pappa, che cadeva da sola in una tazza non appena avevano un po' di languorino.
Ogni tanto un Angelo Bianco si sporgeva dal cielo, calava due ali strane senza piume, afferrava un fratellino, lo sollevava e lo portava via. Nessuna paura, però: tutti sapevano che sarebbe tornato di lì a poco, e a chi gli chiedeva cosa gli avessero fatto gli Angeli Bianchi, avrebbe risposto sempre allo stesso modo:
- Mi hanno guardato, pesato, misurato, dato da mangiare piccole pappe di molti colori, tolto due piumette e punto con un pungiglione, che però non mi ha fatto niente.
Gli Angeli portavano tutti in cielo, una volta al giorno, tranne il papero nero: lui mai.
- Perché loro sono bianchi come noi, mentre tu sei nero buio, e corvo torvo! - gli dicevano i fratellini.

"Io sono nero, io son diverso.
In questo angolo candido e bianco
di questo candido grande universo
non c'è mai niente di nero al mio fianco.
Io sono solo, mi sento perso.
Mi sento stupido, mi sento stanco.
Nulla mi accade, nulla mi aspetta,
e neanche gli Angeli mi danno retta!".


Ma un giorno chiaro fra quei giorni bui
accadde un fatto ben straordinario:
un inserviente nero come lui
venne a pulire lo stabulario.
Mentre lustrava col panno, costui
disse a quel papero solitario:
- I tuoi fratelli son belli e son bravi,
ma tu sei l'unico che te la cavi.

E così infatti andò. Quelli che ai paperetti sembravano Angeli Bianchi erano medici ricercatori, che studiavano la trasmissione di una brutta malattia legata al colore di peli e capelli e piume; e per questa ricerca dovevano usare esemplari omozigoti, tutti bianchi. I paperetti bianchi non sapevano di chiamarsi "omozigoti", e sapendolo magari quel nome gli sarebbe piaciuto. Avrebbero chiesto come si chiamava il fratello nero, e sapendo che si chiamava "eterozigote", gli avrebbero detto:
- Hai visto? Anche il tuo nome è diverso dal nostro!
- Certo! In inglese vorrà dire nero.
- Zizigote nero! Zizigote nero!
Ma non era così. Eterozigote voleva dire che, per motivi che in una fiaba sarebbe fuori posto spiegare, quell'anatroccolo tutto nero non serviva per i loro esperimenti. E quando l'inserviente lo chiese in dono per la sua bambina, quei medici, che non erano certo cattivi ma solo scienziati, glielo diedero volentieri.
L'inserviente lo portò alla figlioletta, che lo portò nella sua scuola, dove tutti lo coccolarono e vezzeggiarono, con tante voci che dicevano "che carino!", "che dolce!", "che forte!", e nessuna che diceva "corvo torvo". Nei giorni che seguirono, non potendolo tenere a casa perché sporcava, la bambina lo diede a una compagna che aveva una zia in campagna.
L'anatroccolo nero scoprì il mondo.

Buio di notte, luce di giorno,
giallo di sole e verde di prati.
Odori buoni di stalla e di forno,
cacca di mucche e fieni tagliati.
Amici nuovi che girano intorno,
trilli, muggiti, grugniti e belati.
Mondo vivente davanti e di dietro:
niente più plastica, niente più vetro.

Un giorno il papero trova uno stagno,
fa un segno d'ala a quel volto riflesso,
e il paperetto laggiù gli fa un segno.
E lui sospira e dice a se stesso:
- Non sarò bello come un bel cigno,
ma son felice, mai come adesso.
Quello nell'acqua sospira e gli dice:
- Non sarò un cigno, ma sono felice.

E così fu. L'anatroccolo nero visse a lungo in quell'aia in campagna, forse non cigno nel vento, ma felice e contento.

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Ismene, la sorella

Un racconto-monologo (non per bambini) sulla scultrice Maria Lai e sulla sorella Giuliana, scritto come "Capitolo" aggiuntivo dello spettacolo "TELAI" di Laura Curino, per la sua rappresentazione speciale tenuta al Festival Letterario "L'Isola delle Storie", Gavoi, luglio 2005.

Una camera con le pareti bianche. Tutto comincia lì, e ci faceva così invidia a noi. Una camera dei giochi tutta per lei, tutta vuota e con le pareti bianche.
Perché Maria, la mia sorellina grande, era fragile, di poca salute, e quando gli zii senza figli l’hanno chiesta i miei gliel’hanno affidata, perché la curassero bene. L’hanno curata, eccome: è cresciuta da sola con quei due zii silenziosi, nella casa sulla collina che guarda il nuraghe, in faccia al mare.
È diventata una bambina perfetta, educata, pensosa, sempre un po’ triste. Noi fratelli eravamo gelosi che fosse così perfetta, la preferita di babbo e mamma che non finivano mai di fare lodi: Marola qui, Marola lì… E poi ci faceva invidia quella camera tutta per lei, vuota, con le pareti bianche.
Lì cominciò a disegnare… Sì, tracciava sui muri coi carboni del camino le forme, le creature, le piante, le cose del mondo. Piano piano le pareti si riempivano, e allora lo zio ridava una mano di bianco, e tutto poteva ricominciare. Una specie di Zio Dio, mi dico adesso. Allora mi faceva solo invidia, ma adesso penso che Dio sia così: non uno che crea, uno che cancella, che svuota, che sbarazza come dopo una bella cena, fa spazio. Perché la vita possa venire e riempire di forme, vere o disegnate che siano. Anche lei, Marola, è brava a fare bianco nelle sue opere, dove poi, come una farfalla su una tovaglia, arriva l’arte. Arriva sempre, come fa? Non manca mai.
Io no, io le riempio le mie opere cucite, intrecciate fitte fitte di sete velluti damaschi e trame d’oro: di bianco non ne lascio neanche un po’, non son capace. In questo forse sta la differenza: io faccio cose che servono, tappeti, borse, astucci, bamboline. Faccio figli e nipoti, tanti. Gliel’ho anche detto, un giorno: non fare figli, li faccio io per te. Perché lei è Maria, è… diversa da noi.
Quando è morta la sorellina piccola, noi piangevamo senza capire più niente: lei dipingeva fiordalisi lilla sul cuscinetto di seta della bara. E quando nostro padre ha chiesto allo scultore Ciusa un ritratto in marmo bianco della bambina, Marola, che le assomigliava, ha posato per lui. È stata in quello studio un paio di giorni, e guardava, toccava la creta. Quando il ritratto fu finito, ha chiesto di continuare ad andarci. E via: si era aperta la strada.
Non quella degli zingari saltimbanchi, quando si era nascosta nel carrozzone e aveva provato e scappare nei circhi del mondo, e quelli invece l’hanno riportata a casa: no, la strada dell’Arte, quella che aprono i Grandi Maestri. Gli uomini aratri, come diceva il primo dei tre, il Professore:
"Il poeta è un aratro che scava i solchi perché i semi germoglino; la terra ha bisogno di essere violentata, sconvolta per diventare fertile".

Il Professore Cambosu, alle medie in paese, è il primo a capire che non può essere una quasi-minorata una scolara che disegna così. È terra giovane e fertile da arare. E che strada le apriamo? La fiaba di Maria Pietra, più brava a fare creature con le parole proibite, a fare e disfare bambini di pane impastati col pianto, che figli di carne. Sei donna? Partorirai nel dolore. Sei donna artista? Partorirai figure.

Il secondo Maestro niente, neanche quelle! Sei donna artista? No ti xe bona de far niente!
Arturo Martini, grande scultore all’Accademia di Venezia. "La linea orizzontale è la terra – diceva nelle lezioni – è l’elemento femminile, la materia. La linea verticale, che cade perpendicolarmente (era proprio una fissazione!), è l’elemento maschile, lo spirito, l’unico che produce arte".
E Maria era l’unica sua allieva femmina: un problema curioso per lui. E lui per lei un bell’aratro vigoroso, che ha aperto una strada lunghissima: tutta una vita intera, per smentirlo.

E poi il terzo Maestro, il più dolce. Giuseppe Dessì, dirimpettaio nella casa di Roma, che la guarda lavorare alla finestra, ormai donna e artista, e le scrive addosso la fiaba. È un Dio Distratto quello che fa le donne artiste. Anche lui un po’ Zio Dio; o perlomeno non è un aratro che va giù perpendicolare… È un dio annoiato che non vuol più essere Dio e fa l’apicultore, ma nel cacciar via un’ape gli scappa una scintilla di potenza divina, e trasforma uno sciame in fate industriose: le Janas. Che poi insegneranno alle donne sarde l’arte della bellezza nei tappeti, nei ricami, nel pane, mentre gli uomini di qui, dopo i nuraghi, non hanno fatto più niente di bello.

Lei invece sì che ha fatto cose belle, in quella sua strada, che gliel’abbiano aperta gli uomini maestri con l’aratro, o gli uomini gentili e distratti, o le Janas. O magari le sue stesse mani, che in fondo è ciò che viene da pensare, vedendola lavorare.
E così gli anni son passati. Anni, opere, gloria, amici artisti, mostre in città dall’altra parte della terra; e io qua figli e nipoti, pasque e natali, che sono opere anche quelle. Gli anni sono passati, perché sanno farlo: ottantasei per lei, ottantatré per me. E alla fine è tornata qui, a stare con noi.

Qui, nella casa sulla collina che guarda il nuraghe, la stessa di quella antica camera bianca, noi stiamo bene. Io, Marola, Luigi, e tanti altri cari volti che vengono a vanno. Ieri siamo rientrati con Gianni che era notte. Ci hanno accolto Luigi e Lola col fuoco nel camino e una bistecca da cuocere in graticola. Eravamo tutti felici e hanno ascoltato i miei racconti fino a tardi. Nei prossimi giorni Lola dovrà ricevere altri amici. Questa specie di processione, che sembra un presepio: studenti per la tesi, artisti, critici, curiosi, giornalisti… Lola accoglie tutti con quel suo sorriso, ma io lo so che si stufa e si annoia. Allora arrivo io, li chiamo nella mia stanza del lavoro, gli faccio il caffè, gli mostro le mie opere: tappeti, borse, cesti, portafogli, cuciti di tele preziose e trame d’oro, tessuti sui telaietti delle Janas. E loro comprano, se vogliono.
Tu sei Ismene, la sorella – mi ha detto un giorno un visitatore colto. Io non lo so chi è Ismene: io sono Giuliana Lai, sorella di Maria, tanto quanto Maria Lai è sorella mia. Questa è una sorellanza. Io le ho tenuta pronta questa casa, per quando lei era pronta, le ho imbiancato le pareti, l’ho fatto io stavolta, nell’attesa. E lei è tornata, per godere quest’opera mia, la casa bianca piena di cari volti. E su quelle pareti lei ha messo l’opera sua, le figure del mondo. E non è vero che donne che fanno forme non fanno figli e donne che fanno figli non fanno forme. Sono cose che dicono i maschi, col loro aratro. Noi che abbiamo il telaio, che non taglia ma lega, diciamo il contrario: donne sorelle intrecciano i fili dei destini una con l’altra, si mischiano le vite, in un tappeto solo.
Noi siamo state brave, brave artiste. Qui siamo stati bravi, tutti quanti.

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Il viaggio di Mir

Un nano-racconto sul pecorino sardo, scritto per il progetto-kit per le scuole sugli alimenti tradizionali "Che gusto c'è", Giunti PRogetti Educativi, settembre 2005.

Mir aveva dodici anni e doveva partire. La madre gli mise nella bisaccia il pane di carta e il pecorino antico. Scopo del viaggio, si diceva, era trovare sette pecore rubate; ma tutti sapevano che quelle pecore le avevano fatte nascondere gli Anziani nei crepacci della montagna, chissà dove. Scopo del viaggio era diventare uomo. Mir partì. Giunto al fiume, capì che se faceva un altro passo non sarebbe stato mai così lontano da casa. Fece quel passo nell'acqua e guadò il fiume. Dall'altra parte, la terra gli parve diversa da quella che conosceva. Camminò verso la montagna.
Quando fu l'imbrunire, cercò un rifugio per la notte, e mangiò. Il pecorino era ben stagionato, bruno e roccioso. Sapeva che non c'era altro cibo che desse tanta forza prendendo così poco spazio e conservandosi per tanto tempo; era il pane di via dei pastori, ma solo allora capì il vero perché. Non era solo al corpo che dava energia: il sapore che sentì, così forte e familiare in quelle terre sconosciute, svegliò antenati che dormivano nel sangue, lo fece sentire a casa all'improvviso, lo fece sentire in tanti. Con quel sapore in bocca, quegli avi invisibili intorno, e quella forza in pancia, Mir posò il capo sulla bisaccia e dormì, pronto per il cammino di domani.

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Maskingame

Scritto nell'aprile 2006 per il libro di AA.VV. "Adottamostri", edito dal Centro di Documentazione Biblioteche per Ragazzi della Provincia di Cagliari, a cura di Teresa Porcella, Cagliari, maggio 2006.

Michelino girava e rigirava fra le mani il nuovo transformer regalato per il compleanno, mentre ascoltava i discorsi della mamma e del papà giù in cucina.
La situazione cominciava a essere grave. Anche quel giorno papà era tornato a mezza mattina, e aveva perso un altro giorno di lavoro. Non voleva parlar chiaro, bofonchiava mezze frasi intorno a certi brutti incontri che faceva, a cose che vedeva in campagna spaventose e impossibili, da non poterne parlare con nessuno. Ma stavolta la mamma ha insistito e alla fine, occhi stretti e spalle curve come chi aspetta colpi, lui ha parlato.
Nel costeggiare il bosco di Pinnia, quasi sempre un bambino, qualche volta un maialino o un puledro, gli si faceva incontro. La prima volta lui s'era fermato, aveva chiesto da dove venisse, come mai fosse lì. Quello gli si sfregava sulle gambe come chiedendo aiuto, ma quando lui si era chinato per prenderlo, aveva cominciato a trasformarsi: cresceva, si espandeva, si gonfiava prima il collo poi le guance, gli occhi sporgevano come due rospi pazzi, le orecchie sbandieravano come finestre, le braccia si allungavano, si piegavano in punti sbagliati, le dita si sfilavano come stecche d'ombrelli, roteavano intorno, la bocca si apriva grande, buia, esagerata, e ne esplodeva una risata orribile, fatta solo di fiato senza voce, e poi una lingua di fiamma che gli leccava il viso senza bruciarlo e infine avvolgeva nel fuoco l'intera radura.
Allora lui si voltava e tornava alla macchina, sforzandosi di non correre.
La mamma aveva ascoltato questo racconto in perfetto silenzio.
E in silenzio aveva ascoltato Michelino, dietro la porta socchiusa di camera sua.
"Non preoccuparti, vedrai, passerà" aveva detto infine la mamma, con un sospiro. "Sarai stanco, prendi tre giorni di riposo"
Tre giorni dopo il papà era tornato al lavoro, ma niente da fare: eccolo di nuovo a casa già alle nove, bianco e freddo e madido come ricotta.
La mamma ne ha parlato con la nonna, che ne ha parlato con la vecchia zia Consola, che ha detto: "Un fuoco che non brucia? È Maskinganna, dimonio maladitto! Io lo sapevo che tornava fuori. Per cinquant'anni anni se n'è stato nascosto nel cuore nero di quel bosco, che il fuoco lo bruci!"
Maskinganna, diceva Zia Consola: l'antico diavolo illusionista maligno e burlone.
Allucinazioni da stress, diceva il dottore. Vino cattivo, diceva il vicinato. E Michelino?
Michelino ne parlò coi suoi amici: Giaime, Peppetto, Luisi, Damiano e Bobòi.
Ripeté la descrizione che suo padre aveva fatto di questo bambino: si gonfia il collo, poi le guance, poi sporgono gli occhi e gli orecchi, le braccia si allungano e si piegano in punti sbagliati, le dita si sfilano come stecche d'ombrelli e ruotano intorno...
Si guardarono tutti: è un transformer! Sì, un Tankor! No, un Grimlock! Un Battle Squad, un Black Beast, un Megatron, un Devastator!
Presero le scatole e cominciarono a giocare.
Ma quel pomeriggio giocarono in un modo che non s'era visto mai prima, e non avrebbero visto mai più. Stratagemmi, posizioni, sequenze, scelte di armi, gridi, versi, tutto riusciva bene, potente e perfetto. Magico, avrebbero detto.
Alla fine della sera, quando vennero le mamme a prenderli, si salutarono con sguardi nuovi e segreti: a domani.

L'indomani nella classe quarta C mancavano in sei: Michelino, Giaime, Peppetto, Luisi, Damiano e Bobòi.
Mentre la maestra segnava le assenze, scuotendo la testa, Giovanni Monni, padre di Michelino, camminava nel sole del mattino, con gli occhi a terra e il cuore sottoterra, costeggiando il boschetto di Pinnìa. Sapeva bene che non era verità, che era soltanto un'allucinazione, che era vergogna che un uomo grande come lui cadesse in queste mattane, e che ora sarebbe passato proprio in quel posto, avrebbe alzato gli occhi, e stavolta nessun bambino maledetto...
Mentre lui alzava gi occhi, sei mountain bike frenavano schizzando pietrine nella piazzola accanto alla sua auto, e sei bambini correvano giù nella scarpata con gli zainetti tintinnanti di giocattoli.
Nessun bambino? E invece eccolo lì. Giovanni Monni si fermò a distanza, crollò le spalle, lo guardò rassegnato e atterrito al tempo stesso. Quello sorrise di un ghigno malvagio e contento, che pareva dire: sorpresa! Vieni, amico, facciamo il solito gioco?
L'uomo chinò il capo e chiuse gli occhi, appannati di umiliazione.
Fu allora che sentì lo scampanio degli zainetti e i passi di corsa. Riaprì gli occhi e per un istante non capì: sei bambini, suo figlio e i suoi amici, irrompevano fra lui e il mostro, si disponevano a semicerchio, posavano gli zaini, li aprivano, ne estraevano ognuno il suo trasformer, lo puntavano contro il piccolo demonio gridando:
"Energon!", "Dinobot!", "Clench!", "Megaplex!", "Blaster!", "Blurr!"
Il bambino demonio li guardò, dai suoi occhi il ghigno scomparve, apparve sorpresa, dubbio, paura, dispetto, furore. Si trasformò in cinghiale gigantesco. Le auto, i camion, i jet nelle mani di Michele e dei suoi amici si trasformarono a loro volta: ali e parafanghi, portiere e fusoliere, tettucci e timoni si aprivano e diventavano gambe possenti, toraci corazzati, piccole teste luccicanti, braccia armate. Il cinghiale divenne un cavallo, poi un bue nero, poi un'immensa ragazza di fuoco. Il padre di Michele finalmente si scosse, si guardò intorno disperato, strinse i pugni in preda a una folle incertezza, poi corse accanto al figlio, frugò frenetico nel suo zainetto, tirò fuori un transformer, lo protese contro il mostro e gridò: "Defensor!"
Michelino si voltò verso di lui. Si sorrisero.
La ragazza di fuoco scomparve. I bambini e l'uomo restarono in posizione, annusando un odore di fango, di ferro, di sogni. Poi respirarono a fondo, misero via i loro amuleti, si avviarono verso l'auto e le bici.
"Chi era, papà?" chiese Michele.
"Un diavolo antico, molto pericoloso: Maskinganna"
Michele e gli amici si guardarono e ripeterono contenti: Maskingame.
Ma lo abbiamo battuto, se dio vuole. Non si farà vivo per altri cinquant'anni.
"Grazie, bambini".

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Tricoshine

Scritto nel giugno 2007 per il libro di AA.VV., destinato ad adolescenti e giovani adulti, "Doppio misto", edito dal Centro di Documentazione Biblioteche per Ragazzi della Provincia di Cagliari, a cura di Teresa Porcella, Cagliari, ottobre 2007.


Da:
Intelligence and Trend Consulting Company
A:
Consiglio d'Amministrazione del
Consorzio Global Fashion & Cosmetics
URGENTE E CONFIDENZIALE
Roma, London, Paris, Madrid, Berlin, etc. 21 settembre 2010

Egregi Signori,
esporremo il problema con la chiarezza che esigono le circostanze. I rapporti ricevuti nelle ultime quarantott'ore dai nostri Trend Hunters, purtroppo, non lasciano spazio a dubbi: il fenomeno del "Tricoshine" (marchio registrato) si sta estinguendo prima che sia stato possibile accertare su che processi biochimici poggiasse, e come poterli riprodurre nella cosmesi industriale. Preferiamo essere drastici, benché ciò nuoccia al nostro incarico di intelligence: i capelli dei ragazzi si stanno spegnendo.

Riassumiamo brevemente il caso per i membri del Consiglio che non ne fossero compiutamente a conoscenza.

Circa nove mesi fa, in diverse città d'Europa, fra individui maschi e femmine dagli 11 ai 18 anni cominciò a verificarsi un fenomeno finora sconosciuto: i capelli acquistavano una luminescenza cromatica via via crescente per un arco di quattro-sei ore, per poi tornare al normale stato "spento". Il fenomeno si presentava solo dopo il calar del sole, solo quando i ragazzi si incontravano in numero maggiore di tre per vagare assieme nelle città, e a quanto pare solo se mostravano un rapporto di reciproca amicizia. I loro capelli, liberi o acconciati, lunghi o corti, chiari o scuri, prendevano a emanare una bioluminescenza simile a quella delle lucciole o degli organismi marini, ma assai più intensa e soprattutto di colori e sfumature variabili. Colori e sfumature che parevano differenziarsi per appartenenze scolastiche, sportive, musicali, politiche, territoriali, e altre a noi meno chiare. I ragazzi dei licei, per esempio, avevano i capelli accesi nelle sfumature dell'arancio e dell'oro, quelli degli istituti professionali variavano sui toni di viola e indaco, i cultori della musica oldest brillavano in tutte le tonalità del verde, quelli di sinistra nelle sfumature fra il vermiglio e lo scarlatto, quelli di destra fra il celeste e il blu, e così via. I ragazzi parevano non fare alcun caso al fenomeno, non innescarlo né interromperlo volontariamente, quasi non esserne nemmeno consapevoli. Semplicemente, quando più di tre individui fra gli 11 e i 18 anni, maschi e femmine e amici fra loro si incontravano, i loro capelli cominciavano gradualmente a splendere nella notte in armoniose variazioni dello stesso colore.
Abbiamo inviato sul caso i nostri migliori Trend Hunters, gli stessi che hanno tracciato fra i gruppi giovanili e consegnato alle industrie della moda le tendenze leader degli ultimi anni: i tatuaggi transpersonali, lo zoopiercing con insetti, i pantaloni trasparenti e i gioielli vegetali infestanti. Sfortunatamente, stavolta il processo di infiltrazione è stato ben più complesso. I nostri agenti non venivano accolti nei gruppi amicali perché i loro capelli semplicemente non si accendevano. Ci son voluti sei mesi per approntare squadre di Trend Hunters semi-inconsapevoli, ipnotizzati o sotto psicodroghe, che potessero entrare a far parte "veramente" di uno sciame amicale, e brillare nella notte con esso.
Cominciavano ad affluire i primi dati, e soprattutto i primi campioni di capelli in stato di luminescenza. I nostri laboratori cominciavano a rilevare la presenza di proteine ed enzimi bioluminescenti tipici delle lucciole e dei molluschi abissali; i nostri biosociologi stavano evidenziando processi di eccitazione empatica simili a quello degli sciami di api, che facevano pensare a una nascente capacità da parte di individui umani di modificare temporaneamente i loro corpi per renderli capaci di emettere nuovi e inauditi "segnali somatici" collegati all'amicizia.
Ma a quel punto il fenomeno, così com'è sorto, ha cominciato a calare rapidamente, ed è purtroppo ormai quasi estinto.
È quindi con grande rammarico che dichiariamo al Consorzio che a tutt'oggi non esistono le basi di conoscenza biochimica necessarie per progettare una linea globale di cosmetici, shampoo, lozioni e induttori genici del marchio sperimentale TricoshineÒ.

Rosso si stiracchiò pigro, staccandosi dal muro della pizzeria.
"Peccato. Era un sogno andare in giro con quei capelli luminosi nella notte. Tutti i toni dell'oro, bronzo e topazio della nostra Grande Famiglia!"
"Vero, era una meraviglia. Però ci stavano marcando. Mai visti tanti Vampiri in giro come in quei mesi"
"Già, i loro Cacciatori di Tendenze. Io non capisco come facciano: sono ragazzi come noi"
"Non come noi. Nessuno è come noi. Nemmeno noi"
"Non cominciare con le tue bollicine, adesso. Voglio solo vedere cosa faranno col nostro prossimo stile"
"Sì, e chi si stancherà prima"
"Andiamo, Rabbit. Kia e Marti ci aspettano in Piazza"
Il ragazzo e la ragazza si incamminarono.
Le loro suole lasciavano impronte bagnate, benché - notò la ragazza che li aveva osservati di nascosto bevendo una birra - non avessero calpestato alcun liquido: un trasudato dei loro piedi? La ragazza uscì a sua volta, li seguì.
Dopo trenta passi da quelle impronte cominciava a nascere una muffa azzurra, profumata, fumante. Altre impronte simili si univano e si incrociavano alle loro per le vie del centro.
Le ragazza attese che i due fossero lontani, si inginocchiò, passò un indice sull'unto di un'impronta e lo portò al naso, aspirando con stordita voluttà.
Ecco il prossimo stile. Era magnifico.
Poi urlò.

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Le tre Mamme dei Monti

Tre racconti su tre siti minerari di Sardegna, scritti per la guida turistica per ragazzi "In un regno lontano lontano...", edito dall'Assessorato al Turismo della Regione Sardegna e dalla Cooperativa Tuttestorie, a cura di Claudia Urgu, Cagliari, luglio 2008.


1 . La Mamma Nera di Monte Arci

Si narra che molti millenni fa, all’inizio dei tempi, nell’isola di Sardegna i minerali spuntassero sulla faccia della terra come fiori o sorgenti, così che non c’era bisogno di scavare miniere.
Questo fulgido raccolto di tesori, si dice, cominciò su una Montagna Sacra alta e boscosa, che nella sua infanzia era stata vulcano: il Monte Arci. Questa storia racconta come ciò accadde.
In certe grotte abitate da uomini sulle pendici del Monte Arci vivevano due bambini, un maschio di nome Oxi e una femmina di nome Dian. Un brutto giorno d’un colpo solo i due avevano perduto padre e madre, e come imponeva l’orda, che aveva più figli da sfamare che cibo per sfamarli, furono abbandonati nella foresta. Gli uomini erano certi che sarebbero morti di fame e stenti in pochi giorni, e quindi molto si stupirono, e anche si spaventarono, quando li videro sgattaiolare fra le felci durante una battuta di caccia ben due mesi dopo. Quella notte nel cerchio del fuoco discussero a lungo, e conclusero che i due piccoli dovevano aver trovato una nuova mamma: forse la stessa Mamài Neranotte. E infatti così era accaduto.
Mamài Neranotte, a detta degli uomini, che molto temevano il buio, era un mostro sanguinario che viveva nelle selve della notte, cibandosi di buio e di rocce, di bestie e di uomini, o almeno di quelli che osavano allontanarsi dai fuochi nottetempo. In realtà Mamai era un essere buono e paziente, calmo e potente, per metà donna e per metà buio, con viso e spalle e mani nere e grandi, morbide nelle carezze, e schiena e piedi sconfinati, che si perdevano nel buio dietro di lei. Mamai Neranotte adottò i due bambini, li curò e li nutrì, insegnò loro a muoversi al buio per cacciare e sfamarsi, e a nascondersi all’alba in grotte profonde per salvarsi. Così i due bambini vissero per molti mesi.
Ma la paura rendeva inquieti i maschi dell’orda, e dopo un lungo consulto decisero di fare una caccia notturna, uomini e donne insieme, armati di lance e mazze, per uccidere quei due orfani stregati e la Mamai buia che li cresceva, e così liberarsi per sempre dalla paura. Facendosi coraggio con urla e canti partirono la notte stessa, con cento torce illuminarono la selva, e tanto la batterono e frugarono che infine trovarono le tracce dei bambini, e con esse la grotta in cui dormivano.
Ma la grande Mamai Neranotte giunse prima di loro, svegliò i due orfani, con parole misteriose annunciò che era giunto il suo tempo, che doveva morire per liberare gli uomini dalle paure e renderli più confidenti nel loro mondo, sotto il sole come sotto le stelle. Ma avrebbe fatto in modo di lasciare ai suoi diletti un tesoro prezioso: buio di notte che diventa roccia.
Dette queste parole li condusse fuori della grotta, dove gli uomini esaltati e impauriti li attendevano per ucciderli. E lì Mamai Neranotte apparve immensa, nera, paurosa al cospetto degli uomini, e lì urlò, danzò, cantò, levò le braccia e con un immenso ultimo grido cadde al suolo, spargendosi e spalmandosi e sparendo, come se fosse entrata nella terra, inzuppandola di buio.
Il più feroce degli uomini, non appena si riprese dallo spavento, urlò indicando i due orfani, che erano rimasti allibiti al pari di loro: "Pagherete per gli incantesimi di vostra madre!"
Nel gridare queste parole scagliò con forza la sua mazza contro Oxi, che si scostò con un guizzo. La pesante arma urtò la roccia dietro di lui. Era una roccia strana, nera e lucida, che nessuno aveva mai visto prima di allora, e sotto l’urto della mazza si spaccò, spargendo intorno schegge nere come il buio e lucide come l’acqua di un lago notturno. Il bambino, d’istinto, afferrò una di queste schegge e come l’uomo gli si avvicinò levando l’ascia la passò veloce sulla sua gamba nuda. Sbalordito, l’uomo vide aprirsi un taglio lungo e netto, da cui già stillava il sangue. Come aveva mai fatto, quel bambino? Non aveva sentito buco di freccia che punge o strazio di mazza che pesta le carni, ma solo un soffio che taglia…
Gli uomini distrassero la loro furia, si chinarono e raccolsero quelle schegge, maneggiandole con stupore. Non avevano mai visto niente di così affilato: neanche battendo e scheggiando per giorni una pietra si sarebbe mai potuto ottenere un raschiatoio così. Ma non era un raschiatoio, quello, era una cosa nuova, era… una lama.
Le madri dell’orda, da un pezzo ormai stanche di quella cieca e spossante furia, approfittarono della perplessità degli uomini per prendere i due bambini sotto le loro pellicce, intendendo con questo che volevano salvarli e nutrirli. L’orda tornò alle grotte, portando con sé una decina di quelle incredibili schegge di roccia nera, senza stancarsi di osservarle e commentare.
Nei mesi successivi scoprirono che quella pietra vetrosa e notturna affiorava a tratti per tutto il Monte Arci; impararono a spaccarla, scheggiarla, foggiarla, ne fecero arnesi nuovissimi e imbattibili, raschiatoi, grattatoi, lame e punte, monili, addirittura specchi. La fama di quella pietra giunse ad altre orde dell’isola, che vennero a barattare, e ad altri popoli d’oltremare, che approdarono con le navi a commerciare. L’orda divenne ricca e fiorente, si dedicò all’arte della pietra nera, che in onore dei due orfani, Oxi e Dian, chiamò Oxidiàna.
I due bambini, per conto loro, sapevano chi ringraziare per quel dono. Quella roccia prodigiosa era buio indurito, cielo notturno impietrito, era la carne stessa di Mamai Neranotte che si era fusa e mescolata nella roccia per il bene loro, che furono salvi, e della loro gente, che non ebbe più paura della notte. E sotto il sole, nelle officine industriose e risonanti di colpi di pietra e schizzare di schegge, quella gente per millenni prosperò.



2 . La Mamma Bianca di Monte Gonare

Ma ancora molto tempo doveva passare prima che gli uomini, oltre a raccogliere l’Ossidiana che affiorava in superficie, imparassero a scavare la terra per cercare nelle sue profondità gli altri tesori. Ed ecco quando e come iniziarono a farlo.
Narra un’antica leggenda che sulle pendici di un’altra Montagna Sacra di Sardegna, il monte Gonare, tre millenni dopo i fatti di Mamai Neranotte, vivesse una donna bellissima, alta e forte e di pelle candida come la luna, che per questo era chiamata Lunalatte. Come le altre donne, Lunalatte portava ogni giorno l’acqua dalla sorgente al villaggio, in grandi e pesanti brocche che lei e le compagne caricavano su un fianco, reggendole con la mano. Un bel giorno Lunalatte provò a caricare la sua brocca sulla testa, ponendo di mezzo una pelle attorcigliata a ciambella, e così scoprì di poter reggere con minor fatica pesi molto maggiori. E non solo: le movenze per equilibrare la brocca sul capo le davano un’andatura elegante e maestosa, che la rese ancora più bella e attirò ancora di più gli sguardi degli uomini.
Soprattutto si invaghì di lei il giovane figlio del capo del villaggio, che si accingeva a sposare la figlia del capo del villaggio vicino. Molto si spiacquero e si irritarono i due capi, quando seppero che la bellezza di Lunalatte rischiava di mandare a monte quelle nozze; e la loro irritazione divenne furia quando le donne, invidiose e bugiarde, riferirono che Lunalatte si era vantata di poter reggere sul capo ogni cosa, compreso il capo del villaggio. Fu sfidata a portare al villaggio un’enorme pietra. Passo passo, con viso altero e andatura ferma, lo fece. Fu sfidata a portare sul capo tre donne l’una abbracciata all’altra: con grande fatica ma senza dar segni di pena, lo fece. Come terza prova fu sfidata a portare sul capo fino al villaggio, in una notte di plenilunio, la luna.
E Lunalatte lo fece.
Camminò e camminò, con la luna in equilibrio sulla testa, senza fermarsi mai. Ma quando fu nella piazza e si fermò, il peso enorme che premeva la sua testa prese a ficcare pian piano nella terra i suoi piedi, e poi le gambe, e poi i fianchi, e le braccia e le spalle. Il giovane figlio del capo con l’angoscia nel cuore innamorato, e le donne del villaggio col trionfo nel cuore invidioso, videro Lunalatte sprofondare inesorabilmente come un chiodo, come una lancia, come una radice, nella dura terra.
Quando fu del tutto scomparsa, la luna spiccò il volo e tornò nel suo cielo, e in quella terra nessuna donna partorì più figlio o figlia per sette lunghissimi anni. L’ottavo anno i saggi del villaggio, avviliti e pentiti, comprendendo che quel brutto gesto era stata la causa della lunga carestia di bambini, ordinarono che si scavasse nel punto in cui s’era inabissata Lunalatte, per riportarla alla luce, renderle onore, implorarne il perdono.
Scavarono e scavarono gli uomini, per sette lunghi giorni, ma solo dura e sterile roccia incontravano le loro zappe di ossidiana. Finché a un tratto l’ottavo giorno, a grande profondità, quelle zappe cominciarono a tagliare una pietra bianca, pastosa, grassa, che pareva fatta di roccia di luna macinata e impastata con latte. Tutti ne furono certi: era il grande corpo bianco di Lunalatte che sottoterra era cresciuto, ingigantito, ramificato, gettando vene nelle cinque direzioni, spandendo nelle viscere del monte quel minerale nuovo e dolce e stupendo.
Gli uomini scavarono ancora, allargarono il fosso, lo trasformarono in gallerie e cunicoli per portare alla luce grandi blocchi di quella pietra bianca, che poteva esser tagliata e levigata con facilità in vasellami eleganti e resistenti alla fiamma più di ogni altra pietra. Ma il taglio che divenne più noto fu quello di una statuina, che riproduceva la donna Lunalatte non così com’era stata, alta e slanciata, ma come la tribù sognava che fossero le sue proprie donne, grassa e pregna, florida e incinta, ricca di seni e di vita, di figli, di luna e di latte.
Fu resa dea e chiamata Mamma di tutti, Mamma del Monte, Mèter Orèie, Mamai.
La maledizione pian piano si placò; con una statuina di Mamai Lunalatte nella nicchia di ogni capanna, le donne del villaggio ricominciarono a fare figli e figlie. Per rendere omaggio all’antica compagna e placarne lo spirito, le donne presero a portare le brocche d’acqua sopra il capo. Per molti e molti millenni lo fecero, e qualcuna ancora lo fa. La pietra bianca e tenera, figlia della sua bella e bianca carne, fu ancora scavata dalle miniere del Monte Gonare per molti millenni, col nome greco di Steatite, che vuol dire "pietra grassa".
Molti millenni dopo, un santuario alla Signora di Gonare fu eretto sulla sommità del monte. Onora una Donna Divina assunta in cielo, e forse ricorda una sua lontana nonna assunta in terra.



3 . La Mamma Colorata di Monte Albo

Altri millenni passarono. Gli uomini continuavano a scheggiare ossidiana nera e tagliare steatite bianca, ma ignoravano che cento altri metalli di cento altri colori, buoni a usi che fanno crescere le genti, attendevano nella pancia della terra. Questa storia racconta come accadde che lo scoprissero.
Il Monte Albo era un bastione roccioso lungo trenta chilometri, che si ergeva sulle terre lì intorno come una lunga onda bianca di spuma pietrificata poco prima di abbattersi. Ma non si abbatteva e al contrario proteggeva la grande pianura dai venti freddi, facendone una terra ricca di messi, di fiori e di frutti. Gli spiriti mostruosi e oscuri come Mamai Neranotte erano scomparsi da tempo immemorabile, e ora dee e deìne luminose governavano in pace le terre sarde. Una di esse, chiamata Tanìt dai sardi, Cèrere dai romani, e con altri nomi più segreti dalle donne, regnava sui raccolti, donava ai villaggi il grano, si compiaceva dei fiori di cento colori e dei frutti sugosi.
Si compiaceva anche di una figlia, una deìna bellissima adolescente, chiamata Broculìna dai sardi e Prosèrpina dai romani, nomi che nelle due lingue significano la stessa cosa: "colei che fa spuntare dalla terra". Infatti, quando solo Broculìna lo voleva, dietro i suoi passi spuntavano a vista d’occhio fiordalisi, peonie, gigli azzurri, e maturavano all’istante fichi, ciliegie, pere, prugne e ogni frutto.
Un giorno la deìna giocava con le compagne presso un piccolo lago alle pendici del Monte Albo, quando dalle acque d’un tratto, con un pauroso muggito e grandi schiume, emerse un dio straniero, nero ed enorme. Era il dio Ade dei reami sotterranei, chiamato Plouton, il Ricco, che ogni tanto risaliva dai suoi abissi erompendo dai laghi e dalle fonti in cerca di amori.
Per Broculìna, che lo guardava con occhi sbarrati, non ci fu speranza. La breve fuga fu vana: bianca e flessuosa com’era pareva minuscola, mentre si dibatteva sotto il braccio nero, grosso come una quercia, del dio latino che la portava via. In pochi istanti il dio scomparve nel laghetto e l’acqua lentamente si quietò.
Piansero le compagne della deìna, pianse Tanìt con loro, la dea madre, e strillò e inveì al cospetto del Padre di tutti gli dei. Ma non ci fu niente da fare: Plouton era un dio molto potente e neanche il Padre degli dei poteva togliergli ciò che ormai si era preso. Broculìna avrebbe vissuto per sempre laggiù, sotto cieli di pietra, senza mai più vedere il sole e sentire il vento.
Passarono alcuni mesi. Venne il tempo delle fioriture, e nulla fiorì.
I campi e i declivi dei colli si coprirono di strani sterpi, oscuri cespugli mai visti, merlettati di mille rametti molli e fini, ma nudi e sterili, senza una foglia, senza un fiore e senza un frutto.
I contadini, pur non credendo ai loro occhi, li riconobbero e infine dovettero ammettere: quegli strani cespugli mai visti erano radici. Radici all’aria, che crescevano all’insù, spingendosi verso il cielo anziché all’ingiù dentro la terra.
Le compagne della deìna confermarono ciò che tutti oramai avevano compreso: le piante stavano crescendo all’incontrario. Broculìna, Prosèrpina, "colei che fa spuntare dalla terra", era sottoterra: e piante e fiori spuntavano dal cielo per protendersi verso di lei. Uomini e donne tremavano di fronte a quella terribile cosa, contraria alle leggi del mondo, rabbrividivano al pensiero di steli delicati e di petali dolci che si facevano strada al buio nella terra pietrosa. Come era possibile?
La carestia infuriò per mesi e mesi, il bestiame moriva, i bambini si ammalavano, interi villaggi rischiavano di scomparire. Il Padre di tutti gli dei si allarmò, porse orecchio infine alle suppliche di Tanìt e impose al nero Ade, dio sotto le montagne, di lasciar libera la deìna che aveva rapito.
Ade Plouton dovette obbedire, ma nel farlo fece mangiare alla sua giovane amante i semi rossi del melograno, che in quei tempi remoti erano il segno del legame coniugale: Broculìna poteva partire, ma ormai era sua moglie e prima o poi doveva tornare da lui. Così si accordarono, Tanìt e Ade, che la deìna vivesse con la madre per tre mesi, i mesi delle fioriture, sotto i cieli, e con lo sposo dentro la buia terra per il resto dell’anno. Così accadde, per millenni e millenni, e così accade ancora: quando torna ogni anno Primavera, Broculìna Prosèrpina torna nel mondo di sopra, e ogni pianta può spuntare come natura comanda, dalla terra verso il cielo.
Ma alcuni giovani del villaggio di Lula, alle pendici del Monte Albo, svegli di mente e curiosi del mondo, ragionarono con le compagne della deìna e si domandarono: cos’è fiorito, però, sottoterra? Avevano visto coi loro occhi il prodigio di radici che ondeggiavano gambe all’aria, ma sottoterra? Che steli, che alberi, che frutti saranno spuntati? Presero zappe e picconi e scavarono il suolo.
Trovarono ciò che cercavano. I frutti degli alberi cresciuti al contrario, pietrificati, erano diventati sottoterra i ricchi frutti minerali della roccia. I fichi neri e teneri e pesanti furono il piombo, che gli uomini sanno squagliare con poco fuoco. Le ciliegie rosse e dolci furono il rame, tenero e bello per i gioielli e per le leghe. Le prugne azzurre furono lo zinco, che con il rame si fonde e fa amicizia nella più antica delle leghe inventate dall’uomo, il giallo ottone. E le bianche pere lucenti furono argento, tenero, chiaro e lucido metallo delle monete, dei monili, degli specchi.
Vicino al villaggio di Lula si scavò la prima vera miniera di Sardegna. I romani pochi decenni dopo se ne impadronirono, la ampliarono, la arricchirono di macchinari, vi portarono schiavi e prigionieri condannati "ad metalla", cioè a scavare e cavare quei frutti duri e colorati da sotto la terra.
Fra questi schiavi vi fu un gruppo di ebrei, deportati dalla terra di Giuda. Questi parlarono ai sardi e ai romani del loro Dio, che era un Dio strano e diverso. Era un Dio severo e solenne, che non perdeva il suo tempo a rincorrere le ragazze per i monti, e che in breve volgere di secoli sconfisse e cancellò quegli dei antichi, buffi e terribili, fatui e crudeli, che avevano regnato sul mondo.
Ma i loro doni rimasero agli uomini, sopra e sotto la terra.

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Il Genio di Franklin
ovvero
La cattura dei Serpenti Scintilla


Un racconto sulla figura in gesso di Giulio Monteverde "Il Genio di Franklin" (Galleria d'Arte Moderna di Genova), scritto per il libro "Il Genio di Franklin", edito dal polo museale di Nervi nella collana "Sogno intorno all'opera", agosto 2008.


"Trappole! L’avevo detto io!"
Shawaye raggiava letizia da tutti i pori. Era sceso su quel comignolo in cui poco prima, durante il temporale, aveva visto imbucarsi e sparire un Serpente Scintilla di media grandezza. Ci si era posato sopra frullando le ali, s’era seduto a cavalcioni di una lancia di ferro che si levava dal fumaiolo verso il cielo, e ora esultava trionfante come se quel Serpente l’avesse catturato lui con le sue mani. Con una di quelle mani strinse forte una fune metallica che partiva dalla lancia e calava lungo il muro, e con l’altra fece un gesto irridente e imperioso alla bestia sparita là dentro.
"Adesso stai lì!"
Trappole: era quella la soluzione.
Un umano ci era arrivato, finalmente: doveva volare subito a dirlo a suo nonno.
Shawaye era un Pastore di Nuvole, alle sue prime armi ma bravo. Il nonno Shuyanti gli aveva insegnato bene: portava in giro nei cieli del mondo con pari destrezza le greggi leggere di Nuvole Pecorelle, le mandrie di bizzosi e pesanti Cirri Bisonti e i branchi lenti e rischiosi dei Nembi Mammuth. Il vecchio Shuyanti non si fidava ancora a lasciarlo da solo coi Cumulosauri Sovrani, veri giganti del cielo possenti e indomabili. Malgrado l’aiuto fidato di aquile e falchi, cani pastore dei pascoli celesti, coi Sovrani c’era poco da scherzare: solo il polso e la voce potente di un Pastore esperto poteva impedire a quei bestioni di gettare nella sciagura interi reami.
Per decine e decine di anni, planando al largo di terribili tempeste, Shawaye aveva osservato il suo amato nonno alle prese coi Cumulosauri infuriati. Il vecchio Shuyanti volava veloce e fluido fra zampe e cosce e colli giganti fatti di cupo vapore, cantando con voce d’argento così squillante e imperiosa da mettere i brividi perfino a lui, cui quella voce aveva cantato ninnananne. Le aquile e i falchi facevano del loro meglio, roteando e stridendo orribilmente intorno ai bestioni che si accingevano a scagliarsi uno sull’altro. Ma spesso non c’era niente da fare: i madornali esseri del cielo si scontravano, corna contro corna, fianchi contro fauci, zampe contro zanne, e da quegli abbracci furiosi scrosciavano giù sulla terra i Serpenti Scintilla.
Non che ci fosse alcun rischio per i Pastori, esseri fatti di vento che assumono forme diverse a seconda della storia che li narra. Il rischio era tutto per gli uomini, fatti di carne: i Serpenti Scintilla, che loro chiamavano Fulmini, si scagliavano sulla terra con furia e potenza immane, bruciando e schiantando case, alberi e cose, e spesso, troppo spesso, corpi e vite.
Shawaye fu il primo fra tutti i Pastori di Nuvole che si impietosì.
"Non possiamo farci niente?" – chiedeva al nonno.
"Non spetta a noi, spetta a loro" – replicava serio Shuyanti.
"Ma perché spetta a loro, nonno?"
"Perché loro patiscono il danno, e loro se ne devono difendere. E poi perché sono gli Uomini, le creature che cambiano il mondo, mentre noi siamo i Pastori, che conducono le nuvole nel cielo. Ad ognuno il suo compito"
"Va bene, però… poverini!"
Ma pensa e ripensa, a Shawaye venne un’idea. E guarda e riguarda dall’alto gli uomini in terra, vide infine uno scienziato di nome Beniamino che guardava in su ancor più di quanto lui guardasse in giù: quel Beniamino stava studiando i fulmini. Così una notte, mentre l’uomo dormiva, il Pastorello fatto di vento venne a soffiare e aleggiare alle sue orecchie, cantando questo canto.
"Tutte le cose hanno un’anima, dice mio nonno Shuyanti.
Tutto è animato.
Tutto è animale.
Basterà trattare quei fulmini come animali.
Come i brutti serpenti che sono.
Voi uomini ci sapete fare con gli animali. Vi ho visti.
I vasi per i polpi, le nasse per i pesci, le reti per gli uccelli, le gabbie per i topi…"
"Trappole!…" – mormorò Beniamino, agitandosi nel sonno.
"Trappole per Fulmini, esatto. Voi richiamate gli animali con le esche, qualcosa che attira, che piace. Cosa piace ai Serpenti Scintilla?"
"Le punte!" – gridò Benjamin Franklin rizzandosi di scatto sul letto.
Mentre si alzava per chiudere la finestra, da cui entrava un fastidioso refolo di brezza, gli bastò riflettere un poco e tutto fu chiaro: i fulmini sono attratti dalle punte, da ciò che è ritto in piedi sulla terra, alberi, pali, uomini…
"Se io metto una bella punta di ferro su un campanile, e un cavo di rame che la collega a terra, il fulmine ne verrà attratto, ci si avventerà, correrà come un pazzo lungo il cavo e si ficcherà disperdendosi in terra senza fare più male…"
"Trappole! – cantava allegro Shawaye volando veloce verso il suo cielo – Tutto è animato, tutto è animale. Le nuvole sono il bestiame del cielo, i venti sono i loro pastori, i fulmini sono serpenti, gli uomini son cacciatori e io sono… Shawaye, il Genio di Franklin!"


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* ATTITU. La quartina che si legge in testa alla pagina è opera di una sconosciuta attitadora sarda, una popolana poetessa improvvisatrice esperta nel canto degli attitus, lamenti funebri per conto terzi. Sentendosi sul collo la commissione delle rime di compianto come un attentato alla spavalderia del canto ("Canta, che ti pago"), nel canto rivendica l'autonomia del canto:

Piango un marito altrui
né perdo né guadagno
voglio lo staio pieno

("a cuccuru", a cima, non "a raso")
né guadagno e né perdo.






Questa pagina è stata aggiornata l'ultima volta il 26 agosto 2008


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