Il Museo Archeologico Prenestino
Piano terzo
Sala XVI - Il mosaico nilotico |
Per mezzo di una scala moderna si sale ai terzo piano dove si può ammirare il famoso mosaico nilotico. Celebrato nella letteratura archeologica come esemplare inimitabile della tradizione musiva ellenistica, il grande mosaico (m. 5,85x4,31), realizzato secondo i più attorno ail'80 a.C., costituisce un manifesto programmatico della cultura alessandrina e dell'idea dell'Egitto che si erano creata i Romani. Si tratta, insieme al mosaico della Battaglia di Alessandro, a Pompei, dei più grande mosaico ellenistico pervenutoci. il mosaico in origine era il pavimento dell'abside che si apriva sui fondo dell'aula prospiciente il Foro prenestino, identificabile molto probabilmente con un iseo. Scoperto in una data imprecisabile nella seconda metà dei Cinquecento, il mosaico fu esaminato nei 1614 (con abbondanti aspersioni d'acqua per ravvivarne le immagini colorate) da Federico Cesi, il fondatore dell'Accademia dei Lincei, venuto a Palestrina in occasione dei suo matrimonio con Artemisia Colonna. li Cesi, che può considerarsi il vero scopritore dei mosaico, ordinò di riprodurio al pittore Cassiano Dai Pozzo, il quale disegnò ben diciotto tavole. Circa un decennio dopo, il mosaico fu acquistato dal cardinale Andrea Peretti (vescovo di Palestrina dall 624 all 626) che io fece staccare, suddividerlo in frammenti quadrati e trasferire a Roma. Ma nei 1640 il nuovo cardinale di Palestrina, Francesco Barberini, riuscì ad ottenere di nuovo in dono il mosaico che fece restaurare da Giovan Battista Caiandra. Quindi dispose di ricollocarlo a Palestrina, ma durante il trasporto l'opera musiva, collocata sui carri ai contrario, subì tali danni da dover essere di nuovo restaurata dai Caiandra che si avvaise delle tavole eseguite da Cassiano Dai Pozzo. Riportato, dopo qualche tempo, a Palestrina fu collocato in una stanza del palazzo baronale. Tra il 1853 e il 1855 fu sottoposto ad un nuovo accurato restauro voluto dai principe Francesco Barberini ed effettuato dall'architetto Giovanni Azzurri. L'ultimo distacco fu effettuato durante la seconda guerra mondiale per ragioni di sicurezza. Nei primi anni Cinquanta fu riportato a Palestrina e collocato nella sala in cui è attualmente. I restauri e gli studi condotti allora da Salvatore Aurigemma e da Giorgio Gullini permisero di distinguere le parti originali da quelle restaurate o rifatte come il frammento con la barca di papiro e i banchettanti sotto un'incannucciata il cui frammento originale, attraverso intricate vicende svoltesi soprattutto nei '700, è finito nella collezione di antichità dei Pergamon Museum di Berlino. Il soggetto nilotico del mosaico allude, secondo il Marucchi, ad uno stretto rapporto fra Iside, divinità egizia, e Fortuna Primigenia, venerata a Pt~enes1e. Secondo il Romanelli l'ispirazione dei lavoro consiste nella grande suggestione che l'ambiente egizio - considerato all'epoca esotico e fiabesco - esercitava sulla fantasia dei Romani. Per la Reggiani, attuale Soprintendente archeologica dei Lazio, il mosaico che è da mettere in relazione con l'opera di Demetrio il Topografo (paesaggista attivo nei il sec. a.C.) è allo stesso tempo una carta geografica ed una tavola di storia naturale. Nella parte alta è raffigurata l'Etiopia e l'Alto Egitto, con i suoi paesaggi, uomini, piante ed animali tipicamente africani. Predominante è il paesaggio, ove il Nilo scorre tra rocce a picco, terre accidentate e cespugliose animate da belve e cacciatori. Ogni animale è contrassegnato dai nome: ma questi nomi appaiono scarsamente decifrabili, in parte per le note variazioni e corruzioni linguistiche già presenti nell'antichità, in parte per i molti e non sempre rigorosi interventi di restauro subiti dal mosaico. Anche la morfologia degli animali è spesso sensibilmente alterata: alcuni di essi sembrano puri parti di fantasia privi di riscontro nella fauna africana. La zona inferiore dei mosaico presenta animali più vicini alla realtà e meglio identificabili. in posizione centrale è la famosa scena dei banchetto sotto il pergolato, che richiama le feste lascive celebrate in onore di Serapide lungo il canale dei canopo. Si rilevano inoltre: un tempio a colonne con ampia tenda, sotto la quale dei soldati celebrano un rito (probabilmente il tempio di Ammone a Tebe); un altro tempio con accanto due obelischi ed un pozzo-idrometro, che serviva per misurare il livello delle acque; una capanna di steli di papiro, su cui nidificano le cicogne; altre costruzioni varie, modeste o grandiose, solide o in rovina; aree, edicole, vegetazione, palmizi; una nave da guerra; barche di pescatori e di viaggiatori di rango; scene di agricoltura, di caccia, di allevamento, di pesca. L'idea che si ricava da una visione d'insieme dell'opera non è quella dell'Egitto tradizionale, bensì di un paese ellenizzato, con templi costruiti secondo i canoni greci, che ospita truppe di opliti, ove indigeni ed animali sono relegati su uno sfondo di sapore esotico e selvatico, sottolineato dai nomi delle bestie scritti in greco, per far colpo su una committenza che si immagina profana in questo campo. Nella stessa sala si può vedere il plastico ricostruttivo dei tempio della Fortuna. Realizzato nei primi anni Cinquanta, nei primitivo museo venne collocato nella sala attualmente adibita a mostre temporanee. Recentemente restaurato è stato qui collocato. |
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