Le Samhita, che spesso vengono chiamate Veda sono
quattro:
Rig-Veda
(Veda delle stanze laudative);
Yajur-Ved (Veda delle formule sacrificali - yajus);
Sàma-Veda (Veda delle melodie - saman)
Atharva-Veda (Veda
delle formule magiche - atharvan).
Il termine Veda deriva dalla radice
indo-arian vid, «conoscere». Gli autori vengono tradizionalmente detti rishi: si
tratta di «veggenti»: grazie alle proprie intuizioni e al soma (una bevanda
derivata da una pianta allucinogena di cui ancora non si è riuscito a sapere)
essi vengono ispirati e sollecitati a trasmettere all'umanità quello che hanno
appreso: lo Yajur-Veda con le formule del sacrificio, il Sàma-Veda con le
melodie musicali, l'Atharva-Veda con formule magiche.
Il Rig-Veda è quello
che ha un significato filosofico più profondo: è infatti probabilmente il più
antico documento filosofico della letteratura indo-europea, e viene
generosamente collocato nel XV sec. a. C. L'eterogeneità dei contenuti e di
visioni è da imputare a più autori: i Rig-Veda sono l'assemblaggio di ben 1017
inni, suddivisi in 10 libri, e fra i cui compositori compaiono anche nomi di
donne. Sono di fattura molto complicata, per quel che riguarda la loro
composizione; il poema inizia spesso con una strofe d'attacco, ad esempio una
domanda o una frase folle, proseguendo con l'enumerazione delle prodezze da
attribuire alla divinità indicata; il tono poi si smorza e l'inno termina con
una domanda a colui che l'ha commissionato, o con una preghiera per il bene
collettivo o individuale Altri poemi sono stati invece composti ai margini di
qualche rito, per qualche competizione linguistica, tanto care agli antichi
Indiani. Nei Veda quindi si riscontra proprio per questo quello che si chiama
enoteismo: compaiono infatti molti dei: Agni (fuoco); Dyaus (il cielo); Vàyu (il
vento o l'aria); Sùrya (il sole); divinità astratte come Indra, Varuna e Vishnu;
spiriti di boschi: a turno tutte queste divinità assumono un ruolo e una
considerazione maggiori nell'inno ad esso dedicato.
Nel Rig-Veda si
rincorre, da parte dell'uomo, l'ordine perpetuo del mondo (Rita), che, non
riuscendo a raggiungere, vengono contemplati con grande stupore dall'uomo
stesso. Si parla di un tempo in cui non esisteva niente, tranne l'Uno (tad
Ekam), grazie al cui calore interno si generò il mondo: «l'enigma della vita non
sarà mai decifrabile»: questa è la constatazione cognitiva che si ha alla fine
di questo canto.
Tutta la serie di riti domestici e privati è esclusa da
questa Samhita, perché i poeti che le componevano erano in questi casi sempre
invitati per grandi occasioni. Dopo il Rig-Veda, il più importante è
l'Atharva-Veda, che ha contenuti ritenibili "magici" che verranno meglio
sviluppati nelle Upanishad, e sono più tardi venne a far parte del trittico dei
trayì vidyà, ovvero triplice sapere.
Negli Inni non viene preso in
considerazione quello che ci sarà dopo la morte, in genere si concepisce l'uomo
come immortale: a seconda della sua condotta finirà nel mondo di Vishnu o di
Yama. Quest'ultimo divenne in seguito la divinità degli Inferi per eccellenza,
essendo stato il primo ad essere morto, acquisendo anche la carica di
giudicatore degli uomini. Ma ci sono Inni dove si mostra che l'immortalità va
cercata, ad esempio con i sacrifici.
Anche questa Samhita non ha caratteri
popolari, e nel qual caso compaiano, sono sempre analizzati con nobiltà; le
divinità invocate sono le stesse del Rig Veda, con il quale ha in comune alcune
strofe.
Nella Yajur Veda Samhita il sacrificio è analizzato nei suoi aspetti
tecnici, con una raccolta di testi citati durante le cerimonie, anche queste
riprese dal Rig Veda; ma ancora, qui vi sono invocazioni in forma ritmata, dalle
quali prende il nome questa Samhità. Al contrario di quanto avviene nelle altre,
qui non è particolarmente curato l'ordine, perché in essa sono racchiuse anche
strofe del Brahmana.
L'ultima Samhità, il Sama Veda, non presenta caratteri
di originalità, in quanto è la ripetizione del Rig Veda con accanto le
indicaizoni tecniche per i cantori.
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