TESI DI LAUREA

 

Niente al mondo può prendere il posto della persistenza

Non il talento

Niente è più comune di persone di insuccesso con talento.

Non la genialità

La genialità non riconosciuta è quasi un proverbio.

Non l’istruzione

Il mondo è pieno di derelitti istruiti.

La persistenza e la determinazione da sole sono onnipotenti.

 

Calvin Coolidge, 1932.

 

 Premessa

Già Ippocrate riconobbe l’importanza clinica dell’obesità e diede alcuni consigli per il suo trattamento:

"La gente grassa che voglia dimagrire deve fare ginnastica a stomaco vuoto e arrivare a tavola esausta...deve mangiare un solo pasto al giorno, non fare bagni, dormire sul duro e andare in giro vestita il meno possibile".

Già a quei tempi evidentemente non vi erano dubbi sul fatto che l’obesità va trattata perché riduce la durata della vita.

Purtroppo, studi condotti su soggetti obesi dimostrano che è assai raro il riscontro di pazienti che si siano sottoposti a terapia dimagrante e, dopo aver raggiunto un più o meno soddisfacente decremento dl peso corporeo, lo abbiano successivamente mantenuto.

Il caso più frequente è quello di soggetti che si sono sottoposti a molteplici tentativi di dimagrimento, inesorabilmente seguiti da recupero ponderale. Assai spesso il nuovo peso risulta anche maggiore rispetto a quello precedente la dieta ipocalorica.

Gli autori di lingua anglosassone hanno chiamato "Weight Cycling Syndrome" questo fenomeno che sta segnando il nuovo quadro evolutivo dell’obesità. Non si tratta però di un semplice problema nosografico, ma tale fluttuazione sembra contenere risvolti fisiopatologici tali da modificare lo stesso quadro clinico dell’obesità.

Sembra infatti che i molteplici cicli di restrizione calorica e di rialimentazione, con decremento di peso e ripresa ponderale, siano in gradi di indurre significativi effetti sull’efficienza energetica dell’organismo con risvolti sull’andamento del peso. Anche la composizione corporea ne subisce importanti conseguenze con peculiare distribuzione regionale del tessuto adiposo.

Inoltre, aspetto più inquietante, sembra che la fluttuazione del peso incida in modo significativo sul rischio di mortalità per patologia cardiovascolare legato all’eccesso ponderale.

Quando il dimagrimento è rapido, la perdita è in gran parte da attribuire alla componente idrica e alla massa magra e successivamente al tessuto adiposo. La perdita della massa corporea e soprattutto della massa magra, associata alla restrizione calorica, induce una serie di modificazioni caratterizzate da riduzione della capacità del dispendio energetico: l’organismo ha ridotto le sue necessità caloriche.

Nella fase di rialimentazione esse si esprimono con prevalente incremento del grasso corporeo.

Inoltre, quando esiste una restrizione calorica, essa configura uno stato di deprivazione nutrizionale sia fisiologica che psicologica.

La prima evoca segnali "biologici" di fabbisogno energetico che sostanzialmente si traducono in fame; la seconda evoca segnali di "restrizione". Devono infatti essere attivate contromisure razionali e comportamentali che consentano di resistere "cognitivamente" ai vari richiami sia biologici che psicologici.

Alla luce di tutto ciò appare chiaro come gl’insuccessi della terapia dimagrante siano indiscutibili. Deve, però, essere attentamente valutato quanta parte della responsabilità è da attribuire al paziente oppure quale sia la responsabilità del medico o della dietista e dei programmi terapeutici che si vogliono attuare.

Secondo il mio modesto parere deve essere innanzitutto cambiata la mentalità sia del medico che del paziente impostando un nuovo approccio al trattamento dell’obesità e indirizzando la maggiore attenzione alla prevenzione delle ricadute.

Quando il dimagrimento è rapido, la perdita è in gran parte da attribuire alla componente idrica e alla massa magra e successivamente al tessuto adiposo. La perdita della massa corporea e soprattutto della massa magra, associata alla restrizione calorica, induce una serie di modificazioni caratterizzate da riduzione della capacità del dispendio energetico: l’organismo ha ridotto le sue necessità caloriche.

Nella fase di rialimentazione esse si esprimono con prevalente incremento del grasso corporeo.

Inoltre, quando esiste una restrizione calorica, essa configura uno stato di deprivazione nutrizionale sia fisiologica che psicologica.

La prima evoca segnali "biologici" di fabbisogno energetico che sostanzialmente si traducono in fame; la seconda evoca segnali di "restrizione". Devono infatti essere attivate contromisure razionali e comportamentali che consentano di resistere "cognitivamente" ai vari richiami sia biologici che psicologici.

Alla luce di tutto ciò appare chiaro come gl’insuccessi della terapia dimagrante siano indiscutibili. Deve, però, essere attentamente valutato quanta parte della responsabilità è da attribuire al paziente oppure quale sia la responsabilità del medico o della dietista e dei programmi terapeutici che si vogliono attuare.

Secondo il mio modesto parere deve essere innanzitutto cambiata la mentalità sia del medico che del paziente impostando un nuovo approccio al trattamento dell’obesità e indirizzando la maggiore attenzione alla prevenzione delle ricadute.

 

INTRODUZIONE

L’approccio comportamentale, inteso come realistica terapia per l'obesità, ha come scopo principale il cambiamento delle abitudini alimentari e dei livelli di attività fisica.

Naturalmente, l’aver riconosciuto una predisposizione genetica ed una serie di meccanismi biologici legati all’obesità può rendere la terapia cognitivo-comportamentale particolarmente difficile per molti soggetti obesi.

Dalla sua introduzione intorno agli anni ’60 il trattamento cognitivo ha subito una serie di miglioramenti, adattamenti ed ampliamenti.

Il metodo punta l’attenzione sul cambiamento del modo di mangiare, sulla restrizione calorica, sul miglioramento qualitativo dell’alimentazione, sull’aumento dei livelli di attività fisica, sul miglioramento dei rapporti interpersonali ed interviene sullo sviluppo di pensieri disfunzionali sul mangiare e sul controllo del peso.

Solo negli ultimi tempi specifiche strategie di mantenimento sono state inserite in tale programma.

All’inizio degli anni ’80, la terapia cognitiva è stata combinata con la farmacoterapia e con le diete a bassissimo contenuto calorico (VLCDs) al fine di indurre una sostanziale perdita di peso. Questo sviluppo ha segnato una linea di aggressività nel trattamento che si scontra con la gradualità che lo caratterizza già dal suo nascere.

Successivamente la teoria cognitiva è stata da molti studiata, analizzata, e largamente accettata rappresentando, oggi, una componente essenziale in qualunque programma di trattamento dell’obesità.

Descrizione del trattamento.

Il punto focale del trattamento cognitivo-comportamentale è l’auto-monitoraggio: la registrazione dettagliata e giornaliera dell’intake di cibo associato alle circostanze in cui tale assunzione avviene.

Tale registrazione permette al medico o alla dietista di determinare quando, dove, sotto quali stimoli avviene l’alimentazione; nello stesso tempo permette al paziente di rendersi conto dei progressi compiuti nella lotta contro il peso in eccesso.

Lo scopo è comunque anche quello di dare delle informazioni ai pazienti sul loro problema, come intervento preliminare ad un intervento cognitivo più ampio, in base all’ipotesi che alcune convinzioni disfunzionali, spesso determinanti il fallimento del programma, abbiano origine da disinformazioni o conoscenze scorrette.

Credo che l’intervento educativo-informativo sia un’importante ed essenziale componente del trattamento, poiché è in grado di promuovere delle modificazioni significative negli atteggiamenti e nei comportamenti, fondamentali per modificare in modo duraturo lo stile di vita.

Il cambiamento può essere ottenuto utilizzando particolari tecniche che possono essere suddivise in 4 aree principali:

  1. Alimentazione e controllo del peso.

  2. Attività fisica.

  3. Psicologia della modificazione dello stile di vita.

  4. Informazioni ed educazione sull’obesità e sullo stile di vita.

La sezione dedicata alla psicologia della modificazione dello stile di vita (che è la parte più originale dato che molto poco è stato scritto finora )si basa proprio sull'applicazione della teoria cognitivo-comportamentale all'obesità e sui lavori clinici e di ricerca elaborati dalla scuola cognitivo-comportamentale americana.

Le aree di lavoro comprenderanno, quindi, auto-monitoraggio, il supporto sociale, il controllo degli stimoli, l'assertività, la gestione dell'alimentazione emotiva, la prevenzione delle ricadute e le tecniche per imparare ad accettare un peso ragionevole, inteso come unico e fondamentale scopo da raggiungere.

 

IL PESO RAGIONEVOLE COME UNICO OBIETTIVO POSSIBILE

Un soggetto con problemi di obesità ha due ossessioni che lo tormentano: la prima è che il suo peso è molto al di sopra di quello ideale riportato dalle tabelle delle assicurazioni; la seconda è che la sua figura è totalmente diversa dall'ideale estetico che la nostra società ci propone.

Come successivamente sarà discusso, questi obiettivi sono, nella maggior parte dei casi, irraggiungibili e l'unico vero obiettivo possibile sembra essere quello che il prof. Brownell dell'università di Yale chiama il "peso ragionevole".

Il peso ideale

Il concetto di peso ideale nasce da uno studio condotto da una società americana, la Society of Actuaries, sulla polizza di assicurazione di 26 Compagnie degli Stati Uniti e del Canada. In tale ricerca si è cercato di stimare quale fosse il peso che, associato ad una determinata altezza, permetteva la massima aspettativa di vita e quindi sono state fatte delle tabelle dei pesi ideali.

Secondo la classificazione corrente, ricavata da queste tabelle, quando il peso di un individuo eccede del 10-20% quello ideale, costui si definisce in sovrappeso; lo si considera invece obeso quando l'eccedenza supera il 20%.

In particolare si definisce l'obesità di lieve grado se l'eccesso di peso è compreso tra il 21 ed il 40%, di medio grado tra il 41 e il 100% e di grado elevato se è maggiore del 101%.

Purtroppo tutti gli studi scientifici che hanno valutato i risultati dei trattamenti dimagranti hanno evidenziato che, con i programmi terapeutici a nostra disposizione , non è possibile far raggiungere il peso ideale alla maggior parte dei soggetti obesi.

Tale esperienza ha confermato quanto riportato dagli studi scientifici: l'obiettivo del peso ideale non è adeguato per la maggior parte dei soggetti obesi!

Il peso estetico

Il corpo delle donne nel corso della storia è stato sempre visto come qualcosa che poteva essere modificato e controllato.

Negli ultimi trent'anni la progressiva liberalizzazione dei costumi ha portato ad una vera e propria rivoluzione dell'aspetto fisico. Le donne si sono liberate dai vestiti ingombranti e scomodi, della biancheria intima castigata, hanno iniziato a usare il bikini e a mostrare il proprio corpo senza pudore. Ciò ha però lentamente determinato una progressiva modificazione delle preferenze nei riguardi della figura femminile: il corpo si può mostrare, ma deve essere magro. L'ideale estetico che si è andato affermando si può riassumere con la frase: magro è bellissimo.

La pressione sociale raggiunge il suo apice nel 1976, quando la fotomodella Twiggy conquistava una popolarità internazionale proponendo un'immagine emaciata. Uno studio condotto sul concorso Miss America ha confermato questo fenomeno, evidenziando che, dagli anni 60 in poi, c'è stata una progressiva riduzione del peso e della taglia corporea delle partecipanti alla finale.

Tutto questo ha lentamente influenzato i gusti della popolazione e la magrezza è così gradualmente diventata simbolo di bellezza, autocontrollo e successo.

E' chiaro, quindi, che se il peso ideale non è un obiettivo raggiungibile, il peso estetico, che in taluni casi è del 15% inferiore a quello ideale, è del tutto improponibile ed il suo raggiungimento, in alcuni individui a rischio, può portare allo sviluppo di gravi disturbi del comportamento alimentare.

Perché non e possibile raggiungere il peso ideale ed il peso estetico

Il nostro corpo, nel corso della sua evoluzione, ha sviluppato sofisticati meccanismi biologici e psicologici per difendersi dalla dieta e dalla perdita di peso.

Inoltre va detto che più severa è la restrizione maggiore è il risparmio energetico. Questo meccanismo di adattamento è stato di fondamentale importanza per la sopravvivenza della nostra specie. Se il meccanismo di conservazione dell'energia è molto utile in condizioni naturali di mancanza di cibo, non lo è invece quando un individuo intraprende una dieta dimagrante.

Il momento in cui non si riesce più a perdere peso, pur continuando la dieta, viene chiamato "fase del plateau o dell'arresto della perdita di peso"; è un'esperienza comune a tutti i soggetti sottoposti a diete ed è dovuta al fatto che l'organismo si adatta alla restrizione calorica riducendo il consumo di energia.

Anche la perdita di muscolo contribuisce a ridurre tale consumo: con la dieta non perdiamo solo grasso, ma anche una quota considerevole di massa muscolare, calcolata intorno al 25% della perdita totale di peso. Meno muscolo si ha, meno si consuma.

Inoltre, quando il peso di un individuo, in seguito ad una dieta, inizia a diminuire è probabile che si liberino delle sostanze che vanno ad informare alcune aree del cervello riguardo al fatto che esso è sceso al di sotto di quello biologicamente corretto; il cervello riceve il messaggio ed inizia a modificare i meccanismi che regolano la fame e la sazietà.

Altre ricerche hanno osservato che, quando la dieta dura per molto tempo, gli individui diventano generalmente più sensibili ai segnali esterni che portano a mangiare, ad esempio il vedere o il sentire l'odore di cibi appetitosi; in alcuni può anche comparire un profondo desiderio di dolci o di carboidrati e di cibi ricchi di grassi. Altri studi hanno evidenziato che i restrittori salivano di più in risposta a cibo attraente (ad es. il vedere e l'odorare una pizza cotta al forno).

Queste ricerche sono consistenti con l'ipotesi che i soggetti in restrizione alimentare da una parte abbiano una riduzione della sazietà e dall'altra siano fisiologicamente affamati.

Modificazioni psicologiche indotte dalla dieta

Gli effetti psicologici della restrizione alimentare sono stati brillantemente studiati dal prof. Keys e dai suoi collaboratori dell'università del Minnesota. Questi ricercatori hanno sottoposto 36 obiettori di coscienza normopeso ad un "semidigiuno" per sei mesi come alternativa al servizio militare durante la seconda guerra mondiale. I soggetti ebbero una riduzione del 25% circa del peso corporeo iniziale con una dieta che includeva la metà delle calorie che assumevano prima dello studio. Sebbene i partecipanti, prima dell'inizio delle ricerca, fossero psicologicamente sani, la maggior parte mostrò, durante lo studio, significative modificazioni psicologiche (depressione, ansia, irritabilità, rabbia) che vennero indicate come: "nevrosi da semidigiuno".

Una recente revisione della letteratura scientifica sull'argomento ha chiarito un po’ meglio le cose. Durante la dieta sembrerebbero esserci due momenti distinti: in una prima fase l'iniziale successo nella perdita di peso, associato ad alcune modificazioni dei neurotrasmettitori cerebrali, può portare molti soggetti, che hanno iniziato a restringere l'alimentazione perché insoddisfatti di se stessi, a sentirsi meglio psicologicamente; in un secondo tempo la nevrosi da semidigiuno diviene predominante.

Secondo il prof. Stunkard, noto studioso americano delle problematiche psicologiche legate all'obesità, gli effetti negativi delle dieta avrebbero sia una componente psicologica che biologica. Da un punto di vista psicologico molti soggetti a dieta si sentono euforici quando riescono ad ottenere qualche risultato ed un significativo calo ponderale. Quando però si accorgono che il dimagrimento non determina gli effetti desiderati (es. un aumento dell'autostima e della considerazione degli altri) diventano irritabili e poi depressi e in questo stato riutilizzano il cibo come consolazione per la propria solitudine e scontentezza.

Da un punto di vista biologico, invece, è possibile ipotizzare che gli stati d'animo negativi come l'ansia e la depressione, secondari alla dieta, siano dei meccanismi di difesa che l'organismo mette in atto per disinibire il comportamento alimentare ristretto e così riportare il peso corporeo ad un più adeguato livello biologico.

Un soggetto che perde una significativa quantità di peso si trova, quindi, in una condizione biologica e psicologica altamente sfavorevole: il suo dispendio energetico si riduce progressivamente; i sui meccanismi di controllo della fame e della sazietà si modificano al fine di renderlo più suscettibile a perdere il controllo e ad assumere un'elevata quantità di cibo; le emozioni negative secondarie alla perdita di peso agiscono, infine, come fattore disinibente e lo portano alla perdita di controllo a all'alimentazione in eccesso ed in ultima analisi all'abbandono della dieta.

Il peso ragionevole: che cos'è e come calcolarlo

Negli ultimi anni, sono stati pubblicati numerosi articoli sulle più autorevoli riviste scientifiche internazionali che evidenziano che per curare le complicanze mediche legate all'obesità non è necessario perdere molto peso ma, nella maggior parte dei casi, è sufficiente un modesto decremento ponderale.

E' stato ad esempio osservato che un calo del 5% del peso corporeo riduce o elimina i rischi associati all'obesità e che una riduzione di peso compresa tra 10 e 20% nel corso do un periodo compreso tra i due e i cinque anni riduce significamente i rischi per la salute in generale.

Così, mentre un forte calo di peso è quasi sempre difficilmente raggiungibile, ma soprattutto mantenibile nel tempo e spesso si accompagna a reazioni psicologiche avverse, un modesto decremento ponderale è raggiungibile dalla maggior parte degli individui, arreca importanti benefici sia a livello biologico che psicologico.

Da queste ricerche è nato il concetto di peso ragionevole come quel peso che può essere ragionevolmente raggiunto e mantenuto e che permette buone condizioni di salute, fisiche, psicologiche e sociali.

Imparare ad accettare il peso ragionevole

Per molti soggetti il peso ragionevole può essere significamente al di sopra di quello ideale ed estetico.

Un compito essenziale per dietista e medico è, quindi, insegnare al paziente a convivere con un corpo che non rispecchia gli standard estetici proposti dalla nostra società ed insegnare a far fronte al pregiudizio sociale nei confronti dell’obesità. Tale pregiudizio può essere così forte che alcuni soggetti arrivano al punto di odiare il proprio corpo e di trattarlo come un nemico che vorrebbero annientare; fortunatamente ciò non accade a tutti, ma può bastare un piccolo commento, un leggero aumento di peso, un gonfiore di pancia dopo il pasto, un momento di stress per fare insorgere l’insoddisfazione corporea.

Inoltre, va ripetuto, che la perdita di peso non sempre riesce a migliorare l’immagine corporea ed alcuni soggetti vanno incontro a quello che si definisce il fenomeno del "grasso fantasma", cioè non notano alcun dimagrimento e continuano a vedersi grassi come prima nonostante abbiano perso un consistente quantitativo di peso.

Per avere successo in un programma di perdita di peso è molto importante cercare di migliorare l’immagine corporea del soggetto obeso e di ridurre il ruolo centrale dell’aspetto esteriore nel determinare l’autostima del paziente stesso.

Come mantenere il peso ragionevole

Il mantenimento deriva da una modificazione globale dello stile di vita, che la somma di tanti piccoli risultati raggiunti sotto aspetti diversi: essere motivati, avere obbiettivi realistici, fare attività fisica, seguire un’alimentazione corretta, chiedere il supporto di altri, controllare gli stimoli, gestire le emozioni, imparare ad identificare ed a gestire le situazioni ad alto rischio, accettare il peso ragionevole.

Gli Anglosassoni definiscono bene l’insieme di questi elementi con il termine «The big picture».

Come modificare l’alimentazione per mantenere il peso.

I possibili successi durante il trattamento e/o a distanza sono dovuti alla capacità o possibilità del malato di osservare le istruzioni ed i consigli suggeriti dal medico e dalla dietista.

E’ indubbio che fondamentale importanza ha il rapporto che si riesce a creare fra terapisti e paziente obeso: i ripetuti incontri, la comprensione e l’interesse per le sue problematiche, la disponibilità di tempo per attuare quel necessario processo di rieducazione, per fornire precise informazioni dietetiche e sull’attività fisica da svolgere, i controlli periodici, costanti e frequenti, ma soprattutto protratti nel tempo e la ricerca di valide motivazioni per la perdita di peso, rappresentano verosimilmente gli aspetti da prendere in considerazione nell’interpretazione dei favorevoli risultati ottenuti.

Sulla base di queste osservazioni, sottolineando il concetto che il miglior modo di curare l’obesità è prevenirla, penso che si possa tentare con buone probabilità di successo di "liberare dalla sua prigione adiposa quel magro che vi è incarcerato dentro e fa cenni disperati - secondo una stimolante immagine - per esserne liberato".

Il primo passo per prevenire la ricaduta è l’eliminazione della barriera artificiale che spesso viene posta tra il dimagrimento ed il mantenimento.

Infatti, per quel che riguarda l’alimentazione, le strategie per perdere peso sono pressoché uguali a quelle per mantenerlo, poiché la differenza non è molto ampia e per molti pazienti può essere di sole 200-300 calorie; pertanto, quando si arriva all’obiettivo del peso ragionevole non è consigliabile far abbandonare bruscamente il programma alimentare, ma è utile procedere per gradi.

E’ utile fornire dei consigli al paziente per evitare la ricaduta, consigli che la dietista dovrà suggerire anche al fine di mantenere quel "contatto" che per il soggetto a dieta è fondamentale.

Eccone alcuni:

  • Non far guardare ciò che il paziente mangia come una "dieta": ormai questa parola ha assunto una connotazione negativa, caratterizzata da sacrifici, restrizioni e privazioni, che alla fine portano inevitabilmente alla trasgressione. Compito della dietista è presentare l’alimentazione controllata, al pari dell’attività fisica, come qualcosa di positivo, che permette di raggiungere e mantenere buone condizioni di salute, ma soprattutto, che può essere adottato per tutta la vita.

  • Sono consigliabili tre pasti al giorno più uno o due spuntini, evitando che trascorrano lunghi periodi di tempo senza assumere cibo. Ciò ha un’importanza sia metabolica che comportamentale: i soggetti che hanno un comportamento "nibbling" (assunzione frequente di piccole quantità di cibo) hanno, in genere, meno grasso corporeo e consumano più calorie rispetto ai non-nibbling (è, infatti, necessaria una certa quantità di energia per attivare più volte la "caldaia" del consumo energetico); inoltre, il mangiare frequentemente riduce la fame tra i pasti, aiutando a ridurre il rischio di "lapse" e di comportamenti disinibitori di tipo bulimico.

E’ importante non restringere troppo l’alimentazione: appare preferibile un’alimentazione varia e bilanciata piuttosto che seguire uno schema dietetico rigido e fortemente ipocalorico. Il desiderio irresistibile ("craving") per alcuni cibi, osservato in qualche soggetto obeso, è la conseguenza diretta della restrizione alimentare ed è simile in tutti i soggetti a dieta.

 

IMPARARE A MONITORARSI

Uno dei più importanti aspetti nel trattamento dell'obesità è imparare a monitorarsi.

Numerosi studi hanno, infatti, evidenziato che gli individui che imparano ad analizzare la propria alimentazione e la propria attività fisica hanno migliori risultati di quelli che non lo fanno. Il fatto di monitorarsi aiuta il soggetto obeso a diventare consapevole del proprio comportamento, e soprattutto ad assumere un ruolo attivo nel processo di cambiamento che lo porterà a raggiungere e mantenere il peso ragionevole.

Il diario alimentare

La cosa forse più importante per modificare lo stile di vita è diventare consapevoli del proprio comportamento compilando un diario alimentare.

Molti pazienti affermano che non è necessario compilare un diario per sapere cosa si mangia, eppure solo in questo modo è possibile valutare quanti eventi possano influenzare lo stile alimentare, che è condizionato da stimoli interni, provenienti dal corpo, ed esterni, originati dall'ambiente; spesso solo con la compilazione del diario il paziente si rende conto che molte volte mangia non per fame, ma sotto la spinta di numerosi stimoli, sociali ed emotivi. L'alimentazione di molte persone è automatica e ciò porta spesso a non apprezzare il cibo ed a mangiare in eccesso.

Il diario proposto è composto di diverse colonne, nelle quali si dovrà riportare l'ora, il cibo e le bevande consumate, il luogo dove si mangia, quando si è assunto il cibo che si avvertito come essere eccessivo ed infine il contesto ed i commenti sulla alimentazione.

 

Il diario alimentare

Giorno................... Data..................

Ora

Cibo e bevande consumate

Luogo e attività

*

Contesto e commenti

 

 

 

 

 

 

 

 

Istruzioni alla compilazione del diario alimentare:

Nella prima colonna il paziente segnerà l'ora in cui mangia o beve qualsiasi cosa.

Nella seconda colonna verrà indicato cosa il paziente mangia o beve, compresi gli episodi di alimentazione incontrollata. Bisognerà istruire il paziente a non tralasciare nulla.

Nella terza colonna occorre specificare dove si è mangiato o bevuto qualcosa e che cosa si sta facendo mentre si mangia.

La quarta colonna conterrà degli asterischi in corrispondenza del cibo che il paziente sente essere eccessivo. Le abbuffate saranno pertanto rappresentate da una catena di asterischi.

La quinta colonna sarà utilizzata come un diario in cui sarà segnata qualsiasi cosa influenzi l'alimentazione.

Come analizzare il diario

Il diario va analizzato ogni settimana senza valutarlo con troppa severità.

Ora: analizzando gli orari il paziente potrà identificare il proprio ritmo alimentare. Spesso le persone con problemi di peso saltano la colazione e mangiano poco a pranzo, per poi abbuffarsi nel tardo pomeriggio o a cena.

Cibo e bevande consumate: riflettendo sul diario il paziente si rende conto della qualità della propria alimentazione (recenti ricerche hanno evidenziato che, spesso, le persone con problemi di peso tendono a riportare quantità inferiori a quelle reali.

Luogo ed attività: questa colonna rende cosciente il paziente di dove, e facendo che cosa, mangia.

*: la compilazione di questa colonna renderà il paziente consapevole del cibo mangiato in eccesso. La colonna è particolarmente utile per analizzare se l'alimentazione in eccesso è stata scatenata da fattori esterni (guardando la colonna del luogo e dell'attività) o da fattori emotivi e biologici (eccessiva fame biologica). Molto utile è anche per quelle persone che hanno episodi bulimici, spesso scatenati dalla rottura di una rigida regola dietetica.

Contesto e commenti: questa è forse la colonna più importante. L'alimentazione è spesso influenzata da numerosi stati emotivi, che possono essere negativi (rabbia, noia, depressione, ansia) o positivi (gioia, euforia, senso di benessere).

 

 L'ATTIVITA' FISICA

Nel programma di lotta all'obesità è fondamentale convincere il paziente a ricercare la maniera migliore per aumentare significamente e in modo duraturo il proprio livello di attività fisica.

Poiché è stato chiaramente documentato che in tutti i soggetti adulti il fabbisogno energetico basale è superiore a mille Kcal giornaliere, ogni obeso che aderisca strettamente ad una tale dieta, deve necessariamente perdere peso, ed è altresì ovvio che, essendo richiesta una quantità addizionale di calorie per una qualsiasi pur minima attività fisica, la perdita di peso sarà ulteriormente accentuata se, a tale restrizione dietetica, si associa un esercizio fisico, sia pur modesto.

Nuove raccomandazioni per l'attività fisica: il concetto di "accumulazione".

Nel 1993 il Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (CDC) e l'American College of Sport Medicine hanno suggerito le nuove linee guida per la prescrizione dell'attività fisica.

Queste incoraggiano gl'individui sedentari o inadeguatamente attivi ad "accumulare" 30 minuti di attività fisica ad intensità moderata per la maggior parte dei giorni della settimana.

Il motivo che ha condotto queste due associazioni a suggerire le nuove linee guida per l'attività fisica è il riconoscimento che periodi intermittenti di attività fisica sembrano avere gli stessi benefici cardiovascolari di un'attività fisica continuativa.

I benefici fisici dell'attività fisica

Per lo più si pensa che l'unico beneficio dell'attività fisica in un programma di perdita di peso sia quello di bruciare calorie.

Invece, sono molti altri i motivi che dovrebbero essere addotti al paziente obeso al fini di migliorare le sue condizioni generali. Quali?

L'attività fisica aiuta a controllare l'appetito. Una delle convizioni più difficili da sradicare nelle persone obese è che l'attività fisica faccia aumentare l'appetito, cosa invece smentita da numeroso studi sugli animali e sugli uomini che hanno dimostrato il contrario: la fame diminuisce con una moderata attività fisica. La sedentarietà, infatti, è il peggior nemico del controllo alimentare, perché determina un aumento della fame nervosa.

Inoltre, ancor più della dieta, aiuta a ridurre le complicanze mediche associate all'obesità ( riduzione di LDL ed aumento delle HDL, riduzione della pressione arteriosa, miglioramento del metabolismo glucidico, miglioramento della contrattilità cardiaca, ecc.).

Con una regolare attività fisica si riduce la perdita del muscolo (cosa che accade sempre insieme alla perdita di peso e di grasso).

Studi epidemiologici condotti sull’uomo hanno evidenziato che l’obesità si manifesta raramente nei soggetti che fanno un lavoro manuale pesante o in quelli che in genere fanno un’attività non sedentaria, inoltre soggetti non obesi che cessano di dedicarsi ad un’attività fisica regolare diventano più spesso obesi.

L’attività fisica, infatti, causa un’aumento della captazione periferica degli acidi grassi liberi associata ad un’aumentata mobilizzazione di questi dai depositi di tessuto adiposo.

In corrispettivo anatomico di questo fenomeno è la riduzione del volume degli adipociti.

Il ripetersi di questi fenomeni per ogni seduta si accompagna a delle modificazioni a lungo termine che sono fondamentalmente rappresentate dalla riduzione del tessuto adiposo che avviene in maniera lineare nel tempo.

Va sottolineato che l’attività fisica oltre ad indurre una riduzione del tessuto adiposo migliora anche la tolleranza ai carboidrati e riduce i livelli plasmatici d’insulina e riduce i livelli basali di trigliceridi nel plasma.

 

LE CAUSE DELL'OBESITA'

Esistono molti luoghi comuni riguardo all'obesità. Il più importante e difficile da sfatare è sicuramente quello secondo cui gl'individui obesi dovrebbero il loro eccesso di peso esclusivamente all'ingordigia ed alla golosità.

In una società che ci offre a tutte le ore una enorme quantità di cibo e cerca in tutti i modi di convincerci, attraverso la pubblicità, a comperarlo, quelli che diventano grassi sono colpevolizzati di non essere stati capaci di resistere alla tentazioni. Quasi tutte le persone obese riferiscono di avere profondi sensi di colpa per non essere mai riuscite a controllare il proprio peso e per aver ceduto alle tentazioni della gola.

Numerose ricerche, eseguite negli ultimi anni, hanno però dimostrato che il peso corporeo è regolato in modo complesso attraverso l'interazione multipla di fattori genetici, comportamentali e sociali.

Fattori genetici (non modificabili)

Non bisogna essere medici per accorgersi che l'obesità è ricorrente nelle famiglie attraverso successive generazioni. E' facile osservare che quando uno dei genitori è obeso spesso anche i figli lo sono. E' stato calcolato che quando tutti e due i genitori sono obesi, l'80% dei loro figli è in sovrappeso; quando uno dei due genitori è obeso il 40% dei figli è in sovrappeso, mentre se i genitori non sono obesi solo il 7% dei figli è in sovrappeso.

Il ruolo dell'ereditarietà non è importante solamente nel determinare la quantità di grasso di un individuo, ma anche il suo tipo di distribuzione (androide o ginoide).

Gli studiosi che si occupano di genetica quantificano la forza dell'effetto della genetica con una procedura statistica chiamata "livelli di ereditabilità"; il contributo genetico nel determinare i livelli di peso corporeo nella popolazione può essere attorno al 25-40%.

Il gene dell'obesità è stato scoperto?

Recentemente con una innovativa metodica di biologia molecolare è stato clonato il gene che codifica per un fattore proteico costituito da 167 a.a. denominato "Leptina".

Questa scoperta ha riaperto la possibilità d'intervenire con successo sul problema della cura dell'obesità.

Nella teoria lipostatica, largamente accettata, si suppone che un fattore circolante secreto dal tessuto adiposo in modo proporzionale alla quantità di depositi di grasso presenti, regoli a sua volta l'attività ipotalamica in modo da inibire l'assunzione di alimenti e stimolare il consumo energetico qualora vi sia un eccesso di depositi di grasso. Viceversa, una diminuzione della massa grassa comporta una minore secrezione e, conseguentemente, una attività ipotalamica volta al ripristino dei suddetti depositi (aumento della assunzione degli alimenti e riduzione del consumo energetico).

Nell'animale da esperimento, l'asportazione del grasso comporta iperfagia con ripristino della massa adiposa preesistente.

Un difetto nella produzione e/o azione di questo fattore può quindi essere la causa dell'obesità, in quanto verrebbe ad essere carente la regolazione a feedback negativo sull'ipotalamo deputata alla inibizione ed alla stimolazione del consumo energetico in abbondanza di tessuto adiposo.

E' in questo quadro che s'inserisce la scoperta della leptina.

Il gene ob produce questa proteina che sembra agire a livello del Sistema Nervoso Centrale, proteina che viene trascritta unicamente all'interno del tessuto adiposo.

Nel gene ob di una sottospecie di topi obesi (diabetici) è stata individuata la mutazione genica responsabile del fenotipo di questo modello animale di obesità. Nel topo con normale fenotipo vi è la produzione di un fattore circolante capace d'indurre la sazietà nel topo ob-ob che ne è deficitario e ciò sottolinea l'importante ruolo svolto da tale proteina nella regolazione centrale dell'appetito. Inoltre il livello di espressione di questo gene è proporzionale all'ammontare dei depositi di grasso presenti nell'animale. Il trattamento con leptina in topi ob-ob induce una perdita di peso dose dipendente con una conseguente notevole riduzione dell'assunzione di cibo.

In più, l'analisi della composizione corporea evidenzia che la perdita di peso è riferibile quasi esclusivamente alla massa grassa con la conservazione pressoché totale della massa magra; vi è inoltre un aumento del consumo di ossigeno, della temperatura corporea e dell'attività fisica.

Quando la leptina viene iniettata direttamente nei ventricoli laterali del cervello, essa induce una rapida modificazione del comportamento alimentare indicando che il sito di azione si trova verosimilmente a livello cerebrale.

Inoltre, la leptina riduce nei neuroni cerebrali del nucleo arcuato la trascrizione del gene per il NPY (polipeptide deputato all'aumento dell'introduzione alimentare, soprattutto di carboidrati, e fattore chiave nella regolazione del comportamento alimentare).

E' stato anche sottolineato che vi è un'azione diretta dell'insulina sulla espressione di questo gene.

E' stato quindi delineato un nuovo circuito omeostatico di controllo dell'assunzione del cibo, in cui la secrezione d'insulina indotta dagli alimenti assorbiti riduce l'ulteriore assunzione di cibo tramite la stimolazione della produzione di leptina da parte del tessuto adiposo. La leptina, a sua volta, è in grado di inibire tramite feedback negativo la secrezione di insulina pancreatica e di NPY neuronale.

In un limitato campione di soggetti obesi studiati, l'espressione del gene per la leptina era maggiore del 72% rispetto ai soggetti con normale fenotipo. Tuttavia nei 5 obesi in cui è stata analizzata la sequenza del gene ob, non è stato possibile riscontrare mutazioni responsabili dell'obesità dei topi ob-ob.

E' inoltre di qualche mese fa la scoperta che non tutto il grasso reagirebbe allo stesso modo, ma ci sono differenze regionali nell'espressione del gene della leptina: livelli di ob mRNA nell'uomo sono stati ritrovati abbondantemente nel tessuto sottocutaneo.

E' inoltre sempre dello stesso studio la scoperta che la produzione di ob mRNA varia lungo il percorso maturativo della cellula adiposa, essendo massimo nell'adipocita maturo. Fatto interessante è inoltre che i livelli di ob mRNA subiscono importanti variazioni individuali tra pazienti alimentati nella stessa maniera.

Alla luce di questo complesso quadro di regolazione alimentare ed assunto il ruolo centrale della leptina risulta evidente come delle patologie complesse quali l'obesità, la bulimia, l'anoressia nervosa possano presumibilmente derivare o da una difettosa produzione di leptina o da un mancato funzionamento del suo recettore.

I primi studi in tal senso privilegiano maggiormente una ipotesi di tipo recettoriale che non una errata sintesi e trascrizione del gene ob.

A conferma di questo, Considine e coll. sono riusciti a dosare nell'uomo la leptina dimostrando che questa è estremamente più elevata nel siero dei soggetti obesi rispetto ai normopeso, che diminuisce con la dieta, che non cambia in relazione ai pasti e con le variazioni insuliniche. Da ciò ne deriva che se la leptina viene normalmente prodotta deve esistere "all'altro estremo del filo" un difettoso meccanismo di recezione.

Nonostante queste eccitanti scoperte va detto che il gene ob non è l'unico implicato nello sviluppo dell'obesità umana, ma che, secondo alcuni autorevoli ricercatori, almeno altri 20 o 30 potrebbero avere un ruolo più o meno importante.

Un altro gene che recentemente ha avuto grande popolarità nel campo dell'obesità è quello che in gergo viene chiamato "gene del recettore beta 3 adrenergico"; sembra che una sua mutazione possa essere implicata nell'insorgenza dell'obesità e del diabete non-insulino dipendente e che gli agonisti specifici per il recettore possano essere impiegati in un futuro più o meno lontano nel trattamento dell'obesità.

Cosa ci portano a concludere gli studi sull'obesità?

Appurato quindi che ci sono molti geni responsabili, la questione che non è ancora stata risolta è: "Quanti geni sono?", "Qual è il loro meccanismo di azione?".

Ancora non si può rispondere a queste domande, ma non appena alcuni di questi gene saranno isolati, essi costituiranno un importante strumento di ricerca; si cloneranno le proteine da loro prodotte e così si comprenderà sempre meglio la fisiologia dell'obesità.

Oggi possiamo solamente affermare con certezza che l'obesità non dipende solo dalla golosità e dalla scarsa forza di volontà degli individui che ne soffrono; al contrario esistono numerose forze biologiche che spingono alcuni individui ad accumulare un'eccessiva quantità di grasso.

Per quanto riguarda il ruolo dei fattori genetici essi sembrano agire predisponendo l'individuo a sviluppare l'obesità; predisposizione non significa predestinazione, infatti, con opportune modificazioni dello stile di vita è possibile prevenire e controllare l'obesità anche nei soggetti predisposti.

L'importanza dei fattori ambientali è dimostrata dalla ridotta prevalenza di obesità nei paesi in via di sviluppo dove, certamente, esistono numerosi individui predisposti all'obesità che però non sviluppano tale condizione.

L'eccessiva enfasi sugli aspetti genetici ha però dei potenziali rischi; infatti la decolpevolizzazione completa dell'individuo obeso, può portarlo a fargli assumere il ruolo di vittima passiva e così spingerlo a cercare una soluzione esterna (es. farmaci o interventi chirurgici) senza cercare di modificare alcune aree importanti del suo stile di vita che rivestono un ruolo fondamentale nello sviluppo dell'obesità.

Fattori comportamentali (modificabili)

Nonostante l'aver assodato l'esistenza di cause genetiche dell'obesità, l'opinione comune è quella che un soggetto diventi obeso perché mangia troppo e si muove poco.

Analizziamo queste affermazioni.

Quantità di cibo assunta

La maggior parte degli studi effettuati non ha evidenziato differenze sostanziali tra soggetti obesi e soggetti normopeso nella quantità di cibo assunta. Si direbbe, quindi, che le persone obese abbiano un'alimentazione simile a quelle magre.

Questi studi, tuttavia, possono essere criticati per il fatto che ha problemi di alimentazione spesso tende a riferire al medico di assumere quantità di cibo molto inferiori rispetto a quelle reali.

Stile alimentare

E' noto che uno dei meccanismi della sazietà è la distensione dello stomaco conseguente all'assunzione di cibo.

E' stato calcolato che occorrono circa venti minuti perché lo stomaco possa informare i centri nervosi che regolano la sazietà. Durante questo arco di tempo un soggetto può assumere tutto il cibo che vuole senza sentirsi sazio. E' perciò evidente che chi tende a mangiare velocemente ha maggiori possibilità di mangiare in eccesso.

L'alimentazione veloce non è tuttavia una caratteristica esclusiva dei soggetti obesi, ma è propria di persone a qualsiasi livello di peso.

Un'altra caratteristica spesso attribuita agli obesi è quella di essere particolarmente sensibili e incapaci di resistere ai segnali esterni che stimolano l'alimentazione, ad esempio vedere del cibo appetitoso o in grande quantità.

Alcuni studi hanno, però, evidenziato che l'esternalità non è una caratteristica di tutti gli obesi, poiché alcuni di questi soggetti sono scarsamente sensibili agli stimoli esterni mentre, viceversa, individui normopeso e sottopeso lo sono molto.

Si è visto, inoltre, che la dipendenza dai segnali esterni e al diminuita capacità di resistere alle tentazioni aumentano moltissimo quando il soggetto restringe l'alimentazione e cerca di mantenere il peso al di sotto di quello ragionevole.

Problemi psicologici

Per moltissimi anni gli psicologi hanno considerato l'obesità come la conseguenza di un disturbo emotivo in cui l'eccessiva alimentazione sarebbe servita a ridurre l'ansia e la depressione.

Secondo questo modo di vedere i bambini che siano abitualmente rassicurati dai loro genitori con il cibo, una volta adulti, trovandosi in situazioni di infelicità, utilizzerebbero lo stesso mezzo per superare le difficoltà e sentirsi sicuri.

Recentemente questo punto di vista è stato messo in forte discussione.

Innanzitutto si è osservato che chi si sottopone a psicoterapia non risolve quasi mai i sui problemi di peso, inoltre, si è visto che non esistono differenze significative fra i problemi psicologici degli obesi e quelli dei normopeso.

Ridotta attività fisica

E' noto che gli obesi tendono ad essere pigri. Questo stile sedentario e la scarsa propensione all'attività fisica sono senz'altro una causa dell'obesità; è possibile, però, che l'obesità stessa determini una riduzione dell'attività fisica.

Sospensione del fumo

Molte persone che hanno smesso di fumare sono aumentate di peso. Mediamente l'aumento osservato è di circa 3,2 Kg, con ampie variazioni individuali.

Ciò può essere dovuto al fatto che chi smette di fumare cerca di sostituire il fumo con delle alternative, come ad esempio caramelle o cioccolatini.

Vari studi hanno anche evidenziato che la sospensione del fumo determina una riduzione del dispendio energetico.

Farmaci

Molti soggetti aumentano di peso in seguito all'assunzione di qualche farmaco, in particolare le donne conseguentemente alla pillola anticoncezionale. Anche i cortisonici, se assunti in modo prolungato, possono provocare le stesse conseguenze, così come dosi troppo elevate d'insulina.

Il problema più importante è però legato all'uso degli psicofarmaci (antidepressivi) che stimolano l'assunzione di dolci e di liquidi zuccherini; tuttavia nuove classi di antidepressivi, senza questi effetti collaterali, sono oggi disponibili.

E' evidente, quindi, che alcuni fattori comportamentali possono contribuire significativamente alla genesi dell'obesità. Tali fattori, a differenza di quelli genetici, possono però essere corretti ed eliminati attraverso un lavoro di collaborazione fra paziente, medico e dietista.

Fattori ambientali (parzialmente modificabili)

Eccessiva assunzione di grassi

L'ultimo secolo ha determinato, nei Paesi occidentali, un radicali cambiamento delle abitudini alimentari.

Per la prima volta nella storia non solo non ci sono più problemi di carestia, ma è possibile comperare qualsiasi cibo, in qualsiasi stagione ad a qualsiasi ora.

Questa rivoluzione ha determinato un forte incremento del consumo dei grassi (soprattutto saturi) e una netta diminuzione del consumo di carboidrati complessi e di fibra.

La nuova tendenza purtroppo non sta cambiando; al contrario, nuove mode culturali importate dagli Stati Uniti, come quella dei fast-food, sembrano ulteriormente aggravare la situazione.

Pubblicità

Anche la pubblicità, in particolare quella televisiva che per il 50% è dedicata a promuovere prodotti alimentari, può contribuire a peggiorare le abitudini della popolazione in fatto di nutrizione e ad aumentare l'assunzione di cibi ricchi in grassi, bevande di scarso valore nutritivo, patatine e snack.

Il condizionamento alimentare può essere particolarmente pericoloso per i bambini, perché può influenzare in modo definitivo l'alimentazione che avranno da adulti.

Ci troviamo di fronte, quindi, ad un ambiente molto sfavorevole per chi ha una tendenza ereditaria ad aumentare di peso. Da una parte viene enfatizzato un corpo sano e snello, dall'altra c'è un'enorme disponibilità di cibo offerta con i più sofisticati mezzi pubblicitari e una tecnologia che ci aiuta in tutti i modi a non usare il corpo.

La teoria del set-point

Secondo questa teoria gli uomini, come gli animali, hanno un contenuto di grasso regolato in modo tale da preservare un determinato peso corporeo. Sia negli animali che nell’uomo un tentativo deliberato di modificare il peso, mangiando in eccesso o in difetto, sarebbe seguito in tempi più o meno lunghi da un ritorno al peso originale, che costituisce il "set-point" dell’organismo.

Se questa teoria si mostrerà fondata, sarà possibile ipotizzare che alcune forme di obesità siano il risultato di un set-point abnormemente regolato in alto.

Il metabolismo a riposo (BEE), l’effetto termico dell’assunzione di cibo e la quantità delle cellule adipose, sono probabilmente i meccanismi che regolano il set-point di un soggetto; esso può essere comunque abbassato in modo ragionevole (almeno del 10%) seguendo una dieta ipocalorica bilanciata ed aumentando l’attività fisica.

La dipendenza dal cibo non esiste

Numerose esperienze cliniche ed alcune ricerche hanno evidenziato che in un certo numero di soggetti in particolare in chi ha comportamenti bulimici, con il problema alimentare coesiste una dipendenza da sostanze stupefacenti (alcol, psicofarmaci, eroina, ecc.).

Sulla base della coesistenza dei due tipi di disturbo e di alcune caratteristiche ad essi comuni, alcuni autori hanno ipotizzato che gli stessi disturbi del comportamento alimentare possano essere una forma particolare di dipendenza.

Tuttavia, le somiglianza tra i due tipi di disturbi sono molto superficiali e un’attenta analisi del fenomeno evidenzia che tra dipendenza da sostanze e disturbi del comportamento alimentare esistono importanti differenze.

Infatti, se si procede ad un’analisi dettagliata, si osserva che alcune delle caratteristiche considerate essenziali nella dipendenza da sostanze stupefacenti non sono presenti nelle patologie alimentari: in particolare, non è ancora stata dimostrata l’esistenza della tolleranza nei confronti dell’abuso di cibo né l’esistenza della dipendenza fisica né, infine, dell’astinenza.

 

EMOZIONI E CIBO

Uno degli aspetti più difficili da gestire è insegnare al paziente obeso a non mescolare le emozioni con l’alimentazione.

Anche chi non ha problemi di peso raramente mangia solo per nutrirsi, ma vi sono molte persone che utilizzano costantemente il cibo per far fronte alle emozioni quotidiane: gli Anglosassoni descrivono bene questo comportamento con il termine "emotional eating", cioè "alimentazione emotiva"; vi rientra un’ampia varietà di stili alimentari, dal non essere in grado di festeggiare senza assumere grandi quantità di cibo fino ad usare il cibo per far fronte ad emozioni negative come la noia, l’ansia, la solitudine, la rabbia o la depressione.

Sebbene il legame tra alimentazione ed emozioni sia stato largamente dimostrato, ciò non significa che l’alimentazione emotiva dipenda da severi problemi psicologici o da profondi conflitti interiori. Anche le emozioni legate alla normali attività quotidiane sono spesso in grado di far mangiare in eccesso e talora in modo compulsivo.

Quali sono le cause dell’alimentazione emotiva?

Gli studi che tentano di spiegare il fenomeno sono solo agli inizi e fino ad ora non sono emerse conclusioni certe. Quello che si può dire con certezza è che non esiste una sola causa, ma possono entrare in gioco molti fattori biologici, psicologici, culturali.

Nutrizione e neurotrasmettitori

Un famoso ricercatore canadese, il Dr. Wurtman, attraverso una serie di brillanti esperimenti, è arrivato alla conclusione che bassi livelli cerebrali di serotonina si accompagnano al desiderio di carboidrati e a sentimenti di ansia, irritabilità e noia.

In alcuni individui, che ha chiamato "carbohydrate cravers", cioè soggetti che sperimentano un desiderio irresistibile di carboidrati, i livelli di serotonina sembrerebbero abbassarsi nel tardo pomeriggio: ciò darebbe origine a sensazioni d’ansia e di tensione che sarebbero alleviate dall’assunzione di merende ricche di carboidrati; secondo questa ipotesi, infatti, i carboidrati aumenterebbero i livelli cerebrali di serotonina, favorendo il passaggio attraverso la barriera emato-encefalica di un suo precursore, il triptofano. Il desiderio irresistibile di carboidrati avrebbe una frequenza quasi giornaliera e sarebbe associato ad emozioni tipiche, cioè ansia, tensione e irritabilità.

Sebbene non sia ancora chiaro perché alcuni mantengano livelli costanti di serotonina, mentre altri vadano incontro alle variazioni periodiche descritte dal Dr. Wurtman, sembra che con specifiche procedure sia possibile gestire adeguatamente il problema. A tale proposito il ricercatore canadese ha suggerito che i soggetti affetti da desiderio irresistibile di carboidrati dovrebbero assumere nel tardo pomeriggio una merenda ricca di carboidrati e a basso contenuto di grassi.

L’ipotesi serotoninergica ha dato anche origine a numerose ricerche in campo farmacologico e all’uscita sul mercato di alcuni farmaci che, attraverso un aumento dei livelli cerebrali di serotonina, sembrano essere in grado di diminuire la fame nervosa e il desiderio di carboidrati.

Tali farmaci sono la fenluoramina, d-fenfloramina e fluoxetina. Per la d-fenfluoramina è stata anche dimostrata un’azione stimolante il dispendio energetico per l’attivazione dei cicli futili e di rallentamento dello svuotamento gastrico.

Ambiente ed alimentazione in eccesso

La psicanalista Hilde Bruch, lavorando a lungo con pazienti affetti da obesità e da altri disturbi del comportamento alimentare, ha elaborato una teoria: secondo la sua opinione l’interpretazione della fame non è innata. Perché l’infante impari a distinguere in modo corretto le proprie sensazioni corporee, è necessario che la madre interpreti adeguatamente i suoi bisogni e che, ad esempio, gli offra il seno o il biberon quando ha fame e non quando piange per altri motivi. Se però la madre continua ad interpretare in modo scorretto i bisogni del figlio, egli crescerà senza riuscire ad elaborare il riconoscimento della sensazione della fame e non sarà in grado di distinguere fra questa ed altri sentimenti negativi.

Perciò, quando da adulto sperimenterà sensazioni di ansia, tensione, collera, interpreterà male questi stati d’animo e mangerà in eccesso.

Anche determinate modalità d’interazione tra i componenti della famiglia possono essere responsabili della fame nervosa; il cibo può, ad esempio, essere usato come arma d’attacco o di difesa nei confronti di familiari.

Attraverso di esso, infatti, i genitori possono esercitare il loro controllo sul figlio ("se starai buono potrai avere un dolce"), ma anche il figlio può sfruttare situazione ("se sarete buoni e non mi sgriderete mangerò tutto quello che mi avete preparato").

Il cibo, quindi può essere un mezzo di controllo o addirittura d’indipendenza e di ribellione.

Infine, anche l’ambiente culturale può essere responsabile della fame nervosa.

Durante l’infanzia, ad esempio, le situazioni sociali importanti, come ad esempio la festa di compleanno, sono sempre associate con il mangiare e in particolare con i dolci. E’ possibile che chi soffre di fame nervosa utilizzi il cibo per far ritornare le sensazioni positive associate ai momenti piacevoli dell’infanzia.

Il circolo vizioso dell’alimentazione emotiva

Anche se le cause dell’alimentazione emotiva non sono completamente note, chi ne soffre va inevitabilmente incontro ad un circolo vizioso che tende a perpetuare il problema.

Il cibo fa sentire bene nel momento stesso in cui è a contatto con la lingua ("gratificazione immediata") ed ha forte potere di risollevare il morale: dal momento che esso è facilmente disponibile e spesso ne siamo circondati, cadere nella trappola dell’alimentazione emotiva è, soprattutto per il soggetto obeso, abbastanza facile.

Purtroppo tali peccati di gola facilmente generano sensi di colpa nei soggetti che stanno cercando di controllare l’alimentazione insieme a sentimenti di autosvalutazione che a loro volta, possono portare a mangiare in eccesso e a perpetuare il circolo vizioso dell’alimentazione emotiva.

L’ABC delle emozioni

Una delle difficoltà maggiori nell’area della modificazione dell’ambiente interno è senza dubbio quella relativa alla gestione delle emozioni; per riuscire in questo bisognerebbe "imparare a pensare a quello che si pensa".

Secondo il modello cognitivista non sono gli eventi a determinare gli stati emotivi, ma l’interpretazione che diamo degli eventi stessi.

Il Dr. Ellis, fondatore nel 1955 della Terapia Razionale Emotiva (RET), afferma che il nostro modo di vedere il mondo e la nostra filosofia di vita sono i principali fattori che determinano lo sviluppo di modalità di comportamento, stati emotivi salutari o gravi disturbi emotivi.

Il modo in cui ognuno do noi reagisce agli eventi può essere spiegato con quello che viene definito l’ABC della RET.

"A" o evento attivante

"A" è l’evento attivante: si tratta di eventi o situazioni o di pensieri che si possono verificare nella vita. Es.«Sono grasso ed ho fallito la dieta».

"B" o bagaglio cognitivo

"B" è il cosiddetto "Belief System", cioè il bagaglio cognitivo dell’individuo, che in termini semplici significa i pensieri e le valutazioni che si fanno dell’evento negativo; essi a seconda dei casi possono essere funzionali o disfunzionali.

I pensieri funzionali sono valutazioni realistiche della situazione. Una risposta funzionale all’affermazione "Sono grasso e ho fallito la dieta" potrebbe essere: "E’ spiacevole che abbia fallito la dieta; la situazione è comunque sopportabile ed è possibile, anche se difficile, che la prossima volta ci possa riuscire". Il pensiero funzionale, quindi, è un pensiero realistico, non positivo a tutti i costi.

I pensieri disfunzionali si possono facilmente identificare nell’uso di espressioni come "devo", "ho bisogno", che implicano degli assolutismi o imperativi categorici. Se un soggetto dice a se stesso che deve fare una cosa o la fa, oppure sviluppa un’emozione negativa. Inoltre, quasi ognuno di noi si ribella contro le restrizioni imposte alla propria libertà.

All’interno di questi pensieri disfunzionali prende origine il pensiero del "tutto o nulla" che affligge le persone in sovrappeso: "Se riesco a seguire la dieta sarò una persona che vale, altrimenti non valgo nulla!".

Coloro che hanno una tale mentalità, hanno una profonda stima in se stessi quando seguono rigorosamente una dieta, ma basta anche una piccola trasgressione perché si sentano totalmente fuori controllo, pieni di sensi di colpa. Per queste persone basta mangiare un cioccolatino per far precipitare un’abbuffata.

Spesso chi ha una mentalità "tutto o nulla" alterna rapidi cali di peso ad altrettanti recuperi, passando la vita ad inseguire un comportamento dietetico utopisticamente rigido e perfezionistico.

"C" o conseguenze

Il punto "C" consiste nelle conseguenze di "B" che possono essere sia emotive che comportamentali.

Alimentazione emotiva: alcuni stili tipici

Mangiatori tristi

Una delle più comuni immagini di un individuo affetto da alimentazione emotiva è quella di una persona che cerca di sconfiggere la tristezza mangiando.

Mangiatori ansiosi

Il legame fra ansia ed alimentazione è da tempo riconosciuto, una risposta comune all’ansia è il mangiare in eccesso.

Mangiatori annoiati

La noia è fortemente associata all’alimentazione emotiva ed è forse la più comune forma di mediazione emozionale nell’alimentazione.

A volte, il cibo per alcuni soggetti, può essere l’unica motivazione legittima per interrompere un’attività noiosa. E’ frequente il caso di soggetti obesi che al lavoro, per esempio, si concedono una pausa per andare a prendere un cappuccino e una brioche.

Spesso per alcune persone le attività che riguardano il mangiare, come fare la spesa e cucinare, possono rappresentare l’unico modo per fare qualcosa di diverso.

La noia può impadronirsi anche di chi è impegnato tutto il giorno, quando l’attività che svolge non è interessante: è molto frequente nelle casalinghe che, dopo aver accompagnato il bambino a scuola e aver completato i lavori di casa, si ritrovano a non sapere che cosa fare e perciò iniziano a cucinare e a mangiare.

Per chi ha problemi di questo tipo è particolarmente utile analizzare il diario alimentare e verificare se i momenti della giornata in cui più frequentemente si perde il controllo si associano a situazioni in cui non si ha niente di stimolante da fare.

Mangiatori soli

La solitudine è spesso associata all’alimentazione emotiva: il cibo è usato come sostituto di qualcosa che manca, degli amici o qualcuno con cui condividere qualcosa. L’aumento di peso conseguente all’alimentazione emotiva da solitudine non fa altro, però, che accrescere le difficoltà di instaurare un’adeguata relazione con gli altri.

Mangiatori celebrativi

Sebbene, usualmente, si pensi che l’alimentazione emotiva sia legata solo alle emozioni negative, esistono persone che trovano praticamente impossibile gioire di una situazione piacevole o di sentimenti positivi senza abusare di cibo.

La cosa non è sorprendente, dato che , a parte l’intrinseco piacere dell’assunzione di un cibo buono e gustoso, il mangiare nella nostra cultura gioca un ruolo importante in quasi tutte le relazioni sociali.

La prima calda interazione con il mondo avviene tramite il capezzolo della mamma; in seguito la maggior parte delle riunioni familiari implicano quasi sempre il mangiare. In età adulta si perpetua questa tradizione con amici e colleghi; si prende parte a colazioni e cene di lavoro, cene di classe, feste di compleanno, ecc.

Anche nelle festività religiose il cibo gioca un ruolo importante. Ci sono perciò, molte ragioni alla base dell’equazione: momenti felici=mangiare.

Le persone che abitualmente utilizzano il cibo per rendere felice la propria vita sociale, trovano molto difficile prendere parte ad un evento senza mangiare o bere in eccesso.

Imparare a nutrire il sé senza ricorrere al cibo

Una regola generale per riuscire a sconfiggere l’alimentazione emotiva è imparare a sostituire il cibo con attività piacevoli.

Il concetto di "nutrire il sé" può essere definito come un atteggiamento auto-confortante e di sostegno nei confronti di se stessi.

Molte persone obese riescono a sentire di fare qualcosa di positivo per se stesse solo quando seguono una dieta; per questi soggette le gratificazione ed il piacere provengono, infatti, quasi esclusivamente dalla perdita di peso; quando invece non riescono a dimagrire, generalmente non sono in grado di provare gioia per nessun evento.

Il "non nutrire il sé" crea uno stato di vuoto che deve essere colmato: il modo più immediato è il mangiare, perché è cosa facile, a pronta disposizione, relativamente economica e non richiede sforzo; è quindi il modo più efficace e meno costoso per nutrire se stessi. L’effetto collaterale è però l’aumento di peso, che comporta importanti conseguenze come la depressione ed i sensi di colpa, i quali a loro volta limitano la possibilità di trovare altre attività piacevoli.

L’unica soluzione è, allora, quella di " nutrire se stessi" con una nuova dieta.

Modello morale: tutto dipende dalla forza di volontà

Secondo questo modello il successo di un soggetto nel controllo del peso corporeo dipenderebbe esclusivamente dalla "forza di volontà". L’individuo che trasgredisce o che non riesce a seguire la dieta è considerato un debole, che non ha abbastanza forza per mantenere il controllo.

Secondo l’approccio morale il successo non prevede trasgressioni, ma un continuo controllo: basta quindi un errore per far fallire il programma ed andare incontro alla ricaduta.

Questo modo di vedere è tuttora molto diffuso sia tra la gente comune sia tra i medici: colpevolizzare il paziente che non segue le "regole" e trasferire su di lui la responsabilità del fallimento del programma può essere, però, una forma di difesa da parte del medico o della dietista per non mettere in discussione l’efficacia dell’approccio terapeutico.

Le basi teoriche del modello morale sono schematizzate nella figura seguente:

Controllo

(dieta rigida)

=

Perdita di peso

Abbandono del programma

(alimentazione in eccesso)

=

Ripresa del peso

Modello della ricaduta di Marlatt: il superamento del modello morale

Alan Marlatt e Juduth Gordon, due psicologi americani, hanno esaminato e descritto dettagliatamente la storia naturale della ricaduta nei soggetti obesi, arrivando alla conclusione che il successo nel controllo del peso non dipende tanto dalla forza di volontà quanto piuttosto dall’acquisizione di specifiche abilità comportamentali e di modi più funzionali d’interpretare gli eventi.

Grazie ai loro studi hanno elaborato un modello di prevenzione delle ricadute che inizialmente è stato applicato all’alcolismo e in seguito è stato adattato anche all’obesità.

Secondo questo modello un soggetto, al fine di ottenere un controllo su un problema comportamentale, come ad esempio il mangiare in eccesso, segue usualmente un insieme di regole: nel periodo di tempo in cui riesce ad osservarle sperimenta sensazioni di controllo ed autostima, che permarranno fino a quando non incontrerà delle "situazioni ad alto rischio"(stati emotivi negativi, stati emotivi positivi, situazioni sociali).

In presenza di una situazione ad alto rischio non è detto che automaticamente si verifichi la perdita del controllo; ciò dipenderà dal fatto che vengano messe in atto o meno specifiche modalità di risposta comportamentali e cognitive, che si definiscono risposte di "coping" e che s’identificano come "risposte che permettono all’individuo di affrontare (o aggirare) una situazione ad alto rischio senza sperimentare la ricaduta".

Le risposte di coping variano in complessità e in qualità, andando da quelle volte ad evitare il rischio (ad esempio rifiutare un invito a cena), all’uso di complicate strategie cognitive (ad esempio dire agli amici che si è a dieta, farsi preparare cibi con pochi grassi, ecc.).

Se l’individuo riesce a far fronte efficacemente alla situazioni a rischio, usando appropriate risposte di coping, continuerà a sperimentare un’efficace senso di autocontrollo e svilupperà una elevata "autoefficacia". Se, però, un soggetto non risponde adeguatamente alle situazioni ad alto rischio andrà incontro ad una diminuzione dell’autoefficacia, quindi ad una tendenza a perdere il controllo ed a mangiare in eccesso.

Il rischio è, inoltre, aumentato da eventuali "aspettative positive per le conseguenze", cioè per l’effetto immediato dell’assunzione del cibo (ad esempio "come mi renderà felice quel gelato"), di fronte alla quali generalmente si dimenticano gli effetti negativi a lungo termine (aumento di peso).

La perdita di controllo conduce al "lapse"(scivolata), che può essere definito come "un singolo evento, il riemergere di un’abitudine che può portare o meno alla ricaduta".

Il concetto di "lapse" è molto importante: a differenza del modello morale, in cui la perdita di controllo è considerata una ricaduta e cioè basta una trasgressione perché tutto sia perduto, nel modello cognitivo sono necessari numerosi e ripetuti lapse affinché si verifichi il relapse, cioè la vera ricaduta.

 

IL PROCESSO DEL LAPSE E DEL RELAPSE



Controllo

(dieta elastica)

=

Perdita di peso

Lapse=singolo evento, trasgressione che può portare o meno al relapse

Abbandono

del programma

=

Relapse

La ricaduta, quindi, è vista come un processo che dura nel tempo e non come un momento specifico, come accade, invece, nel modello morale.

Il vantaggio di questo punto di vista è che ad ogni "lapse", o trasgressione, l’individuo può adottare azioni correttive ed imparare dall’esperienza che lo ha portato alla perdita del controllo.

 

DIETOTERAPIA

Va innanzi tutto sottolineato che qualunque alchimia dietetica non può prescindere dalla realizzazione di un ragionevole deficit energetico che rispetti il più possibile l’equilibrio complessivo dei nutrienti e che tuteli il bilancio azotato e la massa magra mediante un congruo apporto proteico.

Come più volte sottolineato, al momento attuale non può esistere che l’educazione del paziente ad un diverso stile di vita .

Valutazione degli introiti

Prima di colpevolizzare un obeso è bene ricordare che gli studi sul comportamento alimentare mostrano che non più di un 20% dei soggetti obesi assume una razione enrgetica superiore alle 3000 Kcal.

Non è affatto raro incontrare degli obesi, in fase "statica" che mantengono stazionario il loro sovrappeso con introiti anche molto inferiori alle 2000 Kcal/die.

Comunque, prima di accettare la ricostruzione dell’interessato, è bene indagare su aspetti spesso trascurati come le bevande, il tipo di condimento o gli spuntini tra i pasti.

Inoltre è necessario avere un’idea almeno approssimativa delle "porzioni" (usando atlanti con fotografie dei "piatti" di più frequente consumo).

Valutazione del fabbisogno energetico

E’ necessario tentare una ricostruzione del dispendio energetico medio parendo dal metabolismo basale (che negli obesi non è inferiore, ma superiore alla media!) e quindi valutando il costo energetico delle diverse occupazioni giornaliere in base ai relativi coefficienti.

La valutazione del dispendio energetico è la premessa obbligata per preventivare esattamente il deficit da computare nell’elaborazione della dieta.

Come è noto, può occorrere un deficit tra le 6000 e le 9000 Kcal per perdere un chilo di grasso, ma è necessario tener presente la capacità di adattamento dell’organismo, per cui lo stesso deficit produrrà inevitabilmente un calo sempre meno significativo nei mesi successivi.

Non è affatto raro trovare degli obesi sedentari, assoggettati da tempo a diete restrittive, che mantengano il loro peso con diete poco superiori a 1000 Kcal/die; in questi soggetti vi è una modestissima termodispersione postprandiale che, a riprova della componente genetica, permane bassa anche dopo dimagrimento forzato, facilitando la riacquisizione di grasso non appena si riducano le attenzioni dietetiche.

La prescrizione dietetica "ragionevole"

La riduzione calorica ottimale non dovrebbe eccedere 1/3 o ¼ del dispendio energetico previsto, mediante una dieta sostanzialmente equilibrata ( pur se relativamente iperproteica ed ipolipidica), senza ricorso a cibi particolari, per lo più inutili e di difficile e costoso reperimento.

Il dimagrimento che non crea problemi al paziente e al medico o alla dietista, è tra i 3 e i 5 Kg mensili; un deficit giornaliero di 700-900 Kcal può bastare a questo scopo, senza troppo compromettere il bilancio azotato e quindi la perdita di massa magra.

Il problema della sazietà, prima che con i farmaci (serotoninici, dietetici a base di fibre, gomme, ecc.) deve essere fronteggiato nel piano nutrizionistico con scelte più sazianti, con un progressivo aumento delle fibre naturali fornite da tutte le verdure e dalla frutta (da consumarsi con la buccia, quando possibile).

Qualsiasi bevanda che non sia acqua, caffè o camomilla (non zuccherati) apporta calorie che risulterebbero più sazianti se assunte in forma solida; perciò niente succhi o spremute di frutta, bensì prodotti al naturale, da masticare, con maggiore presenza di fibre.

Gli edulcoranti sintetici, con preferenza all’aspartame, sono certamente utili per chi dolcifica abbondantemente tè o caffè, ma non risolvono alcun problema "calorico" e non vale la pena di ricorrervi se il paziente si limita ad utilizzare soltanto 1 o 2 cucchiaini di zucchero in tutta la giornata.

La distribuzione della razione giornaliera in tre pasti e uno o due spuntini sembra la risposta più razionale al sottofondo dismetabolico tipico di molti obesi; è noto che la maggioranza degli obesi (almeno in Italia) ignora la prima colazione, fa un discreto pranzo e una abbondante cena con un seguito bulimico di piccoli assaggi davanti alla televisione e nelle tarde ore serali.

Vorrei concludere questo lavoro con una poesia regalatami da un paziente obeso che ricordo con particolare simpatia ed affetto.

Grazie alle sue parole cresce sempre più forte il desiderio di poter trovare la chiave giusta per sbloccare lo stato patologico dell’obesità.

 

Per te, per me e per tutti coloro,

che come noi, amareggiati e delusi

di come stiamo scivolando ogni

giorno sempre di più in un burrone,

aggrappiamoci insieme,

gridiamo che è ora di finirla,

Aiutiamoci.

Impegnamoci.

 


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