LE CASE
Omaggio
a Neil Gaiman
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Non so come spiegare il senso di meraviglioso, di magico, che m'afferra nell'avvicinare quei cubi scuri spersi nella campagna che sono le vecchie case abbandonate. Guidando il mattino, le vedo immerse nella bruma che le fa vaghe come fantasmi. Il rosso dei mattoni è un rosa pallido e lontano ma che s'addensa, man mano che la foschia sfuma. D'inverno ingrigiscono, o scompaiono del tutto se la nebbia cala come è usa calare; d'estate ardono al sole in mezzo a distese infinite di grano e granturco, isolate e surreali, così senza neppure un sentiero che conduca alle loro porte. Forse è questo ciò che mi lascia sempre stupefatto in loro. La campagna sembra sempre in procinto d'inghiottirle, avendole circondate con le sue grasse zolle dopo un lungo inseguimento. Allo stesso modo si mette in trappola un pezzo nemico sulla scacchiera per mangiarlo. M'aspetto di vederle sparire ad ogni istante in una voragine, che poi si richiuda sussurrando lasciando una cicatrice d'erba e nient'altro. Ma le case resistono. Alcune hanno il tetto sfondato, certo, e le imposte divelte mostrano impiantiti ceduti, frane di macerie. Eppure resistono. Spiccano nella calma regolarità della pianura, spezzando l'orizzonte, a volte addirittura a grappoli, case e fienili racchiusi da bozzoli d'inespugnabili rampicanti.
Io mi avvicino attraverso i campi. Lascio l'auto parcheggiata sulla strada e m'avventuro nel tramonto sul terreno arato, sprofondando le scarpe nuove nella polvere o nella melma, incespico fino al loro cospetto. E osservo. Le case sembrano attendermi. Io accarezzo con lo sguardo i loro muri incrostati dalle stagioni, le piantagioni d'ortica, gli scuri penduli coi chiavistelli arrugginiti. Mi prende la pace, in queste solitudini profumate di paglia umida e d'argilla. E non so perché. Come un vago senso d'aspettative frustrate, ma dolce, discreto.
Penso sia qualcosa che appartenga al mio passato. Ma è una sensazione così inafferrabile che potrebbe bene trattarsi di un sogno - sognato tanti anni fa -, che continui ad aleggiarmi davanti agli occhi, sovrapposto alla realtà.
Come una ronda giro tutt'intorno alle case nell'inquieta speranza d'un incontro, un evento che non si è mai verificato. Gli unici che incontro sono gli onnipresenti insetti: mosche, falene, ragni, cicale ciarliere; e gli uccelli, flottiglie di passeri tutti gemelli, rondini da caccia che mi sfiorano a volo radente, merli nella lugubre uniforme tirata a lucido. Più raramente, qualche gatto dalle orecchie mangiate dai combattimenti, schive lucertole, lepri, fagiani, e una volta un'incauta tartaruga venuta da chissà dove. Nessun'altro. Nessuna persona, intendo. Cosa possa spingere qualcuno in questi luoghi così male accessibili - oltre a me, ovviamente - devo ancora capirlo, e dunque la mia speranza parrebbe non avere alcun senso. Ma ad ogni modo aspetto, voltando febbrilmente la testa ad ogni frusciare o schioccare, finché il tramonto offusca del tutto e tutto s'offusca, e rimango appagato e deluso al buio.
Chissà, se tornerà quel sogno. L'incapacità di comprenderne la natura - sogno, appunto, o premonizione - mi è tanto penosa, che non c'è modo di spiegarlo.
Mi sembra però di ricordare un viso, uscire da dietro la cascata d'un glicine fiorito, profumato come un'intero paradiso. E un casale abbandonato nei campi, come tanti. Un'apparizione tanto improvvisa da farmi sobbalzare, cadere per terra seduto, sul ghiaietto che copre quel poco di corte rimasta al casale. Più in là un pozzo, proprio in mezzo al campo. Nel sole serale i suoi mattoni curvi lanciano bagliori di forno. Qualcuno, ormai sono anni, l'ha riempito di travi marce e di terra, ma è sempre un pozzo, e lo sarà per sempre.
Il viso sorride e mi scruta. Sono bambino, o poco più. Cerco con gli occhi papà, qui in giro a curiosare anche lui. La lama d'un falcetto riflette il tramonto in un baluginio abbagliante. La ragazza si china su di me, la sua bellezza è una favola che rapisce.
-Chi sei?- le chiedo. I suoi occhi si spengono, il suo sorriso svanisce.
-Non è questa la domanda.- Dice. -Avresti potuto chiedere chi sarai. Ora non posso risponderti.- Il falcetto le cade di mano. Seguo la sua caduta, la punta scivola verso il suolo e lo penetra con un sospiro. Il filo della lama è sottile come l'aria. Sento il taglio sulla pelle anche senza esserne toccato. Il dolore è un formicolio celato nello stupore. Tengo il viso basso, gli occhi gonfi di lacrime puntati sul falcetto conficcato ai miei piedi. Vedo la mano della ragazza; s'avvolge all'impugnatura di legno, lo svelle.
Alzo il viso e non è la ragazza. I miei occhi s'asciugano di meraviglia. Davanti a me c'è una madre. Ed è bella e materna come deve essere una madre. Il viso è ovale, morbido e maturo e rassicurante, bagnato dai raggi dell'ultimo tramonto, la bocca piena dischiusa in un sorriso sereno che infonde tenerezza. Vorrei sentire le sue labbra calde sulla mia fronte. Vorrei che mi stringesse in un abbraccio da cui non uscirei più. Gioca col falcetto sciogliendo nodi di glicine, che cadono e liberano una pioggia turchese di petali.
-Chi sei?- Chiedo.
La donna mi guarda con una tristezza dolcissima, che mi fa male dentro. Abbassa il falcetto lungo il fianco; abbassa il capo; poi lo rialza a ritrovare i miei occhi.
-Non hai capito, mio piccolo cucciolo.- Dice. La sua voce dissolve i miei pochi pensieri, le mie scarse difese. Mi abbandono. Cado nel lago delle sue parole e galleggio. -Non hai capito, povero bimbo impaurito. Neanche questa è una domanda.- Il falcetto guizza in avanti fendendo brandelli di luce. -Avresti potuto chiedere dei destini, passati o futuri.- Dice. -Mi dispiace. Neppure io posso più risponderti.- Il dolore riempie di nuovo i miei occhi. Li chiudo e li stringo, cercando di mandarlo via. Persiste ancora un attimo, umido e spiacevole, poi sembra evaporare dalla mia pelle come il sudore di una lunga corsa affannosa.
Quando guardo di nuovo, il falcetto è in mano a una vecchia. E' logico, consequenziale. Sono un bambino, ma è uno schema che sembro riconoscere. Il suo sorriso sdentato è un ghigno storto che mi spaventa, sebbene mi aspettassi qualcosa del genere. Questa donna mi ucciderà. Non serve cercare mio padre con lo sguardo. E' qui, ma è da un'altra parte. Anche questo mi sembra logico. E non serve piangere o tentare di fuggire. Questa donna mi ucciderà. Basta.
La guardo nell'aria incendiata del tramonto. La stessa veste che avvolgeva la bella freschezza della ragazza, che conteneva i sontuosi seni materni, ora cade addosso alla vecchia come un cencio. Dalle maniche sbrindellate escono stecchi rinsecchiti che terminano in artigli. La pelle non è più pelle, è corteccia. Tutto di lei dice che è corteccia anche il cuore. Continua a sogghignare, gli occhi profondamente infossati raccontano storie spaventose, che non voglio udire ma che apprendo non appena li incontro.
La vecchia aspetta. Una domanda che sia una domanda. Destini passati e futuri. Chi sarò. Non ha senso. Sono bambino, non c'è nient'altro che importi. E se anche ci fosse, non lo vorrei sapere. Non ora, almeno. Invece la vecchia m'incalza con lo sguardo, col suo ghigno spaventoso, mi mostra il falcetto pronto e tagliente. Devo parlare. La mia bocca si apre. Dico:
-Ti vedrò ancora?-
La vecchia indietreggia di un passo. Il falcetto le trema nella mano da mummia. Guarda il cielo, e sorride un vero sorriso. Nessun ghigno o smorfia malefica. Un sorriso. Appende il falcetto alla cintura che le stringe i fianchi come a uno spaventapasseri. Incrocia le braccia sul petto e annuisce.
-Sì.- Risponde. La sua voce è un rumore da segheria. -Sì, piccolo sgorbietto, io e te ci rivedremo.-
-Dove?- Le chiedo. -Quando?- Lei ride, mostrandomi le gengive.
-Solo tre domande, mostriciattolo. Adesso è tardi.- Dice. Poi mi da le spalle, proprio mentre sento mio padre chiamare il mio nome. Mi volto un secondo nella direzione da cui proviene la sua voce, quando mi volto di nuovo non c'è più.
Quando mio padre mi trova è possibile che io stia sanguinando, ma non ne sono sicuro, non ricordo. Potrei confondermi. Da piccolo ne ho combinate di tutti i colori, e la corsa al pronto soccorso e l'iniezione antitetanica potrebbero essere avvenute in qualsiasi altra occasione. Tutto questo potrebbe essere stato semplicemente un sogno. E a volte, dopo aver inutilmente atteso il rabbuiarsi del crepuscolo, mi pare proprio che si sia trattato di questo. E le case non parlano, e se anche sapessero farlo forse a me tacerebbero per abitudine. E allora continuo solo a guardarle, cercando di non pensare a nulla, cercando di non sperare nulla, sperando che le case capiscano che non sto sperando nulla. Come quel giorno lontano che non ricordo più. Come non fosse mai esistito.
Così la sera diventa notte. Le stesse stelle di tutta la mia vita mi convincono a rincasare. E' giusto, me ne vado. L'auto con le luci di posizione accese m'aspetta sulla strada. Attraverso il campo in senso opposto, rispettoso di qualsiasi coltivazione ospiti. Solo mi rimane questa scontentezza, quest'inspiegabile ossessione per le case, e questa cicatrice a forma di X sul dorso della mano.
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