I Miei Racconti



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DELIRIO

Stai dormendo raggomitolata in sogni confusi, quando qualcosa ti s'infila nel profondo e comincia a riportarti in superficie, verso la realtà. Forse un suono. Apri gli occhi.
La stanza è in penombra.
Ma la luce è sufficiente per capire che questa non è la tua stanza da letto, e questo non è il tuo letto. Cerchi di ricordare cos'hai fatto ieri sera, dove sei stata, chi hai visto, ma la tua mente è vuota.
Cerchi con la mano l'interruttore della lampada sul comodino ma non lo trovi. La mano vaga a vuoto nella semioscurità. Niente lampada. Ti lasci ricadere sul letto. Il semplice sforzo di alzare un braccio sembra averti spossato. Avverti una spiacevole tensione uscire dal nulla, insinuarsi nella tua spina dorsale, scendere lungo le gambe. Vorresti allungarti, stirarti come una gatta, ma per qualche ragione non ti muovi.
Ti guardi intorno, spostando appena la testa. La stanza è spoglia e impersonale: un piccolo armadio contro un muro, una ridicola scrivania con una sedia altrettanto ridicola, ed una porta.
Poi la luce. Filtra dalla finestra e si colora di blu, di verde, di arancione. Spalanchi gli occhi quanto puoi su quel caleidoscopio.
Lo scarno mobilio t'abbaglia dalle sue cromature, come riflettendo mille soli. Sembra in fiamme, ibernato nella radiazione, e la cosa non ti sembra contraddittoria nemmeno un po'. Anzi lo senti. Ti apre il cuore. Sorridi. Il gelo. Il calore. L'uno e l'altro assieme. Un batuffolo di cotone imbevuto di azoto liquido che ti entra dentro per fare pulizia.
Crioterapia dell'anima.
Il senso s'allontana. Non è mai stato vicino, pensi. Forse non pensi nemmeno. Non importa. I colori continuano ad alternarsi rigidi e irregolari, come quando eri bambina, con mamma e papà, al Luna Park. Le giostre mostruose e vorticanti che ti atterrivano e ti chiamavano tra le loro immani braccia meccaniche, prima di volare, con il loro odore di bruciato elettrico. Papà... lo tenevi stretto, nel vento centrifugo. E le facce della gente diventavano biglie colorate che rotolavano ovunque sotto di voi, in alto, nella luce cangiante. La mamma...
La mamma cucinava, nella grande cucina in frassino, e tu sai che è frassino perché l'hai letto sugli scatoloni, il giorno che l'hanno portata alla mamma. Ed era felice. Questo lo ricordi bene. Ma è sempre più difficile. Seduta al tavolo in frassino - tu ci credevi appena che quel tavolo una volta era stato un albero (un frassino!) e aveva avuto rami e foglie, ed ospitato nidi d'uccelli e scoiattoli come nei cartoni animati - orgogliosa disegnavi, case, fiori, montagne, papà.
Vedi, sogni quei disegni. Il ricordo è fresco e dolce come il profumo dell'acquerello. Come la tua risata cristallina, di bambina che non sei più. La casa, il tetto rosso sbavato, mescolato col cielo, e le rondini con le code nere. Ti libri con loro nell'acquerello azzurro, planando in attesa. E non una nube.
Cadi, precipiti, urli. Papà ti accarezza, a sei anni, la manina graffiata; a nove anni, la testolina ammaccata; a sedici, il seno, con la sua mano calda e forte.
Di notte.
La luna grande come una faccia perplessa che spia dalla finestra e oltre gli alberi. Ansimi. Gemi. Saliva e sudore sulle tue labbra. Ma ora c'è luce. E' passata. Ma non sai già cosa, pensi. E' difficile.
Ieri è buio. Il giorno prima è buio. E il giorno prima di quello. Un buio freddo, pernicioso. Un braccio fermo e irsuto che t'avvolge i fianchi e non ti lascia andare.
Ad un tratto un suono ti scuote. Metallo sfregato al metallo, con tanto di scintille. Due lame che si affilano a vicenda. Ritorna la stanza. Nella penombra l'armadio, il tavolo, la sedia, la porta. E il letto in cui giaci. E tu.
I colori sono spenti.
Il tuo corpo è dolorante. Un coro di fitte che canta ininterrotte arie. Ma è sopportabile. Quello che ti spaventa è il vuoto, silenzioso, che possiede la tua mente. E ti chiedi cos'è questo posto. Se l'hai mai visto prima. Se ti ricorda qualcosa, qualcuno, o se dovrebbe. Se ti sei mai seduta a quel tavolo a leggere, a scrivere agli amici. Se in quell'armadio ci sono i tuoi vestiti, i tuoi libri. E come sei arrivata e con chi e quando.
E dove conduce quella porta.
Cerchi di alzarti e non ci riesci, come se fossi legata al letto. Lo sei. Cinghie di tela spessa ti stringono polsi e caviglie. Puoi a mala pena muovere le braccia fino a portare le mani alla bocca, non più su. Nell'aria l'odore di ammoniaca, il rumore di stoffa strappata, lacerata con rabbia.
Non ci sei. Più. Non c'è. Grigio.
La mamma piange, sparisce, t'insulta, non necessariamente in quest'ordine. Non ricordi. Ma il suo viso. E' dentro. Sgrida. Via. E tu voli. Non credi alle tue mani. Il calorifero sporco, gelato. Alla vaniglia. I grumi nel semolino. Palline di polvere. Sotto il lettone. Lo squarcio nel petto come un sacrificio azteco. Papà, stupefatto. Il coltello.
Provi orrore. E' normale, dicono. Momento di lucido intervallo. Ti sorridono e non lo sopporti. La vista del sangue. La mamma che grida, che grida, che cade. Poi tace. Anche lei. Non griderà più, pensi. Piangi, ti dispiace. Provi orrore. E' normale, dicono. Iniezioni.
Infermieri, ambulanze, terapia.
Una spirale di scale, garza, campioni, ambulatori, reparti, stanze d'ospedale. Armadio, tavolo, sedia, finestra. E la spirale si chiude e tu ne sei il centro. Assaggi la vita. Ha il sapore del sangue, il tuo, sulle labbra socchiuse in attesa di un bacio. Ma non è ora. Non è tempo.
Cicatrici.
Ma libera...
Il tuo corpo è costretto al letto dalle cinghie. Ora ricordi. Non è vero, pensi. Sono sempre state lì.
Mestamente.
Si apre la porta. Entrano.
Un'alluvione di luce cerulea impalpabile.
Due giganti senza volto dalle braccia nude e muscolose.
Una lettiga spinta su ruote cigolanti e incrostate di cadaveri d'insetti.
Un uomo, invisibile, in un camice d'un biancore fluorescente.
Un paio di occhiali.
Un orologio da polso dal quadrante enorme e pulsante.
Una siringa che gocciola.
Alcol, freddo.
Una voce che dice: "Tutto bene. Tutto bene."
E la tua che risponde: "Bene. Bene."



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'Pagine Scelte' di Enrico Saletti © 1998 - 1999

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