logo
Antropologia e filosofia a confronto: il problema del relativismo
 

 articolo | rivista | tesi di laurea | bibliografia | link utili | chi sono | mappa sito | contatti

 
  Incommensurabilità e traduzione
 
» home » articolo


Antropologi e filosofi della scienza odierni sembrano concordare nell’idea di una incolmabile incommensurabilità di significato tra universi di discorso logicamente e concettualmente diversi.

Tuttavia occorre notare come alcuni degli stessi filosofi della scienza, pur accogliendo gran parte delle tesi antropologiche, sembrano perdere di vista il fatto che l’atteggiamento antropologico presuppone che il confronto tra culture sia sempre possibile. La ‘incommensurabilità’ alla base del relativismo antropologico non è determinata da i diversi presupposti teoretici, o dalla mancanza di un criterio di verità  culturalmente indipendente, come pretende il relativismo culturale (ed anche epistemologico), ma dalla diversità degli assunti etici che determinano modi diversi di dare senso al mondo, senza per questo supporre che essi siano incomprensibili.  L’indagine di una società passa così attraverso “nuove possibilità del bene e del male”, aprendo la strada al relativismo etico.

Winch ritiene che sia la stessa concezione di vita umana ad implicare certe nozioni fondamentali, definite da Winch “nozioni limite” (limiting notions), nozioni che delimitano inevitabilmente lo spazio etico entro il quale possono essere comprese e accettate le nozioni di ‘bene’ e di ‘male’. Qualsiasi tentativo di comprendere la vita altrui deve passare attraverso una indagine sulla forma assunta da tali concetti limite a cui sono necessariamente connesse le idee del bene e del male.
Passando anche attraverso una riflessione sulla pratica antropologica, si registra in filosofia della scienza uno spostamento di accenti dal problema cognitivo a quello etico. Da un lato, secondo il relativismo epistemologico non esisterebbero criteri di verità indipendenti dalle diverse culture. Dall’altro, con il relativismo  antropologico (nel suo carattere anche etico), pur ammettendo la irriducibilità di un sistema di credenze ad un altro, non esisterebbero culture così differenti dalla nostra per comportamenti e credenze da non poter essere comprese e tradotte. 

Occorre notare come questo secondo tipo di relativismo, un relativismo che ammette ancora la possibilità del confronto, se usato per dimostrare o avvalorare l’esistenza del relativismo cognitivo, diventa estremamente difficile da maneggiare. Sostenere, infatti, che non esiste la possibilità di paragonare culture diverse quando i loro criteri di valutazione sono troppo distanti dai nostri, contrasta con il fatto che di fatto la comparazione viene solitamente effettuata. In realtà l’antropologo, quando parla di relativismo o di incommensurabilità mette in scacco l’idea stessa di una ragione raziocinante, ma non pensa che le altre culture siano inaccessibili al pensiero, o addirittura impensabili. Le culture, per quanto incomparabili nella loro globalità, restano comunque pensabili e valutabili nelle loro dimensioni particolari.
Ciò spiega la distanza che Winch ha mantenuto da certe forme estreme di relativismo (sia cognitivo che etico) che gli si sono volute attribuire. In particolare Winch non ha mai sostenuto quello che C. Taylor chiama “wittgesteinismo volgare”, vale a dire la strategia del richiamo a una umanità divisa in ‘isole culturali’ che non sono in grado, o non necessitano, di comunicare tra loro. In realtà la posizione di Winch appare coincidere con quella di Taylor della ‘presunzione di ugual valore’, prospettata in La politica del riconoscimento, dove si propone un atteggiamento di studio dell’altro improntato non su una inautentica condiscendenza di fondo, disposta ad accettare incondizionatamente tutte le culture, ma su uno studio comparativo che produrrà delle fusioni e, in alcuni casi, degli spostamenti dei nostri stessi orizzonti.

Le cose si complicano quando l’antropologia tenta di comprendere il senso di ciò che una tradizione diversa dalla nostra intende dire quando parla di streghe, oracoli e magia, cioè quando si occupa del rapporto tra grammatiche diverse. Il problema dei dati in antropologia viene così a coincidere con il problema della traduzione.
Dobbiamo alle ricerche di Sapir prima, di Whorf poi, la comprensione di come il linguaggio condizioni il pensiero. Osservava a questo proposito Whorf:

         
il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico di impressioni che deve essere organizzato dalle nostre menti, il che vuol dire che deve essere organizzato in larga misura dal sistema linguistico delle nostre menti.[…] In larga misura perché siamo partecipi di un accordo per organizzarlo in questo modo, un accordo vigente in tutta la nostra comunità linguistica. […] L’accordo è naturalmente implicito e non formulato, ma i suoi termini sono assolutamente tassativi; non possiamo parlare affatto se non accettiamo l’organizzazione e la classificazione dei dati che questo accordo stipula. Questo è un fatto molto importante per la scienza moderna, perché significa che nessun individuo è libero di descrivere la natura con assoluta imparzialità, ma è costretto a certi modi di interpretazione, anche quando si ritiene completamente libero.

 
Il ‘principio di relatività’ che consegue da questa impostazione evidenzia come osservatori di tradizioni culturali differenti siano propensi a inquadrare il mondo secondo i loro retroterra linguistico-culturali. Ma per dire che ciascuna cultura seleziona ‘convenzionalmente’ e in maniera diversa l’esperienza, occorre stabilire un confronto con le altre lingue.

Geertz ha scritto che

         
il punto centrale della teoria del relativismo culturale […] è che non è possibile apprendere mai chiaramente l’immaginazione di un altro popolo o di un altro periodo come fosse la propria. Ma è falso che non si possa mai apprendere genuinamente del tutto. Possiamo apprenderla abbastanza bene, almeno altrettanto bene quanto apprendiamo qualsiasi cosa non propriamente nostra; ma noi facciamo questo non guardando dietro le glosse che interferiscono nel collegamento ma attraverso di esse. […] La vita è traduzione e noi siamo persi in essa.

Il problema della traduzione è così legato alla capacità di comprendere interpretare e spiegare un linguaggio in cui si sono condensate la cultura e la storia di un popolo. Compito dell’antropologo, dichiara Geertz, è quello di fornire una “biblioteca di interpretazioni” in grado non di rispondere alle nostre domande più profonde, ma di mettere a disposizione le risposte che altri hanno dato; l’antropologo è cioè un conservatore dei significati.

antico pozzo

___________

"La vita è traduzione e noi siamo persi in essa
 

Copyright Tiziana Valtolina - 2002-2005.
Ultimo aggiornamento: 22-apr-05

1