Il relativismo
e il pluralismo epistemologico prospettati da Feyerabend s’intrecciano,
a una presa di posizione politica.
Feyerabend
ha sostenuto che l’ordinamento sociale che può far sì che il ‘diverso’
non rappresenti più una alternativa a noi ma per noi
è una ‘società libera’. In essa non è necessario privilegiare alcuna
prospettiva, in quanto in una società libera tutte le tradizioni devono
avere uguali opportunità e stessi diritti, e l’ultima parola su problemi
importanti spetta ai cittadini, non agli esperti. Il ‘relativismo
democratico’, allora, risulta essere una concezione politica particolare,
perché non necessariamente essa è migliore delle prospettive raccomandate
dalle società primitive; tuttavia, nella misura in cui invita tutti
i cittadini a partecipare alle decisioni importanti, essa può portare
alla scoperta “che vi sono molti modi di essere nel mondo, che le
persone hanno il diritto di usare i modi che gli sembrano più attraenti.Il relativismo e il pluralismo
epistemologico prospettati da Feyerabend s’intrecciano,
dunque, a una presa di posizione politica che, negando ogni tipo di
assolutismo, favorisce una completa libertà, innanzitutto mentale.
Per questa strada, tuttavia, si corre il rischio di andare ben al
di là delle intenzioni sia degli antropologi che dei filosofi favorevoli
al relativismo. In Feyerabend scompare, infatti, del tutto il problema
della valutazione. Feyerabend, enfatizzando il valore della
libertà di credenze e di valori, sembra cadere in una forma di ‘soggettivismo
morale’ che agli antropologi, anche ai più ‘liberali’, appare semplice
utopia. È stato osservato a questo proposito che, se l’antropologia
viaggia attraverso esperienze culturali differenti ‘mettendo in prospettiva’
gli assunti della propria cultura, «non va confusa […] con un atteggiamento
relativista e genericamente tollerante. L’antropologia è un sapere
critico alla misura del mondo contemporaneo, non un ‘discorsetto’
sul fatto che sarebbe meglio capire e quindi giustificare qualsiasi
cosa”.E Winch,
pur pensando che gli antropologi sociali debbano avere una grande
tolleranza verso valori diversi da quelli della società in cui essi
vivono, ritiene che una posizione di ‘neutralità etica’ non sia “logicamente
imposta dal fatto che esistano culture con differenti moralità”.Per
Winch, riconoscerci aperti a nuove possibilità circa quello che può
essere accolto sotto l’etichetta di ‘razionalità’, non significa accettare
qualsiasi cosa.
Anche Evans-Pritchard,
pur ritenendo che quando si parla delle società primitive non sia
possibile parlare delle loro razionalità in termini di ‘patologicità’
rispetto a ciò che è normale per la nostra società (perché “ciò che
in un certo tipo di società è normale può non esserlo nella sua successiva
fase di sviluppo, e viceversa”), tuttavia sosteneva che
se non ci fosse una larga coincidenza fra la nostra attuale
cultura e tutte le altre, aggiunta a una psicologia di fondo comune
a tutti i popoli, né gli storici di popoli vissuti in tempi e luoghi
remoti, né gli antropologi che vivono in mezzo alle popolazioni primitive,
potrebbero arrivare a comprendere neppure in parte gli uni e le altre.
Questa idea di un relativismo ‘prudente’ attraversa anche
la filosofia: H. Putnam, ad esempio, ammette che esistono
molti modi di vedere e immaginare il mondo, senza per questo cadere
nel relativismo assoluto secondo il quale, se ogni verità è relativa,
allora nessuna descrizione del mondo è vera, per cui, come vorrebbe
Feyerabend, “tutto va bene”. Pur muovendosi sempre entro una istanza
realistica di fondo, Putnam ha preso atto dell’ineludibile relativismo
e pluralismo degli schemi concettuali. Suo obiettivo
allora è di rendere compatibili relativismo e realismo attraverso
quello che gli ha chiamato ‘realismo interno’ (o pragmatista), un
realismo ‘dal volto umano’:
credere in un ideale pluralistico
non equivale affatto a credere che qualsiasi ideale della fioritura
umana sia valido né più né meno di qualunque altro: rifiutiamo alcuni
ideali di fioritura umana perché infantili, sbagliati, insani, unilaterali.
Goodman aveva sostenuto che il fatto che i nostri criteri valutativi
siano relativi e talvolta in conflitto tra loro non toglie la nostra
aspirazione di avere un criterio per distinguere "ciò che è corretto
e giusto da ciò che è sbagliato". Elkana aveva sottolineato come sia inutile scegliere tra
realismo e relativismo dal momento che “la maggior parte delle persone
su moltissimi problemi segue contemporaneamente il realismo e il relativismo
(ossia ha una duplice linea di pensiero)": infatti, su molti
temi scegliamo una certa struttura di riferimento, pur sapendo che
non è l’unica, ma una volta fatta la scelta adottiamo un comportamento
realistico verso quella struttura.
Con Winch, che guarda alla filosofia di Wittgenstein, e con Putnam, che rielabora in modo originale le istanze dell’empirismo
logico ma anche del pragmatismo, viene posto un freno al relativismo
indiscriminato: viene riconosciuto il nostro bisogno di impegnarci
in giudizi di valore di carattere cognitivo ed etico fondati sull’ideale
di ‘fioritura umana’ che viviamo, e che ci consentano di dichiarare
che certe concezioni del mondo e della vita sono migliori di altre.
Da questo incontro, spesso difficile e sommerso ma vitale, tra antropologia
e filosofia in quella loro zona di confine che riguarda il valore,
è possibile apprezzare quanto ognuna abbia influito sulla ricerca
dell’altra.
È, infatti, merito dell’antropologia aver messo in luce il carattere
non ‘naturale’ o non ‘innato’ dei valori, e di essersi impegnata a
capire che cosa essi siano, non in sé, ma nelle loro manifestazioni
concrete; mentre è merito della filosofia aver discusso criticamente
la questione del valore, e aver cercato ‘ragioni’ capaci di giustificare
una ‘scelta’ in campo morale e politico.