Le difficoltà
di un rapporto con culture diverse ha fatto sorgere nella cultura
liberale occidentale un dubbio etico, ancora prima che conoscitivo,
quando essa si è trovata di fronte a modelli di comportamento che
violavano i suoi principi costitutivi.
Donald
Davidson, ad esempio, si è richiamato ad un
principio di carità
(o di umanità) come fondante l’attività interpretativa.
La differenza, l’errore, la devianza cioè sono comprensibili solo
sullo sfondo di, all’interno di, un linguaggio comune
e di un mondo di eventi condivisi. L’unità minima di significato
per l’interpretazione è data da un insieme di credenze collegate
tra loro, vale a dire dal rimando a quelle frasi che i parlanti ritengono
vere in determinate circostanze. Tutto questo mostra come Davidson
intenda collocare la sua teoria dell’interpretazione entro una teoria
generale del comportamento umano: possiamo comprendere e spiegare
ciò che un indigeno sta facendo quando sappiamo che cosa crede e come
la sua credenza si colleghi ad altre credenze. Dunque, il principio
di carità corrisponde ad una regola di benevolenza interpretativa
(“tratta l’altro come te stesso”) e ad una proiezione della nostra
razionalità (“ricerca la coerenza tra disposizioni ed atti”), due
condizioni che tendono a massimizzare l’accordo e a rendere minime
le differenze.
Questo, credo, è condivisibile, purché si riconosca a questa
precondizione un carattere pratico, piuttosto che vedervi l’assunto
di una umanità unificata. Riconosciamo e comprendiamo l’altro non
perché cognitivamente identico a noi, ma perché gli attribuiamo forme
di coerenza, credenze e finalità simili alle nostre. Pertanto, ironicamente
rispetto alle intenzioni, sembra prevalere un ‘atto di forza’ interpretativo,
tale da vanificare qualsiasi appello alla tolleranza.
Il criterio sostenuto da Davidson appare dunque troppo forte, poiché
esclude la possibilità di schemi alternativi che possano essere traducibili,
e tuttavia chiaramente alternativi in termini di credenze o
di razionalità, oppure intraducibili e tuttavia riconoscibili-comprensibili.
L’atto comunicativo di Davidson, che collega i due interlocutori fra
di loro e ciascuno di essi ad un mondo condiviso da entrambi (Davidson
parla a questo proposito di ‘esternalismo triangolare’), è possibile
perché vale un concetto oggettivo di verità che ci dice quando il
linguaggio è usato correttamente e, quindi, quando la traduzione può
dirsi riuscita. Così, però, non si permette al linguaggio di cambiare,
né si accetta di comprendere
credenze per noi ‘false’.