Questo sistema filosofico è molto conosciuto in Occidente, anzi, è l'unico, dei sei, celebre qui; purtroppo però in Occidente è diffuso solo uno degli ultimi gradini di un processo lungo e difficilissimo, ed è interpretato come ginnastica, cancellando tutte le importanti tappe precedenti necessarie ad una migliore comprensione. Per capire meglio questo sistema sarà quindi meglio analizzare la Yoga sùtra, lo scritto più vecchio in questo ambito, redatto da Patnjali, collocabile nel II secolo a.C.; anche qui l'autore è probabilmente un prestanome, e non si esclude che questo sutra sia solo un raggruppamento di conoscenze già possedute nel periodo vedico. Lo Yoga sùtra si ricollega alla tradizione brahmanica, e si rilevano somiglianze con la Katha Upanishad. Sin dall'inizio si definisce il fine ultimo di questa filosofia: la cittavrittinirodha, ovvero la cessazione della turbinosa attività del pensiero (citta=mente), ma anche vairàgya, cioé l'indifferenza, e una specie di fusione/identità con l'oggetto che si analizza (cfr. più avanti dhyàna), definito samàpatti, l'identificazione fra percepibile e percepito, detta prajnà; questa è un po' una abbandono della razionalità per far posto all'intuito, dove però non c'è un principio pensante o un'Idea che prevalga sulle altre (questo, già detto altrove, tipico del pensiero indiano). Eppure la prajnà continua a lasciare residui karmici, che portano al sàmsàra, proprio quello che si sfugge, ma questo residuo è "fortunatamente" positivo, perché è improduttivo, e quindi una volta che si sono persi i «semi» negativi, questa si libererà da sola, raggiungendo uno stato del tutto improduttivo per il karma, detto nirbìja.
La scuola dello Yoga si dirige all'etica, e al valore dell'esperienza meditativa; si potrebbe dire che dove ha terminato il suo cammino il Sàmkhya, poiché con questo si poteva pervenire al controllo della mente, semplicemente fermandosi e osservando gli elementi che compongono l'universo. Lo Yoga invece permette di bloccare tutta l'attività mentale subconscia: queste forze mentali subconsce sono dette vàsàna, e sono sempre in uno stato potenziale, quindi una mente non allenata, o meglio, mancante della conoscenza (citta), non riesce a individuarli e quindi cancellarli, questo perché l'uomo è attratto dalle cose, vive nel dualismo di ciò che è bello o brutto, piacevole o meno, e quindi rincorre o fugge da quello che gli procura piacere o dispiacere. Il pensiero o conoscenza sono infatti vincolanti secondo questa sùtra, perché ci obbliga ad una concezione della realtà dualistica, la mente cioé si illude di possedere la conoscenza, perché ogni volta si adatta alla realtà, invece di analizzarla per quella che è: in verità non esistono oggetti ben determinati, e così, continuando sulla via sbagliata, la mente si macula di queste false realtà, innescando anche qui il karman.
La via per smettere di avere una visione dualistica delle cose inizia considerando la presenza di un ishvara, un Signore: anche lo Yoga considera l'esistenza di una divinità singola, anche se non sit ratta di una divinità creatrice, bensì di un'entità priva di karman, che si potrebbe dire fornisce il modello da seguire per arrivare alla liberazione. Questo è uno spirito particolare (viene infatti detto purusavishesha). Ma lo yogin (colui che è adepto dello Yoga) può anche praticare la meditazione contemplativa per assurgere alla liberazione, alla dhyàna, concentrandosi su un solo elemento, e capendo così che la mente è addomesticabile, e che quindi la si può indirizzare anche ad una direzione non abituale, come quella che è la cittavrittinirodha; nel secondo libro dell'opera vengono fornite molte altre indicazioni, queste non sono che preliminari.
Nel secondo libro vengono definite le tre modalità dello yoga attivo (kryàyoga), che sono:
ascesi (tapas);
studio di sé (svàdhyàna);
abbandono (pranidhyàna).
Con «ascesi» si intende un comportamento austero e coerente, privo di passioni e desideri
Lo «studio di sé» riguarda l'apprendimento dei testi vedici, con l'accezione di una migliore conoscenza autentica della propria essenza.
L'«abbandono» è quello che si deve dare all'ishvara, cioé dedizione e attenzioni, in modo di poter fruire del sui influsso positivo.
Le maculazioni (klesha) che metteno in moto il karman sono 5:
l'ignoranza (avidhyà);
l'egoità (asmità);
la passione sensuale (ràga);
la repulsione (dvesha);
l'attaccamento (abhinivesha).
La prima intende la confusione fra quello che è e quello che non è eterno, ritendendo che il possesso delle cose dia felicità; la seconda definisce la sensazione di essere il ricettacolo reale delle varie sensazioni; il terzo è correlato al piacere, allo sforzo di ripeterlo con qualsiasi mezzo; il quarto è invece il medesimo per quel che riguarda il dolore, cioé voler sfuggire a tutti i csoti da esso; il quinto infine è la determinazione, che può riguardare ad esempio la realizzazione di qualche desiderio: questo avviene perché si è schiavi degli oggetti, e dei piaceri che possono dare.
Viene poi elencato il percorso necessario per rifuggire a tutto questo, un vero e proprio addestramento, peraltro molto duro; questo è composto da ben 8 fasi, dette angà:
astensioni (yama);
obblighi (niyama);
posture (asana);
controllo del respiro;
dissoluzione (pratyàhàra);
concentrazione (dhàranà);
contemplazione meditativa (dhyàna);
perfetto compimento (samàdhi).
astensioni
Sono le azioni da evitare, come ad esempio danneggiar qualcuno (ahimsà), mentire, rubare, desiderare spropositatamente (aparigraha), e avere una fervida sessualità (brahmacarya). Per la ahimsà, questa si basa su concezioni giaine e sulle Upanishad. Per quel che riguarda la sessualità, questa non pare venga abolita completamente, ma secondo quanto dice anche Vyàsa nei suoi commenti, poiché questa è una fase nella formazione del brahmano, che deve anche effettuare abluzioni e digiuni, potrebbe significare solo controllare i propri organi riproduttivi.
obblighi
Sono le azioni a cui si deve indulgere: la pulizia, il contentarsi, l'ascesi, lo studio di se stessi e l'abbandono.
Per pulizia si intende il lindore interiore ed esteriore; per contentarsi, essere soddisfatti della propria sorte; per ascesi si intende quella già citata nel kriyàyoga.
posture
Le posture (che assumono anche il nome di htha yoga, o yoga della violenza, per sottolinearne la difficoltà) sono la parte più famosa e conosciuta in Occidente, ma non è esattamente una disciplina come la concepiamo noi, bensì è l'allenamento fisico della citta, è un notevole sforzo fisico per porre il proprio controllo sul corpo; eppure, per quanto dicano molti maestri, non è necessario obbligare il corpo a fare esercizi che non è ben ingrado di fare: Patanjali afferma infatti che deve essere una postura comoda per il fisico. Nella notevole prova che si impone al se' materiale si coltiva l'idea che il corpo debba essere padroneggiato e addomesticato, perché altrimenti costituirebbe il più grande ostacolo alla liberazione.
controllo del respiro
Se nell'effettuare le posture lo yogin doveva già effettuare una respirazione particolare, qui si tratta di scandirla in tre momenti, dando loro un ritmo ben preciso, in modo che la respirazione non influisca sulla mente.
dissoluzione
Conseguente al traguardo di non far in modo che la respirazione influenzi la mente, vi è la prova molto particolare: gli organi sensoriali devo perdere le loro capacità, staccandosi quindi da quello che hanno sempre analizzato, assumendo così la forma della coscienza, e solo ora si risucirà a scorgere la realtà per quella che è.
concentrazione
Si inizia qui il percorso riservato alla mente, poiché fin'ora si era messo alla prova il fisico: così inizia il terzo libro, che termina con i restanti tre anga. Se la concentrazione è una pratica, allora la pratica p finalizzata all'addestramento, e dato che la mente tende a passare da un pensiero all'altra liberamente, qui le verrà insegnato di assumere una sola direzione.
contemplazione meditativa
La modalità qui espressa è opposta a quella precedente, ovvero consentire ai pensieri di affluire liberamente, ma questo esercizio non è inutile, perché solo così ci si accorgerà di quanto siano futili, o meglio, che non hanno una consistenza effettiva.
perfetto compimento
E' l'obbiettivo finale di tutto l'addestramento: si capisce che l'oggetto di tutte e 7 le precedenti attività è senza una sua forma propria, rendendo tutto il lavoro vano. Si arriva a questo a prescindere dalla propria volontà, perché non è possibile, afferma Patanjali, pensare al vuoto.

Nella restante parte del libro vengono elencati i siddhi, dei poteri "magici" che lo yogin acquisisce nel suo addestramento: la capacità di vedere nella mente altrui, di bloccare fame e sete e di levitare, ad esempio; eppure è fondamentale che l'adepto non se ne impossessi completamente, in modo da non farlo inorgoglire troppo per questi suoi poteri.
Nel quarto ed ultimo libro, infine, si analizza la conoscenza yogica che si è ricevuta dall'addestramento, dove a questo punto lo yogin è completamente libero, e si trova nella condizione di kaivalya, ovvero di isolamento, poiché è distaccato da tutto e da tutti nella sua unicità, ed è un beato vivente; è solo in questo punto che il termine yoga torna al suo significato primo: se inizialmente stava a delimitare un addestramento, ora indica la congiunzione della coscienza con gli oggetti. Yoga deriva infatti dalla radice yuj, congiungere.

inoltre in questa sezione:
yoga tantrico


L'Induismo
Il Buddhismo
Il Giainismo
Il Brahmanesimo
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