...secondo i Veda
Sebbene il concetto di meditazione si affermi esplicitamente nelle Upanishad, nei Veda si hanno accenni di protomeditazione. Soprattutto nel Rig-Veda meditazione vuol dire mettersi in contatto con un dio, e qui brahman ha il significato di preghiera verso il dio, di potere evocativo che ha la preghiera, tanto da permettere all'uomo di trascendere ed equipararsi alla divinità. Con il termine preghiera però non si deve intendere la nostra concezione, bensì una ripetizione di parole, un'orazione, un incantesimo, che a mano a mano assorbe profodamente, fino ad arrivare all'estasi. Coloro che avevano scritto gli inni vedici erano senza dubbio personaggi simili a sciamani, che con l'uso della soma (una bevanda a base di latte e sostanze allucinogene), canti e una profonda meditazione (il dhì, la cui radice riconduce al successivo termine dhyàna), si mettevano in rapporto col dio, quasi costringendolo ad innalzare l'uomo al suo livello. In questo contesto il soma è definibile anche come lo
stato nel quale l'uomo acquisisce poteri divini, dove il dhì è la capacità di avere visioni, l'àtman la divinità di se stessi e il purusha l'uomo originario, la conoscenza del quale è l'unica via per vincere la morte.
Per quel che riguarda più strettamente le metodologie utilizzate per la meditazione, si possono definire, secondo la teoria di Jeanine Miller, di 3 tipi:
mantrica, basata sulla ripetizione di mantra, formule, preghiere ecc.;
visiva, concentrandosi ovvero sul sole, la luce o il fuoco;
più inebriante, che colpisce "cuore e mente", basandosi cioé su un concetto che impegna tutta l'attenzione del celebrante.
Nel passaggio dai veda alle Upanishad si noterà che la meditazione nasce come interiorizzazione del rituale, ma questo è già definibile in minima parte nei Veda.
...secondo le Upanishad
La pratica della meditazione è spiegata in questo testo con grande evidenza, ma soprattutto si ripete continuamente che il Dio è dentro di noi, e che una preghiera non è sufficiente a venirne a conoscenza, ma è necessaria la meditazione, che si rivolge all'interiorità di ogni individuo, il quale è sede e insieme antagonista del Dio. Le upanishad sono testimonianze di uomini vissuti 3000 anni fa' che testimoniano l'esperienza positiva del domare la mente e l'arrivo allo stato di non pensiero.
Nella Brihadaranyaka upanishad, l'uomo è immerso in un sogno più o meno profondo, cioé la sua ignoranza e i condizionamenti che essa da; eppure dentro alberga uno spirito incondizionato e incontaminato che col suo risveglio risveglierà anche colui nel quale alberga. Solo il corpo è un frutto genetico, mentre lo spirito non dipende da nessuno di questi condizionamenti; pertanto la risposta per sapere chi siamo e da dove veniamo è dentro di noi, è la piccola parte di brahman che c'è in ogni individuo. L'atman è libero da morte, vecchiaia, sofferenza, fame e sete.
Per la Chandogya upanishad la dhyana (meditazione) è in grado di trascendere la propria conoscenza che normalmente è offuscata, e poiché la dhyana è la conoscenza, coloro i quali la raggiungeranno raggiungono la grandezza.
Sempre in questa upanishad il sé viene descritto come «il più piccolo granello di senape o di miglio» ma nello stesso tempo esso è più grande di tutti i mondi.
La Brihad upanishad fornisce una esauriente spiegazione dell'atman, per quanto esso possa essere definito; l'atman è ciò che si trova prima della parola, della sensazione e del pensiero, all'inizio esisteva solo l'atman sotto forma di purusha, e sentendosi solo, dopo aver pronunciato le parole "io sono", si divise in due, e da tale divisione nacquero l'uomo e la donna; la divisione proposta da questa upanishad comprende quindi due divisioni, una fra oggetto conoscente e conosciuto, e l'altra fra maschio e femmina. Per ritrovare la nostra unita primigenia bisognerà quindi far il percorso inverso. A questo punto, poiché l'atman è brahman, chi si definisce diverso dalla divinità sbaglia, ed è anche per questo che non si riesce a definire l'atman, proprio perché deriva da un concetto indefinidibile. Il momento nel quale dentro al Sé c'è una forza di attrazione per la ricongiunzione col brahman si è in amore.
Nella Taittiriya upanishad si ripete nuovamente il rapporto brahman/atman, ma questa volta l'uomo è composto in maniera diversa, non più come due divisioni. Esso infatti è formato da 5 involucri (kosha) concentrici:
il corpo fisico (annamaya kosha), fatto di cibo;
il corpo fatto di prana (pranamaya kosha);
gli organi sensoriali e la mente (manomaya kosha);
coscienza-conoscenza (vijna kosha);
la beatitudine (ànanda maya kosha).
Sarà solo attraverso la meditazione (tapas) che l'individuo si libererà dei vari involucri, fino ad arrivare al suo vero essere, conoscendolo così perché si percorre il percorso inverso della creazione, che secondo questa upanishad consiste in un atto di coscienza-conoscenza.
Anche per l'Aitareya upanishad è tramite la meditazione che ritrova il Sé, perché sempre per l'autoconoscenza del Sé che ha proiettato da se stesso un'altra immagine di sé, ci si può avvicinare a quello che siamo davvero; viene quindi ammessa una dualità fra microcosmo e macrocosmo, l'atman e il brahman. La conoscenza-meditazione vengono qui intese in termini di cosmogonia.
Nella Kausitaki upanishad l'atman è concepito come prana, una emanazione del brahman, che è il principio cosciente della vita, che si articola nelle facoltà conoscitive umane (il brahman è qui considerato come una vera e propria divinità). Scopo dello yogi sarà quindi quello di controllare il prana trattenendolo come un respiro, con un percorso particolare grazie al quale si otterranno leggerezza, salute, libertà di desiderio, un bel colorito, una voce gradevole, un profumo piacevole e la diminuzione degli escrementi solidi e liquidi. Il brahman potrà rivelarsi durante il percorso sotto differenti forme, come nebbia, sole, vento, lucciole, lampi, cristalli e luna, e il fuoco ne libererà l'adepto da malattia, vecchiaia e morte.
Anche per questa upanishad la creazione dell'universo è avvenuta tramite le tre guna (sattva, rajas e tamas, come nella Sàmkhya).
E' nella Katha upanishad però che si attinge alla vera meditazione, senza tecniche che comprendono rituali, preghiere ecc., ma assorbendosi nel divino, e solo in questo modo si ferma il samsara; il metodo consiste nela rimanere sereni e concentrati, coi sensi disciplianti, riconoscendo alla fine l'atman come primo fruitore del senso del'essere-in-quanto-conoscere. Sempre in questa upanishad si definisce l'atman come un qualcosa che è presente in ogni creatura, adattandosi a tutte le forme ma rimanendone estraneo, e può essere afferrato attraverso l'immedesimazione del soggetto nell'oggetto quando le facoltà conoscitive sono disinnestate.
La Maitreya upanishad propone un'ulteriore soluzione per definire l'atman, paragonandolo ad un'anima errante. Ci sarebbero due atman, uno condizionato, e uno non condizionato dalle azioni nelle vite precedenti, dove il primo è quello corrotto e confuso, che sbanda; solamente nel momento in cui si troverà un ordine interiore, dove i simboli scompaiono, ci sarà una identificazione col purusha, venendone assorbiti.
Per questa upanishad lo yogi sarà quello che riesce a mantenersi in uno stato percettivo non condizionato dalla brama conoscitiva. Interessante è anche un altro aspetto qui analizzato: l'importanza del cibo, che essendo la base della nostra vita è visto come una energia divina.
Nella Mitreya è anche delineata la pratica, in 6 momenti, dello yoga, e una tecnica di concentrazione consistente nel premere con la punta della lingua contro il palato e contemplare l'atman tenendo sotto controllo la voce, il respiro e la mente: solo con l'arresto dell'attività mentale si arriva all'identificazione con il Sé. Altra tecnica yogica è quella per far salire l'energia kundalini-sakti su per la colonna centrale del susumna: bisogna premere la lingua contro il palato, pronunciare ripetutamente la sillaba Om, bloccare il respiro tenendo sotto controllo mente e sensi. Altra maniera è quella di concentrarsi sul suono che si percepisce appena ci si tura le orecchie, o sull'assenza del suono. Concentrandosi invece sul chakra posto fra le sopracciglia e il mantra Om si realizzerà che il suono sale verso l'alto e si riassorbe nel non-suono.
Il calore è considerato segno del tapas, o manifestazione dell'energia della creazione.
Secondo questa upnishad la purificazione si ottiene bloccando completamente le attività della mente, cessandone le sue consuete attività.
Nella Kena upanishad si torna al paradosso della conoscenza, sostenendo che una persona con una normale educazione non potrà pensare brahman e atman, i due elementi che rendono possibile il pensiero, perché una mente normale è abituata a pensare tutto in base alle dualità, mentre brahman e atman sono una cosa sola; anche qui, per venire a conoscenza della verità somma è necessario cessare la normale attività mentale, considerando la mente stessa come uno strumento che percepisce vari segnali, dove quello del Sé è il più debole: riuscendo a zittire tutti i segnali che non siano quelli del Sé si arriva alla conoscenza. Questa esperienza è ricollegata all'immagine di un lampo o un ricordo improvviso.
In preparazione "La meditazione secondo la Bhagavad-gita/gli Yogasutra di Panjatali/il tantrismo".
last update: 5 ottobre 1999
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