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Gherardo Ghirardini
DECIMA TAPPA
09/02/2002
LA VETTA
(trekking)

Campo 2 (5900 mt) - Aconcagua (6962 mt)
Tempo di percorrenza: 8.00 ore + 5.00
Difficoltà: Alta
Dislivello : +1062 mt; -1062 mt

Sono le 3.30 del mattino e suona la sveglia. Davide ed io ci guardiamo alla luce delle pile per un attimo, poi ognuno, in silenzio prepara il suo zaino e ci vestiamo. Riccardo è gia pronto e scalda un po' di the per la colazione. Riempiamo i thermos di the bollente e usciamo dalle tende. Una stellata spettacolare ci accoglie; non c'è la luna ed è talmente buio che non si distingue nemmeno la sagoma imponente dell'Aconcagua. Fa un freddo micidiale che ti penetra dappertutto. Parlotto con Riccardo:
"Allora, hai deciso?"
"Si, vado da solo."
"Accendi la radio, ci sentiamo fra due ore, se tutto procede bene"
"Ok, buona fortuna"
"Ci vediamo in vetta"
Alle 4.40 parto nel buio più assoluto, accompagnato solo dalla sfera bianca della mia pila frontale. Attraverso il ghiacciaio in leggera ascesa, non ci sono tracce. All'improvviso, guardandomi intorno, ho un attimo di sconforto: "Cosa sto facendo? Solo, a 6000 metri, di notte, su un ghiacciaio che non conosco... senza una traccia... e se davanti a me c'è un crepaccio?" Ho quasi l'impulso di tornare alla sicurezza della tenda,  poi  vedo due piccole luci che risalgono il pendio verso la diretta dei Polacchi e riprendo coraggio. "Sono partiti, buona fortuna...". Perdo un po' di tempo per tentare di capire dove potrebbe essere una traccia; le nevicate  pomeridiane e soprattutto il vento micidiale la cancella costantemente. Il freddo si fa sentire, non riesco a scaldare le mani nonostante i doppi guanti e la mia maschera è ghiacciata internamente. Dopo un mezz'ora sorge la luna e finalmente riesco a distinguere i contorni delle montagne. Silenzio ovattato e freddo, proseguo mentre il cielo si tinge di rosso alle mie spalle. Fra un po' sarà l'alba e si alza un vento gelido che risale la valle e mi prende alle spalle. Sono concentrato a controllare quello che sta succedendo al mio corpo e non riesco a pensare ad altro. Fare fotografie non se ne parla nemmeno; troppo freddo e poi meglio non sprecare energie in questo momento. Mi ero ripromesso di controllare l'altimetro ogni mezz'ora per vedere come procedevo, ma nemmeno quello riesco a fare. Quando è ormai chiaro, distinguo tre puntini dietro di me: finalmente non sono più solo.
Alle 6.30 Riccardo mi chiama alla radio.
"Sono quasi fuori dal Falso dei Polacchi, quota 6300, tutto bene... e voi?"
"Qui è più dura del previsto, c'è molto vento e fa freddo, siamo lenti... ci sentiamo fra un'ora"
Riprendo a camminare mentre il pendio si fa un po' più ripido; sono sempre all'ombra e i puntini dietro di me si avvicinano.
Verso le 7.30 arrivo ad "Indipendecia" alla confluenza con la via Normale che proviene da Plaza de Mulas. Il sole è alto, ma non scalda per niente. Intorno c'è qualche alpinista che risale dalla Normale. Chiamo Riccardo:
"Sono ad Indipendencia, tutto bene..."
"Per noi è dura sempre vento e freddo, siamo più bassi di te"
Bevo una "bomba" di maltodestrine e schifezze varie, un po' di the e sto seduto come imbambolato, senza pensieri. Vedo la gente passarmi davanti, ma è come se non ci fosse. L'altitudine si fa sentire e non ho nessuno stimolo a proseguire. Dopo mezz'ora circa mi riprendo e ricomincio a salire. Intanto il vento è rinforzato e adesso fa quasi male, anche se ho solo in naso scoperto.
Qui comincia un lungo traverso battuto dal vento e ancora in ombra che porta, con pendenza modesta, ad un ampio vallone innevato. Cammino ancora bene: 50 passi alla volta! ma ogni tanto devo fermarmi per far rinvenire mani e piedi che si intorpidiscono in un batter d'occhio (anche questo semplice esercizio e faticosissimo). Entrati nel vallone la traccia sale quasi sulla massima pendenza e, sia il numero, che la frequenza dei passi, diminuiscono; riesco a farne 10-15 alla volta, poi devo fermarmi perchè i polmoni mi fanno male e il cuore mi scoppia.
Il vallone termina su un poggio riparato da un roccione sporgente. Mi fermo per bere e  mi accorgo che non ho sensibilità su un dito. Faccio roteare il braccio più forte che posso fino a che una fitta mi fa capire che il sangue ha ripreso a circolare regolarmente. Poco più sotto di me c'è un gruppetto di alpinisti fermo intorno ad un uomo seduto per terra che si friziona con la neve i piedi. Sono bianchi come il ghiaccio!!!
Da questo punto inizia la Canaleta, l'ultimo tratto ed il più ripido che porta direttamente sulla Cresta del Guanaco appena 50 metri sotto la vetta. La pendenza è di 45° e si fa una fatica incredibile; mentre cammino continuo a pensare alla vetta, al fatto che ogni passo che faccio mi avvicina alla meta, e quando non ce la faccio proprio chiedo ai miei amici che sono a casa di darmi la forza di proseguire. Anche se non la vedo, la vetta è sopra di me e la mente è sempre fissa su di lei. In questo stato quasi di trance arrivo sotto le roccette che portano alla Cresta del Guanaco; quattro passi e sono sulla cresta... Uno spettacolo indescrivibile mi fa venire un nodo alla gola. Di fronte a me l'affilato spartiacque che collega le due cime dell'Aconcagua e la strapiombante parete Sud che sparisce nel nulla sotto di me. Mancano solo più 20 metri per la cima. "Ce l'ho fatta, ce l'ho fatta!", continuo a ripetermi mentre con passo quasi agile supero le roccette sommitali e in fine mi inginocchio di fronte alla croce di vetta.Sono le 13.38 e sono a 6962 mt. Piango e prego, ringrazio la Signora della Montagna che mi ha permesso di arrivare fin qui per ammirare uno spettacolo naturale indescrivibile. Da qui la terra è bellissima. Non c'è una nuvola in cielo ed il vento non è fortissimo. Fa sempre -25°, ma non me ne accorgo nemmeno. Piango come un bambino per un quarto d'ora. Ci sono riuscito, penso alla mia famiglia, ai miei amici, e ai miei due compagni che sono sulla montagna.
"Riccardo, sono in vetta, c'è un sole bellissimo, sono in vetta."
"Complimenti, noi siamo molto indietro, a circa tre ore, è dura..."
"Non posso aspettarvi, torno al Campo 2, coraggio..."
Dopo la foto di rito ridiscendo dalla vetta, incontro altri alpinisti e mi riconosco in quelle sagome piegate in due dallo sforzo, aggrappate ai bastoncini in cerca di ossigeno. La discesa è lunghissima e comincio ad essere stanco. A metà del Falso dei Polacchi la radio chiama: è Davide che mi dice che sono ancora ad un'ora dalla vetta e che Riccardo sta male. Mi chiede di ritornare ad aiutarli, ma io sono troppo stanco e rispondo che vado al campo 2 ad avvertire Ruggero, lui che è stato fermo tutto il giorno, sarà più in forze e potrà andare ad aiutarli.
Mi butto a capofitto in discesa e quando sono in vista del campo 2 cerco di fare qualche segnale.Urlo a squarciagola e agito le braccia: se Ruggero mi vede spero capisca e mi venga incontro; ma al campo 2 non c'è nessuno, solo un biglietto: "Sto male, sono tornato al campo 1, ore 10.30...".
Chiamo Davide e gli spiego la situazione suggerendo di chiamare il soccorso dei guardiaparco, poi resto in attesa, sfinito, in tenda. Le borracce di the sono gelate, non c'è nulla da bere e devo sciogliere un po' di neve per farmi un brodo bollente. Mi infilo nel sacco a pelo semi vestito. Devo riposare!!!
Alle 19.00 Davide mi chiama e mi incita ad andar loro incontro; sono a metà del Falso dei Polacchi.
Mi rivesto e parto incontro ai miei compagni, non so ancora come sta Riccardo. Fa freddo ed è quasi l'imbrunire. Dopo 1 ora circa vedo due sagome che scendono verso il campo 2; sono loro, e stanno bene! Finalmente dopo 10 minuti ci abbracciamo, nella luce fredda della notte che sta per arrivare. Siamo al campo 2 alle 20.00 passate.
Ce l'abbiamo fatta; adesso possiamo dire che ce l'abbiamo fatta.
Non faccio nemmeno a tempo ad infilarmi nella tenda che si alza un vento fortissimo che ci impedisce anche di accendere i fornelli nelle absidi. Davide rimane nella tenda con Riccardo e io resto rintanato nella mia, da solo. Sono spossato ed ho un dolore fortissimo al plesso solare che mi spezza il respiro. Ingoio due pastiglie di sonnifero sperando di addormentarmi presto.

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